Invenzione vs realtà: un dibattito
Negli ultimi tempi il dibattito culturale si è soffermato a ragionare su “storie di invenzione” e “storie reali”, mettendo in risalto come sia i grandi premi letterari – la vittoria allo Strega di D’Adamo ne sarebbe una prova-, sia i lettori preferiscano le narrazioni legate al dato auto/biografico, esperienziale e di verità rispetto all’invenzione. Gianluigi Simonetti (su «Domani»), Lipperini (su «La Stampa» e poi sul suo blog), Michele Vaccari, Massimo Carlotto e Patrick Fogli, sui social, stanno ragionando dentro e intorno a questo tema. Vaccari, Carlotto e Fogli hanno puntato la propria attenzione sul termine “immaginazione”, mettendo in evidenza una certa idiosincrasia del mercato editoriale per questo concetto, a cui viene opposto il termine “realtà”, e hanno annunciato che il 1° ottobre si terranno (a Bologna, a quanto pare, ma occorre aspettare per i dettagli) gli Stati generali dell’immaginazione, un dibattito vuole coinvolgere scrittori, editori, che ha come tema, cito dalla pagina di Carlotto: «Come è stato più volte chiarito si tratta di un confronto, attraverso contributi teorici, sul romanzo, l’editoria, la scrittura e la lettura». Simonetti, invece, nel suo articolo tratteggia la possibile nascita di un canone nuovo, che potrebbe modificare il modo di ragionare e di vedere la narrazione: «Magari non lo sappiamo, ma privilegiando il vero sul finto rovesciamo una gerarchia millenaria, fondativa anche della sensibilità artistica occidentale», la chiosa finale è nella domanda che Loredana Lipperini pone nel suo articolo: «Che fine hanno fatto le storie?».
La risposta potrebbe essere questa: i lettori sono assetati di realtà, perché è avvenuta una modificazione del paradigma e di interpretazione di questa “cosa” che è la vita di tutti i giorni. I reality, la televisione del dolore, le buste di Maria de Filippi, le storie d’amore di Uomini e donne, gli adulteri in Temptation Island, ma anche la rappresentazione dell’arte e del talento in X Factor, Amici, la cronaca nera portata nei programmi pomeridiani, senza contare le dirette Facebook, Instagram ecc. fino a BeReal, strano e strambo social che ti chiede di fermare con una foto un preciso istante del tua giornata, qualsiasi cosa tu stia facendo, andando così a costruire un collettivo e unico momento della giornata – tutte queste “realtà narrative” hanno condotto alla produzione di storie cosiddette vere, nelle quali le battute più sintomatiche sono: io son come tu mi vedi, io sono così, io sono in questo modo davanti e dietro le telecamere. In queste frasi ci troviamo quasi sempre davanti a un “io”, che dichiara di essere in qualche modo vero e/o portatore di verità.
L’inesperienza dell’11 settembre
È, forse, in questa microstruttura enunciativa il germe della sempre maggiore e spiccata preferenza per la storia vera e – in opposizione – la conseguente abdicazione del romanzo come storia di invenzione. Se i social possono essere il mezzo di trasmissione dell’enunciazione, qual è la causa di tale desiderio di verità? La mia personale risposta è l’11 settembre 2001, data dello choc percettivo più profondo dell’ultimo decennio: un cambio di episteme vero e proprio. Un evento così enorme, così catalizzante da far sembrare la vita che stavamo vivendo fasulla; e da quei momenti che la narrazione – televisiva e non solo – ha iniziato a puntare la sua attenzione sulle storie vere, sull’autentico, per colmare quel sentimento di inesperienza che pare essere stata l’eredità estetica del crollo delle Torri Gemelle (Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Bompiani 2006).
In un passaggio de Le rovine del futuro (Marotta&Cafiero 2022, trad. E. Leo) DeLillo lo esplicita con chiarezza: «Gli eventi dell’11 settembre furono documentati senza la minima riserva. Non c’era alcun fraintendimento in TV. L’evento vissuto realmente, nella sua crudezza, era una cosa; quello raccontato dai reportage un’altra. L’avvenimento dominava i media. Era luminoso, totalizzante e alcuni di noi dissero che era inverosimile. Quando diciamo che, che qualcosa è inverosimile, irreale, intendiamo che è troppo reale: un fenomeno tanto inconcepibile, eppure tanto saldamente legato al potere della verità oggettiva che non possiamo liquidarlo come un miraggio della nostra percezione». Quell’accadimento, quindi, ha rotto totalmente il rapporto tra realtà/verisimile, tra narrazione/autenticità.
Quali armamentari critici possiamo utilizzare per riprendere un tema e un argomento (il romanzo e la sua crisi) che ciclicamente, con facce diverse e diverse modalità, tornano nel dibattito culturale e che un momento storico, l’11 settembre – come una faglia spazio-temporale – ha completamente distorto? Il bisogno di realtà dei lettori è il rinculo, come dopo uno sparo, di ciò che è accaduto alle due Torri: il tipo di realtà di cui i lettori, le persone più in generale, hanno necessità è un evento in qualche modo comprensibile, che non valichi i confini dell’inammissibile; il bisogno di storie “vere” nascerebbe dal bisogno di comprendere; è più facile immedesimarmi nella storia di un uomo o di una donna che racconta il suo vero calvario con la malattia, la difficile esperienza di avere un figlio malato, le privazioni degli anni passati in prigione per una condanna ingiusta, che non nelle storia di un uomo che fa un patto con il diavolo per diventare un grande musicista.
Non è detto, inoltre, che le storie “vere” siano meno tremende, o che il tasso di sofferenza, dolore sia minore, anzi, ma a consolarci è la conferma che ciò che stiamo leggendo è avvenuto, è accaduto così nella realtà, possiamo dire che è vero, è andata così: il nostro bisogno di consolazione è un bisogno di realtà.
Vastità/limitatezza
Il lettore, questo tipo di lettore, è pavido, teme la finzione, che è la suprema natura del romanzo (ogni opera romanzesca è finzione, anche quando ostenta una aderenza totale alla realtà), perché lo conduce in luoghi in-conosciuti, ampî e vasti, perché pone domande e non fornisce risposte, perché è immorale, perché non giudica ma mostra. Ne L’arte del romanzo (Adelphi 1988, trad. E. Marchi) Kundera scrive: «Don Chisciotte partì per un mondo che si spalancava davanti a lui». Questo è il primo insorgere del romanzo, l’uscire, l’esplorare, l’andare oltre ciò che è la vita che abbiamo davanti ai nostri occhi, è l’esigenza romanzesca che Mefistofele mostra a Faust quando dice: «Nel mondo vasto/ti voglio attirare» (Goethe, Faust, Mondadori, trad. F. Fortini, prima edizione 1981). Paradossalmente il lettore teme questa vastità, questa ampiezza, e così vuole limitare, unificare, ridurre: le storie “vere” sono un tentativo di riduzione, di addomesticamento di questa vastità, ancora Kundera mette in evidenza questo processo: «Il romanzo si trova sempre di più nelle mani dei mass media; e questi, essendo agenti della unificazione della storia planetaria, amplificano e canalizzano il processo di riduzione; distribuiscono nel mondo intero le stesse semplificazioni e gli stessi luoghi comuni che si presentano a essere accettati dalla maggioranza, da tutti, dall’umanità intera».
La produzione delle storie vere è la semplificazione di questa realtà complessa, e cosa resta al romanzo quindi? Cosa resta all’invenzione? Volgere le spalle al sole, è la riposta: andare contro, come sostiene Faust: «Sì. E allora deciditi / volgi le spalle al dolce sole della terra. / Osa penetrare le porte /che tutti evitano. / Ora è il momento […] / di non tremare di fronte alla cavità buia /dove tormenti immaginari straziano, / di scendere la stretta gola dove/l’inferno avvampa».
Le storie immaginate diventano quindi una sorta di minoranza, perché «il romanzo non può più vivere in pace con lo spirito del nostro tempo: se vuole continuare a scoprire quello che ancora non è stato scoperto, [il romanzo] può farlo solo andando contro il progresso del mondo» (Kundera, L’arte del romanzo).
Romanzo e purgatorio
Si comprende, quindi, che la discussione è più ampia del semplice fenomeno editoriale, delle liste dei premi letterari, dei libri in classifica, ma ha a che fare con la modalità con cui l’arte del romanzo può rinnovarsi. La prima domanda che dobbiamo farci è, quindi, perché il lettore crede alle storie vere e non crede più ai romanzi[1]? Tale interrogativo non è così semplice e, appunto, esorbita la semplice polemica; interroga chi produce romanzi, chi li legge e chi ne fa un lavoro di critica e approfondimento. Vorrei provare, quindi, a dare una risposta alla domanda, che non sia diretta, ma che in qualche modo segua un percorso diverso e particolare.
Perché non crediamo più al romanzo?
Perché non crediamo più al Purgatorio. Questa è la mia risposta; in breve, cercando di spiegare meglio, e facendo una premessa, che per me è centrale: le parole “credere” e “purgatorio” non sono legate alla religione cattolica, quindi non sto in alcun modo parlando di un topos religioso, di un luogo del credere: se esiste o meno il Purgatorio come luogo delle anime è un problema del buon Dio, di chi ci crede. Qui si cercherà di parlare del Purgatorio come luogo narrativo, come luogo di mezzo, come invenzione di uno status e di uno spazio, in cui l’uomo non è né ancora salvo né ancora dannato: narrativamente il Purgatorio produce un’aura di sospensione, che è tipica del romanzo. Pensiamo, proprio per togliere ogni dubbio, usando quindi un autore inglese e protestante, a Defoe e ai sentimenti di Crusoe sull’isola, salvo dal naufragio eppure spaventato, contento di essere vivo e preoccupato per il futuro: Crusoe è sospeso, e tale potrebbe essere lo statuto narrativo del Purgatorio, perché sospesi sono i personaggi dei romanzi, non ancora completamente definiti e chiusi.
Se è valida la riflessione hegeliana sul romanzo come epopea, potremmo dire che esso – il romanzo – insieme al Purgatorio e al capitalismo sono i lasciti, di cui ancora oggi ci serviamo, certo camuffandoli, negandoli in alcuni casi, distorcendoli, della borghesia. Semplificando, per ragioni di spazio, il Purgatorio è una sorta di tentativo di mettere in ordine sé stessi e la propria interiorità, il romanzo è il tentativo di raccontare sé stessi nel tempo, e il capitalismo è la rappresentazione di sé stessi dentro le merci che si producono (il marxismo è solo un modo che ha trovato il capitalismo di raccontarsi).
Don Abbondio e la cappella votiva
Nel primo capitolo dei Promessi Sposi ci imbattiamo nella descrizione della piccola cappella votiva, che appunto per tema ha le anime del Purgatorio. Siamo all’inizio del romanzo – anzi, se vogliamo essere pignoli il romanzo vero e proprio non è ancora iniziato: ci è stata fornita una perfetta mappa dei luoghi, il narratore ci ha fornito la descrizione dell’ampio teatro in cui qualcosa dovrà avvenire, poi avvicina il suo obiettivo e dirige la sua/nostra attenzione su un uomo che cammina da solo, sul far della sera, quieto tranquillo. Solo a questo punto ecco i due sconosciuti, l’uomo se li trova davanti, spuntati dal nulla: il narratore mette il suo personaggio davanti una crisi, una scelta; il tutto avviene e ha come sfondo la rappresentazione del tormento e della salvezza delle anime del Purgatorio.
È questo il momento preciso in cui la vicenda di Renzo di Lucia, loro magagne, le loro inquietudini, passa da inesistente a romanzesca, diventa – anzi – un romanzo vero e proprio. Se Don Abbondio avesse opposto un secco e giusto rifiuto alle richieste dei bravi, sposando i due ragazzi, avremmo un’altra storia, ma non avremmo i Promessi Sposi. Abbondio è il personaggio che incardina il romanzo, ne è in qualche modo il dispositivo narrativo: in lui è contenuto il tutto il romanzo, lo vediamo nel cap II quando sogna: «Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate». Se poniamo bene attenzione al sogno di Abbondio non possiamo non vedere una serie di spie che ci confermano, a noi che l’abbiamo già letto, e che suggeriscono a coloro che lo stanno leggendo per la prima volta quali saranno gli sviluppi di questa vicenda. Non è casuale che queste spie romanzesche arrivino tramite una attività onirica: sono spettri, sono forme della paura interiore di Abbondio. Sappiamo che Manzoni nel corso delle sue riscritture del romanzo ha lavorato per smussare una fin troppo evidente patina gotica, presente nel Fermo e Lucia, ma in alcuni momenti spettri, rumori e oscure presenze sono necessari, perché insinuano e suggeriscono quel momento di sospensione e di crisi che è il nucleo fondante del romanzo. Questo dato “spettrale” non è casuale, ma si rincorre in tutto il romanzo, in alcune scene notturne, che sono il punto di svolta e di modificazione, del percorso narrativo del romanzo, senza soffermarmi elenco: la notte di Renzo, la tormentosa notte dell’Innominato e l’incubo pestilenziale che sveglia Don Rodrigo.
L’inversione del tempo
Il romanzo è la storia dell’uomo, di un uomo, nel tempo, come sostiene Ian Watt (Le origini del romanzo borghese, prima ed. 1981 ), ma quale tempo è migliore e più fittizio di quello purgatoriale, in cui appunto ogni cosa è sospesa, messa in una sorta di momentanea pausa? Il purgatorio è un emblema del tempo (perché contrariamente all’inferno e al paradiso non è eterno), e il tempo è uno degli elementi fondamentali del romanzo. Dobbiamo notare come il tempo nel romanzo non scorra come nella nostra esistenza comune: c’è il tempo delle cose raccontate e il tempo del racconto (Paul Ricoeur), questa mai risolta tensione è una sorta di epochè, in cui l’esperienza del protagonista si ferma, rallenta e si mostra: è una esperienza spettrale in cui il protagonista del romanzo guarda sé come fosse separato da sé stesso.
Si pensi a La freccia del tempo di Martin Amis: è il racconto di un personaggio, un medico nazista, fuggito negli Stati Uniti, con una nuova identità. Se vogliamo è una storia, una narrazione che già conosciamo, al tempo della sua pubblicazione c’erano già numerose testimonianze sull’universo concentrazionario, ma Amis decide di raccontarla a noi dalla fine ovvero dalla morte dell’uomo andando a ritroso fino alla sua nascita. In questo modo l’autore modifica la struttura del tempo: ciò che è morte diventa nascita, ciò che è nascita morte, le storie d’amore iniziano con un lasciarsi, con un litigio furibondo e nell’indifferenza e finiscono con uno strano timore e timidezza, gli stessi dialoghi vengono pronunciati a ritroso dalla prima all’ultima battuta. Sembrerebbe un gioco, ma nel proseguire della storia iniziamo a vedere i camini di Auschwitz aspirare la cenere spersa nei cieli, i forni produrre i corpi smagriti di ebrei, che i Sonderkommando portano alle docce; e qui accatastati, dopo immani tormenti mentre il gas libera la stanza assorbito dalle docce, i corpi tornano a vivere. Il tempo del romanzo non ha nulla a che fare con il tempo della nostra vita biologica, anzi ci costringe soffermarci, a n rallentare, cercando di ricostruire qualcosa che proprio per la sua inversione ci turba. Il tutto avviene per l’essenza purgatoriale della narrazione, che abbiamo visto essere spettrale: siamo nel regno de il bello è brutto e il brutto è bello, tutto è stato capovolto. Il nazismo è stato una perversione, data la premessa è normale che il tempo stesso non funzioni come da noi, ma una immaginazione così è possibile, verrebbe da dire, pensabile solo da un romanziere, perché in nessun modo uno storico può invertire lo scorrere degli eventi.[2] Questa rottura del patto temporale, che appunto nel romanzo non è un semplice gioco, è un vera e propria forma del racconto, che evidenza ancora di più l’inesorabile e terribile idea della necessità, ogni cosa va come deve andare: l’offesa non è vettoriale, non ha una direzione indicata da una freccia, l’offesa è totale e completa, sempre.
[continua]
Note
[1] Mi rendo conto che questo slittamento tra storia, storia vera e romanzo potrebbe creare non pochi impicci definitori, si prenda qui romanzo come “testo d’invenzione”.
[2] Certo uno storico può raccontare un evento partendo dal fondo e andando a ritroso, ma non può raccontare un mondo in cui il tempo scorre all’inverso e le cose accadono all’inverso.