C’è questo spot che gira. Non girava quando eri piccolo tu. Nello spot ci sono un’aula universitaria che si riempie poco a poco, una squadra di rugbisti pronta ad allenarsi, la sala visite di un veterinario. Davanti agli studenti, ai giocatori e alla proprietaria di un cagnetto malmesso si presenta una bambina diversa. Dopo il primo iniziale stupore, ognuna di queste bimbe sorride e comincia a lavorare: una fa lezione di anatomia, un’altra allena la squadra, l’altra visita il cane. Alla fine dello spot, rivediamo la bambina/insegnante nella sua stanza; le sue Barbie, attentissime, la ascoltano fare lezione dai loro minuscoli banchi. Immagina di essere una professoressa, ma è un caso: domani sarà qualcos’altro.
Vai a scuola anche tu, quella vera però. Sei un professore e quando entri in classe si alzano in piedi. Dicono buongiorno e arrivederci. Dicono che non hanno potuto studiare per il cane malato o la nonna, o, più spesso, perché non hanno trovato il compito assegnato sul diario. Ti sembra palesemente irrealistico che il numero esatto degli esercizi assegnati compaia di colpo sulla pagina di venerdì se non c’è nessuno che le appunta. Commini una nota, l’ennesima: gentile signore, gentile signora, anche oggi Matteo, Giulia, Ahmed sono senza compiti. Ti chiedi cosa significhi lo scippo che ti recapitano il giorno dopo al fondo e un’ipotesi ce l’hai: sì, sì, ho visto, gentilissimo professore, grazie, pazienza, alla prossima.
Così passano gli anni. Spiegando, annotando, chiarendo, sgridando. Ogni tanto ti sforzi di inserire qualche azione che spezzi la piaga della routine scolastica: allora ridi, scherzi, consigli, consoli e lo fai sempre più spesso perché alle medie è il bisogno di consolazione che ogni tanto ne spinge uno fino alla cattedra mentre intorno esplode l’intervallo. Di solito scappa da qualcosa di cattivo che gli hanno detto o fatto. E non beartene, non sei tu, è che non sa da chi andare: una ferita senza medico lo porta a cercare qualcuno di innocuo con cui confidarsi. E allora secondo copione consoli e dispensi consigli banali, pacifici, sempre uguali.
Non ascoltarli. Sii paziente. Crescerai, passerà.
Non ascoltarli. Sono invidiosi. Non sei affatto brutto, basso, incapace, imbranato.
Conosco tua madre e fa un lavoro onestissimo: non ascoltarli.
Puoi ripetere le stesse cose a occhi chiusi, adattarle all’uno o all’altro. Ti sembra di essere immune alla pietà e alla rabbia: sai già che la vittima tornerà nei racconti di un altro nelle vesti di carnefice e viceversa. Hai una buona parola per tutti. La stessa.
E poi li conosci e di ognuno conosci l’imperdonabile peccato: il grasso, l’acne, il sudore in eccesso, le scarpe sbagliate, la tuta rattoppata, il diario pieno di insufficienze mai firmate. Può essere solo un dettaglio: non importa. Se ti strappa dal branco è finita. Sei diverso. Sei solo.
Questo lo sai e quando Matteo, afflitto, viene verso la cattedra sai anche che lui è il più diverso di tutti.
Non sei una cosa sola, Matteo, ne sei quattro.
Prima sei maschio perché hai un apparato genitale maschile. È il corpo, ci nasci: la nostra prima lotteria. A partire da questo apparato ti assegneranno le altre tre parti: un genere maschile, un orientamento eterosessuale (le femmine, Matteo, devi guardare quelle), e un ruolo sociale (il calcio, i film d’azione, portare a casa uno stipendio).
Ma questo non è vero.
Sei nato maschio, ma puoi sentirti donna. Puoi guardare gli uomini o le donne con lo stesso desiderio. Puoi desiderarli entrambi. Puoi giocare con le bambole, guardare i film d’amore. Puoi piangere Matteo, come fai adesso e senza un briciolo di vergogna.
Non c’è niente di male in nessuna delle parti che sei e non hai scelto. Se tu lo sapessi e se lo sapessero i compagni questi anni non sarebbero l’inferno sulla terra. Sarebbero vivi ed eccitanti. Invece questi anni te li perdi, anzi, te li rubano i compagni che ti ridono alle spalle.
Non rattristarti: col tempo tu potresti scoprire tutte le parti che ti rendono Matteo, diventare te stesso, essere felice; molti di loro cresceranno sapendo come puntare il dito contro e non come subirlo. Non si conosceranno mai per paura di conoscersi davvero. Moriranno così. Sarà un peccato.
Ecco, professore, quello che dovresti dire a Matteo e a tutti gli altri invece di ripetere che il numero di proposizioni in un periodo è uguale al numero dei verbi che vi sono contenuti. Se lo dicessi una volta sola senti che questa infelicità che vi portate tutti addosso se ne uscirebbe dalla finestra, farebbe seccare gli alberi in giardino.
Invece conti i verbi, le proposizioni.
Non ascoltarli, dici a Matteo, come a tutti.
Pensi allo spot della Barbie. Non hai mai giocato con le bambole, mai immaginato di essere mille cose. Solo una.
Un giorno, se fossi stato libero.
Lo sognavi, ci fantasticavi. Ti faceva star male.
Lo facevi lo stesso.
Matteo però insiste finché non cedi: ti alzi e vai a vedere la scritta sul banco.
Sono solo due parole: “Matteo” e “Omosessuale”, tirato via in fretta.
È il momento, professore.
Devi urlare? Punire tutti?
Segui il profilo delle esse.
“Non è una parolaccia”, dici. La voce ti trema un po’. “Non è un insulto”.
C’è un silenzio sconosciuto in terza A. Tengono gli occhi bassi e gli dispiace perché sei il loro professore da tre anni e ti hanno deluso.
Matteo ti scongiura con gli occhi.
È il momento, professore.
Non è Matteo, sei tu.
A questi ragazzi che ti stimano e ti vogliono bene c’è una sola cosa da chiedere adesso: se a casa ti aspettasse un uomo cambierebbe il tuo modo di fare lezione? Di lavorare per loro? Di essere la persona di cui hanno imparato a fidarsi?
Cosa cambia? Ti viene da dire.
Però non lo fai.
Intoni la predica standard su rispetto e tolleranza; via via ti incattivisci, accenni al Medioevo, gli dai degli ignoranti. Loro ti ascoltano, qualcuno arrossisce, colpevole.
Dalla cattedra continui coi rimproveri ma intanto anche tu arrossisci, colpevole: stai difendendo Matteo da una distanza di sicurezza. È il diverso da rispettare, questo stai dicendo. Lui è diverso, mai noi. Mai io.
Non te la senti di dire io, di insinuare un dubbio. Non con queste famiglie, ti dici. In questo quartiere. Con questi colleghi. Non vuoi noie, pettegolezzi. È solo prudenza, ti dici, e invece è paura di ritrovarti solo, strappato dal branco.
Quando hai finito la ramanzina mantieni l’aria disgustata e assegni un esercizio di grammatica con principali e subordinate. Abbassano la testa, si mettono al lavoro. Solo Matteo non ha ancora preso il libro.
Con la gomma in mano fissa la scritta per un attimo prima di cancellarla: c’è qualcosa in quella parola che gli spetta e che non gli hai saputo dare. Prima forse lo avvertiva, adesso lo sa con certezza.
Guardi lui e anche gli altri: vorresti essere in una scuola che li facesse sentire meno soli e sbagliati, ma quella scuola non è qui stamattina.
Matteo apre il libro, comincia ad andare a caccia di verbi e tu allora ti concedi un piccolo salto nel tempo, lo segui al liceo, all’università. Ecco, lo vedi: sognerà di essere quello che è liberamente, ci fantasticherà sopra. Ci starà male. Lo farà lo stesso.
L’articolo è stato pubblicato su L’espresso online.