Uomini senza donne

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La classifica che ha avuto più visibilità in questi giorni è sicuramente quella della Lettura. È bastato non inserire nessuna scrittrice tra gli autori dei primi dieci libri dell’anno. Si parla di 166 giurati, di cui 120 uomini. Una novità che nel mondo editoriale italiano non si prendano in considerazione le donne quanto gli uomini? Certamente no.
“Quale colore? Vento di protesta a Portorico”, marzo 2003, Utuado, Portorico – Fotografia di Amy Toensing.

L’intervista su Repubblica del direttore della Feltrinelli di Bologna che ammette di non leggere molte donne non ha colto di sorpresa scrittrici o lettrici che commentando il libro di questa o quell’autrice avranno sentito l’espressione molte volte. Io stessa ci sono inciampata ogni tanto.
“Non leggo le donne”.
Fa un effetto strano quando lo dice uno scrittore. O un giornalista. O un critico. Persino nella variante addolcita: “Non leggo molte donne”. In questo caso le poche prescelte sono spesso straniere. Niente di male, intendiamoci: leggere solo stranieri resta una scelta personale e, considerando il livello di alcune penne del panorama letterario mondiale, è possibile che un autore italiano stenti a infiltrarsi in una classifica tanto esclusiva. Se ci riesce, però, in via del tutto eccezionale, potete scommettere che è un uomo.

Ci inciampo ogni tanto, come tutte. E fa sempre male.
Qualche volta ne parliamo tra noi e qualche volta no temendo la lagna vittimista dell’ultimo arrivato. Se interveniamo di certo è per invidia e sopravvalutazione personale: in fondo non siamo così brave.
Poi leggiamo articoli su chi sia più influente nell’ambito delle riviste e non ci troviamo una sola giornalista o scrittrice. Eppure le conosciamo, le leggiamo. Eppure esistono.

Leggiamo articoli su chi sia più influente nell’ambito delle riviste e non ci troviamo una sola giornalista o scrittrice. Eppure le conosciamo, le leggiamo. Eppure esistono.

Inciampiamo e ci facciamo male. Torniamo a parlarne tra di noi oppure pubblicamente a costo di sembrare pesanti, aggressive, incattivite.
Segnaliamo i festival con quasi tutti o tutti i relatori uomini. I premi con la giuria al maschile. Li ascoltiamo ribattere mentre ci prendono in giro perché invochiamo le quote rosa quando ogni selezione andrebbe fatta solo in base alla qualità del lavoro, al livello della scrittura. È vero, è giusto: si dovrebbe guardare solo al libro e che vinca il migliore.
Ma se i dieci migliori libri dell’anno sono di scrittori e i giornalisti più seguiti sono uomini e i relatori più accreditati pure, cosa significa? Che gli uomini sono scrittori migliori, giornalisti migliori, relatori imprescindibili.

Si dice che il sessismo non c’entri. Si invoca la libera scelta del libro nella piena indifferenza rispetto al sesso dell’autore. Però non si dice mai “Leggo gli uomini” o “Gli uomini scrivono in questo modo”, sarebbe stupido: non si possono accomunare tutti gli autori in base al sesso, né esiste una scrittura maschile.
Con le donne si può fare, invece. Si può dire non leggo “le donne”, come se fossero un genere letterario, un tutt’uno da Rosamunde Pilcher a Lauren Groff. Esiste una scrittura femminile a quanto pare, una sottocategoria di scrittura che si può scegliere di leggere oppure no.

A quindici anni io non leggevo molte donne. Mio malgrado.
Facevo il liceo classico e studiavo filosofia e letteratura: filosofi, scrittori, poeti, erano tutti uomini. Studiavamo la Storia. Anche quella era fatta dagli uomini.
Le Ipazia e le Gaspara Stampa spuntavano qua e là ogni tanto quando il professore illuminato decideva di rendere più completo il suo percorso. La professoressa di Storia assegnava la scheda sulle suffragette in fondo al capitolo. Nei temi eravamo invitati a parlare di parità e uguaglianza tra sessi: una conquista recente delle donne, frutto di una serie di concessioni degli uomini ottenute a forza di proteste, scioperi, visi ostinatamente buoni offerti a un cattivo, antichissimo gioco.
La scuola dunque non mi ha insegnato che le donne non hanno avuto un peso per l’umanità, ma me l’ha lasciato intuire perché non ha fatto abbastanza per mostrarmi come funziona un contesto squalificante e repressivo: ha permesso, insomma, che nella nostra formazione un numero inferiore di artiste e scienziate significasse automaticamente “meno capaci di”.

In altre parole, l’amore raccontato da una donna fa subito romanzo rosa, quello di Marias, Roth e Murakami se non è da Nobel potrebbe sempre esserlo.Tra tutte le voci che hanno commentato la classifica del Corriere in risposta a un pezzo di Lipperini o Murgia spicca la posizione di chi sostiene di non guardare al sesso dell’autore ma di scegliere solo in base alla trama o al tema trattato. Dimenticano l’aspetto marketing del libro, la necessità di venderlo a un determinato pubblico. Dimenticano che si compra una storia anche perché si ha fiducia nelle qualità di chi la scrive.
In altre parole, l’amore raccontato da una donna fa subito romanzo rosa, quello di Marias, Roth e Murakami se non è da Nobel potrebbe sempre esserlo.

Un’altra cosa infine mi affascina della questione: il pensiero che esista davvero un immaginario femminile o almeno un punto di vista influenzato da quello che significa essere una donna a contatto con gli eventi e col sistema. Una forma di interpretazione delle cose simile a quella maschile ma diversa per alcuni tratti. Né migliore né peggiore. Attenta a restituire un’immagine del mondo nata da un’esperienza personale e collettiva al tempo stesso. Prendiamo “Gli anni” di Ernaux: c’è l’universale racconto della vecchiaia, del progresso, della fuggevolezza di ricordi ed emozioni. Ma c’è anche il soffermarsi sull’introduzione della pillola anticoncezionale perché ha cambiato la storia delle donne. Fare sesso senza rimanere incinte segna nella storia occidentale il passaggio da un prima a un dopo. Ora, un autore maschio non è incapace di intuire e raccontare un’esperienza umana così significativa; è più difficile che lo faccia, però, perché gli manca il vissuto o l’attenzione per situazioni che ritiene secondarie. Secondarie, appunto. Il paragrafo sul manuale intitolato Storia delle donne. L’“e poi” rispetto a quello che già si è raccontato.

“Non leggo molte donne” dicono, quindi, e senza particolare rammarico perché non avvertono il sessismo insito nell’affermazione. Di più: non gli importa. Non hanno nessuna curiosità per quella che ritengono un’interpretazione del mondo meno interessante.

Questi non-lettori sono uomini e sono donne e non mi meraviglia. La società ci ha abituati a pensare che pur con mille sfumature diverse di pensiero esista un modo di vedere la realtà e di raccontarla che vale per tutti: lo chiamiamo umano, ma è maschile, nel senso che è appannaggio degli uomini. Poi c’è l’immaginario femminile, il completamento del canone, che può essere importante, magari, ma non necessario.
Del resto lavoriamo nel settore, siamo studiosi di letteratura, esperti, giornalisti, editori, librai: se fossero necessari questi libri di donne li leggeremmo.

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Giusi Marchetta

vive a Torino, dove insegna. Ha pubblicato la raccolta di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di mezzo, 2008), vincitore del Premio Calvino, e i romanzi L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011) e Dove sei stata (Rizzoli, 2018). Ha fondato e coordina il podcast del Tavolo delle ragazze (nato da Tutte le ragazze avanti!, Add editore). Per Einaudi ha pubblicato Lettori si cresce (2015) e ancora per Add il saggio Principesse, (eroine del passato, femministe di oggi) sugli stereotipi di genere nella cultura di massa

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