Insegnare in un’altra lingua: alcune idee sul CLIL

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Dall’anno scolastico 2014-15 l’insegnamento CLIL (Content and Language Integrated Learning) sarà nella scuola italiana una realtà su larga scala. Vale la pena di cominciare a pensarci da adesso.

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Imparare a scuola una lingua straniera come si è fatto finora non basta per le esigenza di formare una popolazione europea sempre più integrata linguisticamente. L’insegnamento di una disciplina curricolare in una seconda lingua, attraverso appunto il CLIL (si veda qui per capire il profilo delle competenze necessarie), può allora essere uno strumento prezioso per favorire la motivazione allo studio della lingua straniera; può offrire importanti occasioni per il consolidamento delle competenze linguistiche degli studenti; inoltre, può offrire occasioni ricche per favorire negli studenti quella flessibilità mentale che nasce dal saper cogliere nelle lingue gli impianti concettuali, le forme di vita e le Weltanschauungen più disparate. Si contribuisce così a formare gli allievi all’interculturalità e all’internazionalità.

Lasciando da parte le giuste perplessità sindacali e non solo (a titolo di esempio: CISL, CGIL, OrizzonteScuola), vorrei provare a raccogliere alcune idee circa questa metodologia, limitandomi al piano della didattica. Si tratta di riflessioni che ho maturato anche in seguito al corso sul CLIL che ho frequentato, coi fondi Comenius, presso l’IPC di Exeter (UK). Si tratta di una riflessione ad alta voce che mi pare importante, dato che la metodologia CLIL, a fianco e insieme all’utilizzo delle nuove tecnologie nella didattica, soprattutto tablet e LIM, sembra destinata a rivoluzionare l’insegnamento. Succederà infatti che, e l’enfasi è giustificata, presto nulla sarà più come prima.

Studiando la metodologia CLIL, mi è parso subito chiaro che essa, per come è proposta attualmente, comporta un cambio radicale della mentalità attualmente diffusa che ora prevede una centralità del docente nell’attività didattica. Sarà invece necessario ridefinire la pratica didattica incentrandola sul discente, rendendolo il vero soggetto attivo. Non vi potranno più essere lunghe lezioni frontali: gli studenti non riuscirebbero a reggerle per la doppia difficoltà della disciplina e della lingua. Molti insegnanti dovranno perciò accettare di “scendere dal palco”: si tratterà di una rinuncia che costerà loro cara in termini psicologici, al punto da mettere in discussione il modo più o meno consapevole con cui hanno concepito la propria funzione docente, magari per un’intera vita. Molte attività saranno gestite dagli studenti che disporranno di una certa autonomia. Questa scena nella sua idealità senza dubbio affascina, ma anche preoccupa, pensando che per molti insegnanti potrà essere particolarmente difficile mantenere un buon clima di lavoro in una situazione di interazioni tanto decentrata. Inoltre, l’esigenza che anche gli allievi più deboli nelle lingua straniera abbiano gli strumenti per acquisire i contenuti farà ridurre la quantità e la complessità dei contenuti. La programmazione disciplinare e forse anche la pratica didattica del docente CLIL dovranno coordinarsi con il collega di lingua straniera e questo potrebbe non essere facile. Almeno in una prima fase, mancheranno o saranno comunque limitati gli strumenti didattici disponibili. Le nuove tecnologie sopperiranno in parte alla mancanza, naturalmente. Nondimeno, l’iniziativa e la professionalità dei docenti saranno fondamentali per la programmazione didattica che dovrà provvedere a raccogliere e, persino, costituire i materiali didattici necessari. C’è poi il rischio che l’acquisizione delle competenze circa la terminologia tecnica disciplinare siano tanto sbilanciate a fissare il lessico straniero, che la corrispondente terminologia in italiano vada persa e così si formino studenti più competenti a dire certe cose in una lingua straniera di quanto lo siano nella loro propria lingua madre. Sarebbe, quest’ultimo, un esito fallimentare della didattica CLIL.

Immagino già la reazione stizzita alle mie osservazioni da parte dei progressisti ideologici della didattica, degli sperimentalisti per partito preso. Si sarà già pronti ad addossarmi le accuse più gravi a cominciare da quella di miope conservatorismo. È allora urgente che io professi la mia passione per le sperimentazioni e la mia apertura mentale all’innovazione e però al contempo che chiarisca che si è intelligenti a innovare se, mossi dalla curiosità per il nuovo, non si tace sui problemi. Ciò costituisce un primo passo per programmare strategie che li neutralizzino, per quanto possibile, e magari li trasformino in punti di forza. Inoltre, un tale passo contribuisce a preparare nel tempo a un cambio di mentalità che, se forzato in tempi brevi, risulterebbe più doloroso.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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