Il declino dell’industria pesante e manifatturiera tradizionale è all’origine dell’abbandono di fabbriche e di capannoni industriali per migliaia di chilometri quadrati, circa novemila per l’esattezza, corrispondenti al 3% del territorio nazionale. Il fenomeno, iniziato alla fine degli anni Settanta, interessa le grandi città – il 30% di queste aree dismesse è collocato in ambito urbano – ma anche le aree montane, le valli alpine e appenniniche e molte zone prevalentemente agricole che durante il Novecento sono state destinate a un uso industriale. In Lombardia, in particolare, sono stati individuati otto milioni di metri quadrati occupati da 200 aree dismesse nelle sole tre province di Milano, Monza Brianza e Lodi.
Si tratta di un fenomeno che probabilmente è sotto gli occhi di ciascuno, e che suscita tra l’altro l’interesse di chi, attraverso il recupero delle aree dismesse, intende contenere il consumo di suolo, evitando che si vada a costruire su territori agricoli o boschivi, ma di fatto continuando a perseguire i medesimi obiettivi di sviluppo economico che hanno determinato, nei decenni passati, la costruzione di quelle fabbriche e di quei capannoni ora in disuso.
Diverso è l’approccio del poeta Flavio Santi, che a una di quelle aree dismesse affida direttamente la parola, dando voce a un canto e a un ragionamento di altra natura.
Canto di un’area dismessa
“Lavorarono qui, qui penarono”
(V. Sereni)
Vedete io non sono bello
(o bella dovrei dire?, non conosco il mio sesso)
ridotto a sterpaglie, ruggine e amianto
un interminabile muro mi copre e mi rapisce
dicevo, io non sono bello
come una chiesa, fiero come un castello
eppure porto l’impronta della vostra vita
sono qua da decenni, mi conoscete
come conoscete vostro padre o vostro figlio,
presenza ormai scontata,
eppure sono una forza del passato
terribile ma inerme
pronta (ecco che divento donna) a tutto.
Adesso sembrate temermi, sì, come
fossi l’ultimo sforzo andato male.
Lo sforzo di quando ero viva
e loro erano vivi e voi lo eravate e
tutto aveva un senso,
il senso. L’unico possibile e immaginabile,
l’unico passabile in una vita senza centro
in una vita di cemento,
di fibre artificiali e inganni industriali
quando bello di una vita moderna e funzionale
mi ergevo alla mia condanna,
e non lo sapevo,
fiero di una fierezza molto anni Cinquanta –
gli anni di Bartali Coppi e Mira Lanza –
e morivo, e non lo sapevo, di
una morte lenta e viscosa.
Cominciamo a rileggere il testo a partire dall’epigrafe: un verso di Vittorio Sereni preso da Una visita in fabbrica, una delle poesie della raccolta Gli strumenti umani, del 1965.
È una lunga poesia che Sereni ha finito di scrivere nel 1961, ma porta in calce le date 1952-1958, un riferimento puntuale all’epoca del cosiddetto miracolo economico italiano, il momento storico in cui si affermano neocapitalismo e consumismo. Il raro suono delle sirene di una fabbrica, «che ora non suonano più per ragioni di pubblica quiete», scrive Sereni in un suo quaderno di appunti, dà origine a una rappresentazione complessa, frammista di riflessioni liriche e spezzoni di dialogo, di quel mondo industriale e, di riflesso, della condizione dell’intellettuale – colui che compie la visita in fabbrica, appunto – il quale, armato di un’educazione umanistica, non è in grado di capire davvero ciò che osserva e può solo intuire la propria inadeguatezza.
Si legge in una lettera di Sereni pubblicata nel 1961 sulla rivista «Nuova Corrente»:
Ma ecco cosa in realtà ci unisce [noi intellettuali] agli operai, questo senso di rassegnazione che in loro sempre più pericolosamente è rassegnazione al miraggio del benessere, prima consistente vittoria dei padroni su di loro, primo effetto della politica paternalistica e neocapitalistica…
Sessant’anni dopo, dunque, Flavio Santi riprende un verso di questa poesia – «Lavorarono qui, qui penarono» – per evocare la presenza ormai fantasmatica degli operai, e per ribadire quel senso di rassegnazione che già Sereni aveva così lucidamente dichiarato, senza autocompiacimenti o nostalgie di sorta.
Anche per Santi, non è ravvisabile alcun rimpianto per un passato industriale o preindustriale, mentre traspare, quando parla di un «ultimo sforzo andato male», l’ammirazione per quella vitalità progettuale che ancora è visibile nelle rovine dell’area dismessa e che addirittura sembra far paura.
Di quella sicurezza di sé, di quella fiducia nelle umane possibilità e nel progresso che sono state all’origine dell’era industriale, adesso rimane una traccia, un keepsake, la scia lasciata da quei corpi e quegli oggetti che almeno credevano di muoversi in una direzione, verso un futuro che alla fine si è dissolto, un progetto che non si è realizzato.
Il sociologo Paolo Jedlowski, in un suo prezioso libro intitolato Memorie del futuro (Carocci 2017), ha creato i presupposti per affrontare lo studio di queste memorie dei futuri desiderati, ravvisabili, tra l’altro, proprio in quei villaggi abbandonati e in quelle aree dismesse che, a guardar bene, raccontano storie di fallimenti e, anche, di speranze, di illusioni e di desideri che hanno avuto un ruolo determinante nella vita di persone e comunità, nonostante siano poi svaniti nel nulla.
A partire dalla lettura di questa poesia, tratta da un libro intitolato Quanti e significativamente sottotitolato Truciolature, scie, onde, 1999-2019 (Industria e Letteratura 2020), possiamo avviare una riflessione anche personale sulle nostre aree dismesse, ovvero su quelle tracce – i trucioli, gli avanzi, i residui di lavorazione – che parlano non di chi siamo stati ma di chi avremmo voluto essere, non di quel che siamo diventati ma di ciò che abbiamo abbandonato e che, tuttavia, ancora parla di noi, a noi, per suggerirci che non è ancora finita, che il senso al nostro agire che abbiamo perduto possiamo continuare a cercarlo, sia pur rassegnati a vivere nel dubbio e nella contraddizione, circondati da stimolanti rovine.
Flavio Santi, Quanti (Truciolature, scie, onde, 1999-2019), prefazione di Niccolò Scaffai, Industria e Letteratura, Massa 2020