Chiamami col mio nome

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Il benessere psicofisico delle persone 
che frequentano la scuola passa anche 
attraverso la possibilità della carriera alias,
 ma nelle scuole secondarie stenta a diffondersi.
 Eppure non dovrebbe essere una decisione
 dei singoli istituti, perché è essenziale 
alla tutela di un diritto già riconosciuto
dalla nostra norma.

 

Tra le tante questioni affrontate dal movimento studentesco quest’anno, a rendersi protagonista è stata anche quella relativa all’istituzione della carriera alias1. Sinteticamente, si tratta della possibilità rivolta agli e alle studenti transgender di ottenere la rettifica del nome nei documenti scolastici aventi valore non ufficiale affinché corrisponda con l’identità di genere da loro percepita. Al momento la procedura è attiva in alcune scuole di secondo grado e atenei – come ad esempio quello di Torino2 – solitamente in seguito alla richiesta dei rappresentanti degli studenti, ed è generalmente rivolta a quanti hanno già iniziato un percorso di transizione legalmente riconosciuto. Non è quindi una possibilità aperta a tutte e a tutti gli studenti italiani, nonostante molte persone, sulla scia della partecipazione politica iniziata con le proteste dello scorso autunno, ne abbiano fatto richiesta: ogni scuola sceglie da sé come comportarsi all’interno dei propri organi collegiali. Spesso la proposta viene avanzata dagli studenti, ma la sua approvazione dipende in gran parte dalle sensibilità dirigenziali, così come dalle possibilità economiche della scuola di dotarsi delle strutture burocratiche deputate alla sua gestione. Gli istituti che si rifiutano di attivarla fanno appello alla mancanza di linee guida ministeriali in materia, gli altri alla legge sull’Autonomia. Diverse associazioni come Genderlens3 o gruppi di attivismo come Sei trans?4 denunciano da anni come comunque, anche laddove si giunga alla sua introduzione, i requisiti necessari per attivarla siano il più delle volte legati alla presentazione di un certificato medico che attesti la disforia di genere. E questo perché, nonostante l’OMS abbia rimosso ormai dal 2018 la transessualità dall’elenco delle malattie mentali, la varianza di genere continua ad essere affrontata come una patologia, il cui trattamento è da affidarsi a équipe specializzate di endocrinologi, psicologi e psichiatri. La certificazione medica richiesta per l’attivazione della carriera alias riflette l’arretratezza della normativa italiana in materia che, dai requisiti per la rettifica anagrafica fino alla dicitura inerente al sesso presente nei documenti, è fermamente improntata a una concezione dicotomica del genere: si transita solo da un binario all’altro, senza possibilità di fermarsi nel mezzo.

Rimane così invisibile l’esperienza di tutte quelle persone non binarie che non si riconoscono in nessuno dei due generi tradizionali, come quella delle migliaia di persone intersessuali che in Italia, nonostante le condanne dell’ONU e del Consiglio d’Europa, continuano a subire interventi chirurgici di “normalizzazione” in età infantile5. A poco è servito anche il riconoscimento della nostra Corte Costituzionale del diritto all’identità di genere come parte integrante dell’espressione del diritto all’identità personale: la possibilità di una dicitura neutra nei documenti volta a garantire l’effettiva possibilità dell’autodeterminazione di genere ad oggi rimane estranea al nostro orizzonte legislativo.

Chi invece si trova ad affrontare un percorso di transizione non solo deve fare i conti con un sistema sanitario le cui carenze condannano ad anni di eterodeterminazione identitaria, ma anche con uno Stato che, ponendo la questione del rispetto dell’altrui identità come scelta delle singole scuole, educa alla possibilità del tutto legittima della discriminazione. Non stupisce così che tra le giovani persone trans si registrino i tassi più elevati di abbandono scolastico, né che l’Italia detenga il primato nazionale per transcidi in Europa, quando fin dalla scuola il riconoscimento della loro identità è soggetto all’altrui arbitrio.

Per rendere davvero effettiva la tutela di un diritto fino a oggi riconosciuto solo sulla carta bisognerebbe innanzitutto passare per quella stessa scuola che lo considera una questione di gusti, introducendo con urgenza delle Linee guida ministeriali che mettano a sistema i percorsi alias negli istituti di ogni ordine e grado, superando il limite della certificazione medica. Sarebbe il primo passo verso la concretizzazione della tutela dell’identità di genere che, benché compaia già nello Statuto delle studentesse e degli studenti, finora ha potuto fare affidamento soltanto sulla spontaneistica adesione di alcuni istituti illuminati.

Soprattutto, però, è necessario tenere a mente l’insufficienza della sola norma quando si tratta di estirpare un problema che affonda le sue radici sul piano culturale. Se la comunità trans insiste tanto sulla questione della depatologizzazione è perché sa che la sofferenza cui vanno incontro i suoi membri nel corso della loro vita – la stessa che molto spesso finisce per togliergliela, o comunque per mutilarla di alcune sue parti costitutive – è dovuta in larga parte alla mancanza di modelli e di rappresentazioni, alla negazione identitaria e, sopra ogni altra cosa, alla costante individualizzazione di un problema culturale. Ciò che lo Stato dovrebbe impegnarsi a normalizzare, allora, non sono i corpi delle persone trans, quanto forse la naturalità della loro esistenza, e farlo a partire dall’educazione scolastica.

D’altronde, come sostenevano anche molti detrattori del Ddl Zan interni alla comunità LGBTQ+, introdurre una legge punitiva volta ad arginare un fenomeno d’odio che nel piano culturale affonda le proprie radici significa lasciare intatta la gramigna nel sottosuolo. Noi studenti mai come quest’anno abbiamo alzato la voce per chiedere carriera alias e con lei un altro genere di educazione: è l’unica soluzione che ci viene in mente per porre fine all’infestazione.


NOTE

  1. Per approfondimenti, riferimenti storici e contesto italiano si veda il sito Universitrans, in particolare la pagina https://universitrans.eu/universitrans/#1528448583474-ad5a01c1-8999.
  2. Sul sito dell’ateneo, alla pagina https://www.unito.it/ateneo/organizzazione/organi-di-ateneo/comitato-unico-di-garanzia/carriera-alias, si legge: «Per garantire il benessere psico-fisico delle persone che studiano e che lavorano nell’Ateneo, a qualsiasi titolo facenti parte della comunità universitaria dell’Università degli Studi di Torino, nonché per favorire la realizzazione di un ambiente di studio e di lavoro inclusivo, l’Università di Torino, in sinergia con il CUG, pone in essere le misure di protezione per le persone che abbiano la necessità, all’interno dell’Ateneo, di un nome diverso rispetto a quello anagrafico, mediante l’attivazione di una carriera alias.»
  3. Collettivo famiglie giovani persone trans, il cui sito è www.genderlens.org.
  4. Collettivo che si definisce «Gruppo informale di persone trans^, non binarie e alleat*», il cui sito è https://seitrans.noblogs.org/.
  5. Si legga in proposito il testo della Risoluzione del Parlamento europeo del 14 febbraio 2019 sui diritti delle persone intersessuali (2018/2878(RSP), secondo il quale il Parlamento europeo «condanna fermamente i trattamenti e la chirurgia di normalizzazione sessuale; accoglie con favore le leggi che vietano tali interventi chirurgici, come a Malta e in Portogallo, […] incoraggia gli altri Stati membri ad adottare quanto prima una legislazione analoga [e] sottolinea la necessità di fornire una consulenza e un sostegno adeguati ai minori intersessuali e alle persone intersessuali con disabilità, nonché ai loro genitori o tutori, [onde] informarli pienamente sulle conseguenze dei trattamenti di normalizzazione sessuale». Il testo è consultabile all’indirizzo https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2019-0128_IT.html?redirect.
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Giada Letonja

Nata a Torino, è iscritta al primo anno di università. Cura il podcast di “Tutte le ragazze avanti”. Scrive occasionalmente per il mensile Zainet.

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