Educare o punire: al di là del carcere contro la violenza

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La risposta della politica ai fatti di Palermo e Caivano tradisce ancora una volta l’incapacità di affrontare le implicazioni culturali della violenza di genere. Una scuola strutturalmente più capace di fornire allɜ studentɜ abilità e lenti critiche dovrebbe essere invece il presidio fondamentale di prevenzione del fenomeno.

Nelle settimane da poco trascorse il dibattito è stato a lungo occupato dai fatti di Palermo e Caivano. I due episodi di cronaca hanno ricevuto particolari attenzioni per motivi che ci dicono molto di quali caratteristiche abbia tutt’oggi nell’immaginario collettivo la violenza sessuale. Accostandolo al Massacro del Circeo, un altro caso di stupro che ricevette grande attenzione mediatica e segnò la storia della legislazione in materia, la scrittrice Carolina Capria ha notato come sembri che, per ottenere l’attenzione mediatica, le violenze debbano coinvolgere vittime ideali, la cui giovane età non lasci dubbi sul mancato concorso nel crimine. È vero che è l’assenza di consenso a determinare se l’atto in questione possa o meno essere considerato stupro, eppure permane la tendenza anche giuridica a prendere in esame lo stile di vita della vittima, facendone un attenuante per l’accusato qualora la sua condotta non sia considerata sufficientemente rispettabile.
In quest’ottica, il rilievo che i due casi hanno assunto nel dibattito è dovuto soprattutto al fatto che abbiano coinvolto vittime la cui giovane età difficilmente poteva far pensare a una loro parte di “colpa”. La politica non ha tardato a dare una risposta, che pare più che altro una libera rielaborazione del problema reale: sul piano culturale si è provveduto al solito catechizzando le vittime e non i responsabili, con suggerimenti dal sapore di fiaba popolare circa l’importanza di tenere gli occhi aperti per evitare i famigerati lupi. Per il resto, con una rapidità che sa più che altro d’improvvisazione, è stato promulgato il DL Caivano (o decreto baby gang), che ha posto l’accento sul problema del disagio giovanile, in continuità con una linea mediatica sul fenomeno che ha contribuito a dare l’impressione di un’emergenza legata all’attività criminale commessa da minori.
Dal dibattito è stata così cancellata l’unica emergenza che esiste, radicata in una violenza materiale e simbolica che continua a essere agita sul corpo delle donne come mezzo patriarcale di affermazione dell’identità maschile.

Del resto, che la criminalità in senso lato non sia in aumento, anzi, lo dimostra una ricerca congiunta realizzata dall’Eurispes e dalla Criminalpol1 che evidenzia come i dati riguardanti i principali tipi di reato siano sostanzialmente sovrapponibili a quelli del periodo pre-pandemico. A determinare questa percezione sproporzionata del pericolo è innanzitutto l’informazione: in Italia, i principali notiziari nazionali tendono a dare maggiore rilievo a casi di criminalità isolati, che rimbalzando tra programmi di approfondimento e articoli sulla rete amplificano a dismisura la percezione del rischio.
Ciò non significa che non bisognerebbe pretendere misure adeguate a contrastare le sacche persistenti di criminalità e violenza, spesso inequamente distribuite sul territorio nazionale, ma forse dovrebbe farci riflettere sull’uso politico che si fa del tema della sicurezza. Venuta meno la possibilità di invocarla in relazione al contenimento degli sbarchi, lo si fa guardando a cosa accade entro i confini del nostro Paese. Un caso e poi due si distinguono tra gli altri non tanto per la straordinaria brutalità, quanto per il profilo delle vittime, e così, con la velocità di un tweet, arriva la risposta delle istituzioni, pronte a placare la sete di giustizia che nell’agorà social cresce a dismisura. La colpevolizzazione delle vittime di stupro rimane irrinunciabile, ma le circostanze particolari, a partire dalla loro giovanissima età, non permettono di tacere come sarebbe nell’uso della destra populista quando la violenza sessuale è commessa da nostri connazionali.
Così, un maxi blitz in favore di telecamera con oltre 400 agenti viene organizzato a Caivano, mentre il DL presenta una serie di ‘‘Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile’’, che puntano in generale nella direzione di una facilitazione del carcere per i minori e i genitori colpevoli di non assicurarne la frequenza scolastica o di non averne impedito le azioni delittuose. Tra queste, lo stanziamento di 30 milioni per avviare programmi di recupero sociale in una zona così complicata, e non importa che ciò segua di poco lo stralcio dal PNRR dei sei miliardi previsti proprio per il recupero delle periferie e dei territori disagiati. Viene da chiedersi perché in un Decreto-Legge che prende il nome dal luogo teatro di una violenza sessuale non vi sia nemmeno un riferimento ai crimini di questa natura, né si sia accennato a un’azione educativa in questo senso. L’omissione pare particolarmente grave quando, guardando ai dati del Censis, si nota come le violenze sessuali siano tra i pochi reati in crescita nell’ultimo decennio.

Non si tratta di stabilire l’eticità e l’efficacia insite nelle misure del DL, né di evidenziare le criticità del nostro sistema penale in generale, fatto di carceri sovraffollate dove il tasso di suicidio è dieci volte più elevato che nel resto della società civile e da cui trapelano regolarmente storie di abuso di potere e violenza. Che il carcere non sia in grado di assolvere la sua funzione rieducativa, del resto, è una verità universalmente nota, che confermano dati cui non moltɜ di noi sentono il bisogno di guardare: il XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone mostra come, benché diminuiscano i crimini, in generale aumenti il tasso di recidiva, segno del fallimento del proposito rieducativo che nella nostra Costituzione è riconosciuto al carcere. Se continuiamo a servircene come principale modo di fare giustizia è perché da tempo la politica ha rinunciato a immaginare e a sforzarsi per realizzarne forme alternative, preferendo la detenzione come modalità di neutralizzazione di quei detriti umani considerati incompatibili con un modo di organizzazione sociale e del lavoro che trae la sua forza proprio dallo stato di crisi permanente in cui versano i marginali della nostra società, fonte di profitto e manodopera sotto tutelata o maglia della rete della criminalità organizzata tanto più redditizia quanto più l’inazione dello Stato la mantiene nella sua condizione.

Così, poco importa del dubbio valore deterrente dell’inasprimento della pena2, né della stretta correlazione tra fattori socio-ambientali e criminalità: alla voce della folla che per restaurare l’equilibrio della normalità invoca, come facilmente avviene di fronte a crimini efferati, la legge del taglione, si risponde emanando un DL in tempo reale, tentando di raccogliere consenso finché l’argomento rimane nei trend social. Occorrerebbe forse interrogarsi sul perché si renda necessario un processo rieducativo per una popolazione di giovanissimɜ e perché, fra tutti gli strumenti possibili, si agisca dal punto di vista penale anziché preventivo, decidendo di aumentare l’afflittività della pena e non di muoversi sul terreno sociale, culturale ed economico su cui la criminalità cresce. Terreno preparato anche da decenni di sottofinanziamento della scuola pubblica e dalla debolezza delle istituzioni, incapaci di rispondere ai bisogni reali dellɜ giovani, dall’avidità dei privati che nella ricerca spasmodica di manodopera a basso costo entrano sempre più massicciamente nella scuola italiana, avvicinando chi la frequenta a un mondo del lavoro che l’inazione politica continua a mantenere precario e senza tutele.

Potrebbe stupire scoprire che mentre il DL Caivano minaccia condanne fino a due anni per i genitori che non assicurano la frequenza scolastica dellɜ figliɜ e abbassa la pena minima necessaria per l’applicazione del carcere per lɜ minori, si prosegue con una riforma degli Istituti tecnici e professionali che a partire dal prossimo anno prevederà in quasi un terzo delle scuole di questo tipo la riduzione a quattro anni del tempo necessario per conseguire il diploma. La proposta di una riduzione del tempo scolastico viene così ribadita parallelamente a una facilitazione della reclusione, e con questo taglio si priva ancora una volta quella fascia di giovani tipicamente provenienti da contesti di maggiore povertà materiale e culturale di una delle poche possibilità accessibili di fare comunità, di interrogarsi e istruirsi sul mondo che vivono per risignificarlo, imparando a concepire il rapporto con l’Altro – specie quand’esso è donna – al di là della violenza e della sopraffazione di cui la nostra cultura rimane imbevuta. Che la scuola sia anche questo oggi è vitale, anche se complesso, specie perché continuano a mancare iniziative che puntino in maniera strutturale in questa direzione. Anche quando però il tema delle discriminazioni legate al genere non entra nelle aule, lo spazio di confronto critico che moltɜ docenti sono capaci di crearvi rimane un spesso un unicum essenziale nella vita dellɜ studentɜ.
In questa prospettiva l’assurdità della strada tracciata sta non solo nel prevedere punizioni maggiori attaccando nello stesso momento l’unico presidio che potrebbe essere realmente efficace nel contrasto dei motivi che le rendono necessarie, ma anche nella rimozione dal discorso politico del problema culturale che concima la violenza di genere.

Troppo impegnata nella sciovinista difesa della tradizione, la politica decide di dimenticare le donne che in virtù del ruolo che essa ha loro assegnato continuano a essere violentate e uccise, contribuendo a mantenere intatto quel ciclo di violenza che solo nell’ultimo anno ne ha portata via una ogni quattro giorni. Rimuovendo dal dibattito dell’unica emergenza reale ci si assicura che ci saranno un’altra Palermo e un’altra Caivano, che i centri anti-violenza rimarranno sovraffollati e sottofinanziati e che la tradizione che tanto il governo s’impegna a difendere continuerà a crescere giovani donne capaci di accettare la maternità e la subalternità come unico loro destino. La politica che si volge alla difesa di Dio, delle famiglie e delle nazioni, al di là di ogni rigurgito storico, è una politica che guarda all’istruzione come a un luogo neutro utile solo all’accettazione e alla riproduzione dell’esistente. È una politica che teme la scuola come luogo di educazione al pensiero critico, perché cela i suoi reali intenti dietro strati di discorso che fanno leva su nemici immaginari e vecchi timori, che rinchiude ɜ suɜ figliɜ bastardɜ e lascia torturare e morire in mare coloro che non corrispondono all’unica identità che la tradizione prescrive. È una politica che risponde con la forza della violenza che caratterizza la pena detentiva alla criminalità che lei stessa produce, non per fare giustizia alle vittime, ma per ristabilire la sua egemonia. Se contro di lei possiamo fare qualcosa, questo qualcosa è continuare a brandire queste poche verità mentre la sua messinscena prosegue, rinnegando assieme la violenza che istituzionalizza e quella che attua per punirla a partire da una scuola che, per funzionare, non possiamo che volere sempre più vivamente critica.


Note

1) Consultbile all’indirizzo https://eurispes.eu/news/la-criminalita-tra-realta-e-percezione-risultati-del-rapporto-realizzato-da-direzione-centrale-della-polizia-criminale-ed-eurispes/#:~:text=Rispetto%20al%202021%20l’aumento,prostituzione%20e%20della%20pornografia%20minorile.

2) Come si avince dallo studio pubblicato su Nessuno tocchi Caino: https://www.nessunotocchicaino.it/notizia/usa-nuovo-studio-la-deterrenza-%C3%A8-legata-alla-certezza-di-essere-presi-non-alla-durezza-della-pena-30315612.

 

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Giada Letonja

Nata a Torino, è iscritta al primo anno di università. Cura il podcast di “Tutte le ragazze avanti”. Scrive occasionalmente per il mensile Zainet.

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