1. Nel suo saggio Dopo Dio Sloterdijk fa una affermazione tanto semplice quanto carica di conseguenze. Nell’antica Grecia, scrive, «l’immortalità era l’unico tratto distintivo eminente degli dèi greci, per il resto, sarebbe stato impossibile distinguere il loro comportamento da quello troppo umano degli uomini» (p. 9, trad. Silvia Rodeschini, Raffaello Cortina, Milano 2018); ecco spiegato, quindi, perché gli esseri umani fossero definiti come “mortali”.
La morte, la mortalità insomma, è il tratto distintivo tra uomo e dèi, ciò che lo definisce come sua precisa caratteristica: l’uomo ha la morte, la possiede, così come il linguaggio o il pollice opponibile. Il morire, l’avere la morte a portata di esperienza (verrebbe da dire), sono veramente il dato centrale della nostra esistenza, di voi che ora leggete queste righe e di me che le scrivo; siamo uomini perché anche in assenza di una causa esterna e in qualsiasi momento, ad esempio ora mentre leggiamo davanti al computer o sullo smartphone, possiamo produrre un pensiero così veritiero e preciso da essere reale sulla nostra futura morte, sull’esatto momento in cui il cuore smetterà di battere. L’umano è l’unico essere che può immaginare la propria morte, che può – senza avvertire un pericolo imminente, senza che una grave sciagura gli pesi alle spalle – avere timore della morte e pensare la propria esistenza in termini di finitudine, finitezza.
2. La parola “finitudine” non è solo il nucleo tematico della nuova opera di Telmo Pievani, da cui questi appunti e questa riflessione prendono le mosse, ma è anche il titolo del libro che l’autore ci presenta come «un romanzo filosofico su fragilità e libertà».
Finitudine si presenta come una ucronia: lo scrittore premio Nobel Albert Camus non è morto per l’incidente stradale, ma è ricoverato in ospedale; Jacques Monod, il grande scienziato (anch’esso successivamente premio Nobel), va a trovarlo nei giorni di degenza, per leggergli il libro che stanno scrivendo a quattro mani. Questi incontri vanno avanti per qualche mese, fino a quando la salute di Camus peggiora, e finalmente il destino d’invenzione del romanzo e il principio di realtà tornano sugli stessi binari.
Ogni capitolo del romanzo è diviso in due parti. Nella prima si legge il libro che Camus e Monod stanno redigendo insieme (usando come testo-guida il De rerum natura di Lucrezio, il cui tema è la riflessione sulla finitudine), libro in cui le tesi di alcune opere di Camus (da L’uomo in rivolta a Il mito di Sisifo) sono legate alle teorie genetiche di Monod. La seconda parte dei capitoli si presenta sotto forma di dialogo tra i due protagonisti, in cui si chiarisce meglio il contenuto della prima parte, oppure si raccontano vicende legate alle vite dei due personaggi; questa seconda parte romanzesca non è completamente risolta e coesa, e risulta spesso troppo macchinosa e prevedibile proprio nel suo alternarsi secco di speculazione e invenzione.
Più interessante e originale appare la parte speculativa (ci chiediamo perché non abbia preferito scrivere un saggio) con il ragionamento su mortalità e senso della vita partendo appunto dal concetto di “finitudine”. In Pievani la parola indica il limite dell’essere umano: l’uomo è finito, e la sua finitudine è ciò che produce il suo tentativo di coscienza, di conoscenza e di consapevolezza – tentativo che non può che fallire. La grandezza dell’uomo sta proprio, sostiene Pievani, nel suo accettare l’orizzonte della finitudine.
C’è però una falla, a mio avviso, nella tesi di Pievani: un problema legato alla struttura narrativa di cui prima ho rilevato lo scricchiolio.
3. Cosa non funziona narrativamente in Camus e Monod personaggi di Finitudine? Questa è la domanda che mi pongo come lettore/scrittore: cosa manca a questi personaggi, che risultano troppo piatti, troppo simili a concetti e idee? Come romanziere, Pievani ha pensato che ai personaggi potessero bastare le parole che mette loro in bocca, e che da lì nascesse la loro profondità. Tra Camus e Monod non c’è nessuna relazione reale – si legga reale qui come intimamente narrativa –: sono personaggi che dicono cose interessanti, ma sono piatti. Non hanno nessun attributo dell’essere creature, per essere avvertiti da chi legge come creature. Si ha l’impressione che questa seconda parte, evidenziata anche in sede editoriale dalla scelta di un altro carattere tipografico, sia un’aggiunta di cui Pievani sente il bisogno, ma che non sa gestire. I personaggi del romanzo, queste due funzioni narrative, sfuggono al controllo. Perché accade?
4. Per fornire una risposta a questa domanda, vorrei soffermarmi su un altro libro letto nelle stesse settimane, e che in un certo senso conferma come i concetti di “fine”, “finitudine” e “finitezza” siano usciti dal dibattito prettamente filosofico, per diventare qualcosa di pop. Il libro in questione è Questa vita (Neri Pozza, Vicenza 2020, trad. Pierluigi Lago) di Martin Hägglund, che ha per sottotitolo Finitezza, socialismo e libertà e che Robert Smith (il frontman dei The Cure: ecco il pop presentarsi sotto forma di blurp editoriale) ha definito «il miglior libro del 2019».
Il saggio di Hägglund non dice cose molto diverse da quelle di Pievani, se non per il fatto che elegge come punto di partenza e di riflessione l’indagine più strettamente filosofica. La base del saggio può essere riassunta – semplificando, ma senza allontanarsi troppo del “sugo” del ragionamento – così: l’uomo è un essere finito, e la sua esperienza di finitezza, se liberata da qualsiasi speculazione e ragionamento e desiderio religioso, può portarlo a vivere una vita piena, totale, sia a livello sociale che di libertà individuale.
Per Hägglund l’esistenza è polarizzata tra due tensioni, la secolare e la religiosa; l’aggettivo religioso designa un tipo di esistenza e di esperienza che porta l’essere umano a non vivere la vita per quella che è, ma spostare le sue aspettative per il mondo che verrà. Inutile dire come questa idea e questa visione siano limitanti rispetto alla complessità dell’esperienza religiosa. Essere religiosi, sembra suggerire Hägglund, significa non avere cura degli altri e di sé stessi in quanto esseri viventi, oppure di prendersene cura ma non per amore dell’uomo in sé, ma per l’amor di Dio. Essere religiosi, suggerisce questo saggio, sembra escludere dall’orizzonte il tragico, che per Hägglund è il significato più profondo del vivere. La vita secolare, o meglio la scelta di chi decide di vivere nel tempo che passa, è di per sé una vita tragica, una vita fondata sulla finitezza.
Anche in questo ragionamento – come in Pievani – manca però qualcosa, e ne avvertiamo la debolezza quando il saggio passa dalla riflessione esistenziale e soggettiva al tentativo di riproporre questa logica all’interno dello svolgersi del tempo e della società (in particolare nel discorso sulla libertà e sul socialismo).
5. Entrambi i libri, dopo una convincente descrizione della finitezza dell’uomo, perdono la loro spinta speculativa, come se l’idea di finitezza stessa non bastasse a descrivere ciò che l’uomo è nel suo essere quotidianamente esistente. Dalla lettura si ricava l’impressione che il termine “finitudine” (più legato al linguaggio scientifico di limite) e il termine “finitezza” (più filosofico) abbiano, però, nella radice comune di “fine” il loro dato più debole; la parola “fine” dice solo una parte di ciò che l’uomo è, adombrando nella sua incompletezza che esista qualcosa di più, non per forza un aldilà, ma un’aggiunta, un surplus che le parole “fine”, “finitudine”, “finitezza” non riescono a contenere. È vero che il termine “fine”, con le sue diverse varianti, possiede una decisa nitidezza: la vita – sia nostra che del mondo che del cosmo – finisce; c’è nel termine “finire” un sentore illuminista, qualcosa di chiaro: la lucida accettazione che moriremo.
6. Dopo aver preso appunti e sottolineato e riflettuto, mi chiedo: «E quindi? Cosa ha aggiunto questa lettura a ciò che già so? Come e in che modo la lettura di questo libro ha modificato la mia visione del mondo?» In questi saggi l’idea della fine è consolante, perché sbarazza – il verbo è un po’ volgare ma rende l’idea – il tavolo di tutte le questioni ulteriori (non solo nel senso di rimanenti, ma anche che afferiscono a ciò che è più in là). L’uomo, però, è sempre qualcosa di oltre, qualcosa che produce nel suo agire un desiderio di oltre: questo desiderio potrei definirlo, usando una parola che non viene quasi mai citata in questi saggi, un desiderio di creaturalità.
7. Il termine, mutuato da Auerbach, pone al centro del ragionare il bisogno dell’uomo e la sua capacità di costruire un “realismo”, cioè la facoltà di mettere in scena la finitezza dell’uomo e il suo senso di altro, il suo senso di oltre. Nel discorso di Pievani e di Hägglund ciò che viene sempre lasciato fuori è la letteratura, è la produzione di una storia o di storie, il tentativo dell’uomo di creare una narrazione che in qualche modo riproduca ciò che è il mondo per quello che è; e proprio nello sforzo inesausto di riprodurre il mondo per quello che è, cioè di rendere la finitezza dell’uomo, nasce la bellezza, il desiderio di ulteriore, la non-finitezza dell’uomo: la creaturalità – una sorta di qualità artistica della fragilità, che attiene allo stupore di comprendere di come si possa fare poesia sulla morte e persino chiamarla come fa Francesco D’Assisi nel Cantico «sorella morte corporale» – non produce un salto nell’ignoto, non fa della vita umana secolare a qualcosa di poco valore, ma insinua un dubbio, come una luminescenza, che la fine del tempo e del mondo non sia la fine, ma che esista qualcosa che sopravviva, che non deve per forza essere il paradiso, la candida rosa, il grembo di Abramo, ma che semplicemente persista di noi qualcosa. Possiamo definire questo qualcosa possibilità, usando le parole di Auerbach nella sua introduzione a Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità del Medioevo: «Ma in ogni caso ciò che noi in un’opera comprendiamo e amiamo è l’esistenza di un uomo, una possibilità di noi stessi». (p. 19, trad. Fausto Codino, Feltrinelli, Milano 2007).
8. La letteratura ci consegna una possibilità di noi stessi, qualcosa di ulteriore al nostro essere qui e ora. Finitudine di Pievani e Questa vita di Hägglund non sembrano volerci fornire questa possibilità: il filosofo svedese propone una vita luminosa che esclude l’ombra della morte, mentre i personaggi (veri) di Pievani non hanno una loro vita spirituale, una loro vita oltre quello che dicono nelle pagine scritte, sono bidimensionali: a entrambi i libri manca l’oltre, o un lassù.
C’è un bellissimo racconto di David Foster Wallace, contenuto in Brevi interviste con uomini schifosi, che si intitola Per sempre lassù: un adolescente sale sul trampolino più alto della piscina e sta per tuffarsi; come il tuffatore etrusco, fermo nell’atto di tuffarsi in un’acqua che non c’è, lo scrittore americano descrive i momenti prima, quando tutto si fa come leggero e nello stesso tempo indistinto:
Il problema non è l’altezza. Quando torni giù cambia tutto. Quando colpisci, con il tuo peso. E allora qual è la bugia? Durezza o morbidezza? Silenzio o tempo?
La bugia è che è una cosa o l’altra. Un’ape immobile, fluttuante, si muove più in fretta di quanto lei stessa non pensi. Da lassù la dolcezza la fa impazzire. La tavola annuirà e tu andrai, e i neri occhi di pelle si potranno incrociare e accecare in un cielo maculato di nuvole, luce perforata che si svuota dietro la pietra aguzza che è per sempre. Che è per sempre. Metti piede nella pelle e scompari. Ciao. (pp.18-19, trad. Ottavio Fatica e Giovanna Granato, Einaudi, Torino 2016).
In tale sospensione di tempo vivono i personaggi dei romanzi, che non si domandano se il tempo finirà, o quanto durerà la loro azione, perché il loro tempo è nel desiderio della possibilità. Questo desiderio di altitudine è ciò che manca ai due protagonisti del romanzo di Pievani e all’orizzonte dell’umanità descritta da Hägglung. Entrambi gli autori sono più preoccupati di consolarci, con pensieri ragionevoli, che non di guidarci a guardare il mistero esistenziale, che loro stessi richiamato nelle pagine dei loro libri. Quello che noi cerchiamo, però, come il personaggio del racconto di Wallace, è quel dilatarsi del tempo, e lì che troviamo la nostra ragione essere, in quella vertigine dell’altezza, che è poi la libertà, il mistero della bellezza e della letteratura.