Uccidere i padri, tutti

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“Non fidarti di nessuno che abbia superato i trent’anni”, suggeriva uno slogan in voga durante le ribellioni giovanili degli anni Sessanta e Settanta. Il contrasto generazionale consisteva in questi decenni in una rivolta contro gli anziani e i genitori, espressione di un autoritarismo che si voleva allora combattere nella società, nella scuola e nella famiglia.

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L’incomprensione del ruolo positivo e necessario dell’autorità predispose la generazione del Sessantotto al parricidio sommario. Si comprende così perché la loro protesta non ha potuto trasformarsi in progetto. Mancava una forza coagulante e direttiva. Si giurava sugli effetti automaticamente positivi dello spontaneismo. Analisti superficiali e falsi profeti, di cui non si sa oggi se ammirare di più l’improntitudine o la perversa vocazione alla corruzione, assicuravano sulla scorta di un Nietzsche mal compreso che “bisogna avere dentro di sé un caos per dare al mondo una stella”. Beninteso, dimenticavano di aggiungere che bisogna anche essere Friedrich Nietzsche. 

La lotta tra padri e figli nel Sessantotto era condannata fin dall’inizio a essere crudele, sanguinosa e inutile, appunto come certe lotte in famiglia che nella loro stessa cattiveria e crudeltà annunciano già che alla fine non ci saranno né ci potranno mai essere né vincitori né vinti, che nessuno vincerà, che la lotta sarà una perdita per tutti e che la sofferenza sarà tanto grande quanto sterile. Gli esempi letterari possono aiutarci a capire. In Vittima del dovere di Eugène Ionesco, un figlio incontra il padre; la madre, abbandonata dal padre, gli aveva detto: “Dovrai perdonare, figlio mio, questa è la cosa più difficile”. E poi il figlio al padre: “Padre, non ci siamo capiti… Eri duro, non eri forse tanto cattivo. Non è forse colpa tua. Non odiavo te, ma la tua prepotenza, il tuo egoismo… Mi battevi. Ma io ero più duro di te. Il mio disprezzo ti ha colpito molto più fortemente. Il mio disprezzo ti ha ucciso… Avremmo potuto essere buoni amici. Avevo torto di disprezzarti. Non valgo più di te. Guardami… Ti assomiglio… Se tu volessi guardarmi, vedresti quanto ti assomiglio. Ho tutti i tuoi difetti”. 

Il giovane figlio di Ionesco parla già come parleranno i reduci della contestazione, quelli che sono tornati nei partiti, che hanno trovato buoni posti nell’industria, che hanno monetizzato la protesta trasformandola in carriera. Ma l’incubo paterno è stato un momento di angoscia reale che ha velato la complessità della vita sociale e che, per un istante almeno, ha potuto far credere a tutta una generazione che la rivoluzione fosse a portata di mano e che la vita di una società potesse svilupparsi ordinatamente senza guida, in maniera acefala, per singoli imprevedibili impulsi: “L’immaginazione al potere”.

Per la generazione del Sessantotto la figura paterna ha assunto le sembianze di quell’orribile padre seduto a capotavola, tronfio e sicuro di sé, di cui scrive Kafka nella Lettera al padre, o quella del padre di Paul Léautaud, ormai malfermo sulle gambe, ma sempre rozzo e manesco, che scorreggiava a tavola e si ficcava le dita nel naso. “Non vi sono padri buoni, è la regola”, concludeva Jean Paul Sartre, “non prendiamocela con gli uomini ma con il legame di paternità che è marcio. Far figli, nulla di meglio; averne, che iniquità! Fosse vissuto, mio padre si sarebbe sdraiato su di me per lungo, e mi avrebbe schiacciato. Per fortuna, è morto in giovane età: in mezzo a tutti gli Enea che portano sulle spalle i loro Anchise, io passo da una riva all’altra, solo e odiando questi genitori invisibili a cavallo sui loro figli per tutta la vita; ho lasciato dietro di me un morto giovane che non ebbe il tempo di essere mio padre e che potrebbe essere, oggi, mio figlio. Fu un bene o un male? Non lo so; ma sottoscrivo volentieri il verdetto di un eminente psicoanalista: non ho il super-ego”. 

 

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I protagonisti del Sessantotto meritano le attenuanti. Il loro errore teorico aveva una forte base emotiva. La loro insufficienza analitica era del tutto naturale in persone che non ritenevano di aver tempo da perdere. Odiavano i loro padri per prenderne il posto. Ma intanto è mutato lo stile, si sono allentati i vincoli; c’è più scioltezza, una maggiore fluidità nei rapporti. Le istituzioni, sclerotizzate, sono state saltuariamente scosse dalle fondamenta. I loro sinistri scricchiolii hanno salutato il nuovo mondo. Quale? Il mondo dei padri di ritorno. Si è fatta strada la consapevolezza di una distinzione fondamentale tra potere e autorità, ma anche fra paternalismo che soffoca le potenzialità individuali e autorità paterna che guida all’emancipazione e all’autonomia. È una severa lezione di modestia dover trovare i termini di questa distinzione in un testo di centocinquant’anni fa, La democrazia in America di Alexis de Tocqueville: “Al disopra dei cittadini si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, previdente e dolce. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia”. Ma è poi in Max Horkheimer che la distinzione fra autorità paterna e autorità della burocrazia statale qui embrionalmente accennata troverà il suo pieno sviluppo sul piano teorico.

Autorità e autoritarismo non vanno confusi. Esiste un’autorità come “dipendenza accettata” che può esercitare una funzione fondamentale per lo “sviluppo delle energie umane”. L’istituzione sociale in cui l’autorità non necessariamente autoritaria può dispiegare la sua benefica funzione è la famiglia. Naturalmente, la famiglia è parte della società globale, e la famiglia borghese “produrrà” i tipi autoritari e i comportamenti sottomessi che sia gli imperativi tecnologici sia l’organizzazione sociale del sistema di produzione capitalistico richiedono. 

Ma sarebbe un errore procedere a equiparazioni meccaniche e sommarie fra società globale e società familiare. È vero che la famiglia si va desacralizzando e che lo scenario, anche per merito della contestazione del Sessantotto e nonostante tutte le sue intemperanze e i suoi errori, appare profondamente mutato. La lotta contro il padre ha perduto il suo significato fondamentale. Come è stato correttamente osservato dallo psicanalista tedesco Alexander Mitscherlich in Verso una società senza padre, “con opera incessante e non sempre intenzionale, i processi sociali generali, che hanno portato alla società industriale di massa, hanno sconvolto la figura del padre venerabile, onnisciente, responsabile di ogni decisione. Tutto dimostra che le forme paternalistiche nello Stato e nella Chiesa trovano scarsa rispondenza nell’esperienza quotidiana delle masse”. E tuttavia, lungi dall’avere oggi sotto gli occhi una società di monadi leibniziane o di “egoità” alla Fichte, stiamo assistendo al ritorno dei padri. 

L’esigenza della direzione paterna assume forme nuove. Lo stesso concetto di patria potestas sul piano del diritto familiare è stato profondamente modificato, diluito, esteso alla madre con gli apporti laterali dei figli, non più sudditi della compagine familiare ma compartecipi. Ma l’esigenza della direzione paterna è riemersa nei termini di un’insopprimibile esigenza funzionale. Laddove non venga soddisfatta, essa dà luogo a fenomeni di aggregazione di tipo regressivo o irrazionalistico”. La stessa forma-famiglia, dopo i furori della contestazione nei suoi aspetti più immediati e irriflessi, viene recuperata dai giovani d’oggi, e non solo per l’ovvia difficoltà di trovare alloggio. La figura e il ruolo paterni hanno acquistato, o vanno faticosamente scoprendo, nuove dimensioni. La famiglia, da chiusa fortezza verso il mondo esterno, va trasformandosi in “famiglia aperta”. La stessa società, un tempo immaginata istituzionalmente rigida e stratificata, si configura come una “società fuori tutela”. Sviluppi positivi, che però non hanno nulla di automatico, che anzi impongono la riscoperta del senso della meta collettiva, del télos sociale.

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