Tre minuti di silenzio e nessuno stupore sono quanto è stato offerto alla studentessa diciannovenne che si è tolta la vita nei bagni dello IULM. Sarà che l’immobilismo della politica che sempre accompagna storie come questa è riuscito a convincerci che è inevitabile che qualcunə inciampi nel processo di selezione naturale che l’istruzione deve riprodurre. O forse sarà che il bombardamento mediatico di giovani laureatз in tempo record ci ha suggerito che tutto è possibile con un poco di buona volontà, e che se qualcunə non ne dispone in fondo è affare suo. Le strade saranno erte e accidentate ma praticabilissime, ci viene detto. E a ogni nuovo incidente possiamo tacitamente dispiacerci per le altrui gambe malferme anziché occuparci degli ostacoli che le hanno tramortite.
Oggi lз giovani non hanno voglia di studiare, né tantomeno di lavorare. Si parla, è bene precisare, di quellз che stanno in Italia: il brain drain che prosciuga la vita dalla Penisola ne porta moltə all’estero, ma sarà forse la lontananza dal Mediterraneo che lз rivitalizza e trova loro un’occupazione, una stabilità, la possibilità di realizzarsi nel lavoro per cui hanno studiato o che hanno scelto. Lз giovani non hanno voglia di studiare e un suicidio è come un capriccio, di chi dice che non vuole reggere il peso delle responsabilità della vita adulta e butta via il duro sacrificio della sua famiglia. Di chi è convintə che queste parole lə descrivano e lo dimostra.
A ogni nuovo incidente possiamo tacitamente dispiacerci per le altrui gambe malferme anziché occuparci degli ostacoli che le hanno tramortite.
«Il merito è un percorso, ed è soprattutto una conquista con sé stessi, non il risultato di una sola performance», ha affermato dopo l’accaduto la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini, annunciando la volontà di rafforzare i presidi per il benessere psicologico presenti negli atenei. Come lamentarsi allora? Se la formazione universitaria non è altro che una serie di performance che pretendono di giudicare la nostra idoneità a continuare gli studi, un servizio di supporto si accetta di buon grado. Le parole della ministra Bernini sembrano così rivolgersi alla studentessa dello IULM insieme a quantз l’hanno preceduta, almeno dieci solo nell’ultimo anno, colpevoli di non avere compreso lo spirito di un modello di istruzione che è una scusa per lasciare indietro chi non riesce ad adeguarsi a dei ritmi e a dei parametri valutativi standardizzati, che della neutralità hanno solo la pretesa.
Giocano in difesa, così, le parole di Bernini, perché è al modello della scuola del merito rafforzato dal neonato Ministero dell’Istruzione e del Merito che puntano il dito oggi lз giovani in Italia. Un modello che aumenta a dismisura le pressioni sullɜ studenti, configurando fin da subito la sopravvivenza alla selezione del mondo dell’istruzione e del lavoro come una responsabilità principalmente individuale, e spostando in questo modo l’attenzione dalle mancanze sistemiche che creano enormi disparità tra periferie e centro, tra nord e sud, tra studenti figlз di genitori con patrimoni e titoli di studio più o meno alti.
Si accettano di buon grado allora gli sportelli, perché la competizione in cui lз studenti sanno di doversi ingaggiare fin dall’inizio per potersi meritare il loro posto in un futuro sempre più incerto si trascina dietro una scia di malessere che spesso non trova altra risposta. Eppure, se come da definizione col termine merito intendiamo la ricompensa o la lode che si ottiene per un agire virtuoso, applicarlo al percorso educativo dellз studenti non può avere senso se continuiamo a pensarlo un diritto e non un premio – elemento su cui è d’accordo anche l’articolo 34 della Costituzione, che parla di fatti di merito solo in riferimento ai più alti gradi dell’istruzione, citato in sede di rinominazione del Ministero. La dicitura, invece, la si è voluta applicare già ai gradi inferiori, dove il ministro Valditara prospetta una presenza sempre più ingente dei privati e delle imprese, con l’esplicita volontà di attingervi i fondi che nei bilanci quando si tratta de «l’infrastruttura più importante del Paese» finiscono sempre per mancare.
Per capire meglio cosa si intenda oggi con scuola del merito un ottimo punto di partenza è Contro l’ideologia del merito di Mauro Boarelli (Laterza, Roma-Bari 2019). Nel saggio viene evidenziata la trasformazione storica del suo significato, dalla sua presenza nella Costituzione in cui appare come strettamente collegato all’idea di uguaglianza all’uso che ne si fa oggi, declinato attraverso una serie di pratiche che occultano e individualizzano il conflitto sociale. È un’idea che prende le mosse dalla teoria del capitale umano sviluppata negli anni Cinquanta dalla scuola di Chicago, secondo la quale tutte le azioni umane e le loro conseguenze andrebbero ricondotte a una lettura di tipo economico. Da lì nascerebbe l’economia dell’educazione, col suo proposito di misurare in termini di guadagno personale i risultati scolastici. La piena adesione alla teoria del capitale umano di diversi documenti e linee guida della comunità europea, che avviene a partire dalla pubblicazione nel 1993 del Libro bianco Crescita, competitività, occupazione, segna secondo Boarelli un passo importante nel processo di elaborazione di quella che si configura come una vera propria ideologia del merito.
Se come da definizione col termine merito intendiamo la ricompensa o la lode che si ottiene per un agire virtuoso, applicarlo al percorso educativo dellз studenti non può avere senso se continuiamo a pensarlo un diritto e non un premio.
Un’elaborazione efficace, se come pare oggi troppo spesso lз studenti sono effettivamente convintз che non ci sia alternativa alla scuola dei voti e della selezione, granitica nel suo proporsi come giudice imparziale di valori assoluti che definiscono chi è degnə e chi non lo è. Modellato secondo i termini descritti da Boarelli, l’apprendimento perde il suo valore intrinseco, e diventa una lotta tutta giocata sul piano individuale per rimanere sul mercato, in un clima di competitività che esaspera e non ammette di finire fuori dai margini, pena la perdita di residenze e borse di studio e quindi il crollo di un intero progetto di vita.
Parlare di merito così inteso pare allora un pretesto molto semplice per deviare l’attenzione da quelle disuguaglianze che impediscono a ognunə lo sviluppo delle proprie piene potenzialità, sempre ricondotte a un utile economico: è convincere chi non riesce ad adeguarsi a parametri e metodi valutativi arbitrari della propria piena colpevolezza e del proprio fallimento.
È un pretesto fallace, perché anche al di là degli ostacoli sociali la predisposizione individuale e fortuita che ci è donata in nascita rispetto a un certo tipo di intelligenza – quella relativa alla memorizzazione e all’esposizione performativa di nozioni, la sola tipicamente valutata dal nostro sistema di formazione – non dovrebbe essere la conditio sine qua non della possibilità di continuare il proprio percorso educativo.
Intendere l’educazione come un merito, e quindi un premio che ci si guadagna, senza intervenire sulle condizioni che tendono a rendere possibile il manifestarsi di questo merito potenziale – non a caso la probabilità di laurearsi in Italia cresce all’aumentare di grado del titolo di studio dei genitori – significa riaffermare le disuguaglianze esistenti mentre si eleva a principio la legge hobbesiana della guerra di tutti contro tutti, incoraggiando la competizione anziché la cooperazione sociale, senza mai mettere a critica i modelli pedagogici e valutativi esistenti.
Significa scegliere un Paese dove l’istruzione si riafferma come bene esclusivo di una classe ristretta di privilegiatз che hanno la possibilità di fare emergere il proprio merito potenziale nello stesso momento in cui aumenta il tasso di dispersione scolastica e diminuisce quello di iscrittз alle università. Così, per quanto possa infastidire la lettera della famiglia finlandese scappata dall’Italia di fronte alle carenze di una scuola sottofinanziata e arretrata dal punto di vista pedagogico, bisognerebbe chiedersi se non sia il caso di guardarsi attorno, in terra d’Europa, dove la Danimarca oltre alla gratuità dell’università permette aз giovani universitariз l’indipendenza familiare con sussidi mensili per il mantenimento.
Sarà che è più semplice difendere l’orgoglio nazionale rispondendo con stizza alle critiche che arrivano dall’ospite straniero e riaffermando il sacro valore della tradizione, del rispetto dell’autorità e della dannosità dei cellulari, ignorando ogni critica che arrivi dal mondo studentesco con condiscendente paternalismo. Sarà che privatizzare l’educazione e individualizzare il malessere che la sua regolamentazione attuale produce è più facile che affrontare una sua ristrutturazione secondo modelli pedagogicamente più validi, ma meno funzionali all’introiezione di una logica della concorrenza per la sopravvivenza, alla base del discorso neoliberale che informa la realtà esistente. Realtà ideologicamente mediata secondo una distinzione tipica della psicoanalisi lacaniana che differenzia la prima, socialmente e storicamente costituita, dal reale non rappresentabile e rimosso che si può intravedere sotto le sue crepe. Ma a vedere le crepe arriva forse e solo lo sguardo affinato dal pensiero e dalla parola: non un merito che tuttз si possono permettere.