Storia di una straniera. L’educazione fisica in Italia

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Dall’ultimo numero de «La ricerca», “Corpi intelligenti”, breve storia della ginnastica come materia scolastica, dall’iniziale intento disciplinante al sapere plurale dell’“educazione fisica”.
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Scattata negli anni Cinquanta, la foto mostra gli alunni di una scuola elementare di Avellino impegnati con l’insegnante in semplici esercizi di psicomotricità. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

I senzatesta e i senzacorpo. A volerci andar giù dritto, parrebbe questa la sintesi della sintesi della storia della scuola italiana: mostri tutto fisico in tuta da lavoro e, viceversa, esserini macrocefali e occhialuti, come nelle efficaci vignette di Frato (il pedagogista Francesco Tonucci) nell’ormai classico quaderno del Movimento di cooperazione educativa A scuola con il corpo (1974), presenze altalenanti di una didattica consolidatasi in scomparti.

Già Maria Montessori, nel distinguere per assurdo tra un uomo rosso e un uomo bianco, ovvero tra la vita vegetativa e la vita di relazione negli esseri umani, raccomandava agli educatori di porre sempre gli esercizi muscolari «al servizio dell’anima», anziché farli «servi della parte materiale della vita vegetativa in ciò che si chiama “vita fisica”». Eppure, scriveva, nella liturgia scolastica l’attività motoria restava un antidoto artificiale all’«inerzia muscolare degli scolari che devono fare vita sedentaria per i loro studi, tenendo una posizione determinata dalla disciplina di classe: cioè seduti rigidi sui banchi di legno». Così la ginnastica rappresentò a lungo «un rimedio comandato ad un male imposto: e niente è più caratteristico e quasi simbolico del vecchio mondo che questa azione e controazione imposte dal maestro, che elargisce imperialmente i mali ed i rimedi al bambino passivo, disciplinato»1.

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Una vignetta di Frato.

Nascita di una “disciplina”

Che la nascita della ginnastica come materia scolastica fosse connessa all’idea di disciplina, metodo e regola dell’insegnare (dal latino disco = imparo) e nello stesso tempo norma o precetto ordinante, appare chiaro fin dai primissimi anni Sessanta dell’Ottocento, quando i regolamenti attuativi della legge Casati (regio decreto 13 novembre 1859, n. 3725) introdussero gli «esercizi militari e ginnastici» nei soli istituti secondari maschili. Il carattere “speciale”, e dunque la separazione rispetto al resto del curricolo, era confermato dall’esistenza di docenti ad hoc, appositamente formati e talora provenienti dall’esercito, così come all’esercito aveva rivolto per primo il suo magistero lo svizzero Rudolf Obermann (1812-1869), “padre” della ginnastica italiana d’impronta tedesca. Le prime norme didattiche, diramate con circolare ministeriale 5 febbraio 1862, prescrivevano schieramenti, marce ed evoluzioni, esercizi di corsa, salto in lungo e in alto, a corpo libero e agli attrezzi, mentre agli allievi delle classi maggiori era impartita anche una vera e propria istruzione militare, propedeutica all’uso delle armi2.

La natura educativa dell’insegnamento, delineatasi fin da subito in alcuni isolati esperimenti nella scuola primaria, si manifestò sul piano normativo con la legge 7 luglio 1878, n. 4442, nota col nome del ministro Francesco De Sanctis che la firmò. La ginnastica, detta appunto “educativa”, era resa ora obbligatoria in tutti i gradi scolastici, tanto per i maschi quanto per le femmine, mezz’ora al giorno nelle classi elementari e due ore la settimana nelle secondarie. Tratto distintivo dei nuovi programmi, ancora pienamente ispirati al metodo obermanniano e, dunque, al prevalere dell’elemento patriottico-militare e della grande attrezzistica, erano l’«ordine», la «disciplina», la «precisione e concisione di comando», l’«obbedienza pronta e piena». Ove tali tratti fossero mancati, ammonivano le prescrizioni ministeriali, «la scuola non può raggiungere tutto il suo fine» (programmi approvati con regio decreto 16 dicembre 1878, n. 4677, art. 2). La lezione sarebbe servita «come di sollievo dopo una lunga applicazione intellettuale» (ibi, art. 7), mentre il maestro avrebbe dovuto farsi «compagno dei propri alunni», pur nell’autorevolezza (art. 1) e senza mai mostrarsi «incerto nella scelta e nel comando dell’esercizio» (art. 5).

Da un lato, l’ingresso a pieno titolo nella compagine scolastica nobilitava la materia, arricchendola di «un alito salutare che vivifica il corpo, rasserena la mente e la rende più atta agli studi», com’ebbe a scrivere ancor prima dell’emanazione della legge l’obermanniano Felice Valletti3; dall’altro, la manteneva però fragile sul piano del riconoscimento sociale, quasi una “straniera” (l’étrangère dans la maison école4) nel novero delle discipline di studio. Il consolidato statuto di specialità, non ultimo sul piano della valutazione e in merito alla possibilità di esonero dalle lezioni, non fece che aggravare la situazione, anche a seguito degli accesi scontri fra le due correnti prevalenti per tutta la seconda metà del XIX secolo in Italia: quella arroccata sull’eredità di Obermann e quella articolata attorno alla personalità del più giovane Emilio Baumann (1843-1916), propugnatore di un elevato programma di relazioni tra corpo e volontà. Ne è testimonianza, all’interno del variegato mondo magistrale, il vivace romanzo di Edmondo De Amicis Amore e ginnastica (1892), dove tra i battibecchi dei protagonisti in merito al prevalere dei due indirizzi emerge tra l’altro una più moderna e consolidata concezione d’insegnante, lontana dall’immagine falsata e riduttiva dell’«acrobata di circo». «Il maestro di ginnastica è un uomo di scienza, o signori! – declamava uno di quei personaggi usciti dalla penna dell’autore di Cuore – Egli deve conoscere la ginnastica teorica, l’anatomia applicata, la pedagogia, l’igiene, la storia della ginnastica, la costruzione di attrezzi e palestre, e la tecnologia5; e dev’essere artista»6.

L’educazione fisica: un sapere plurale

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Durante il fascismo l’educazione fisica era intesa come addestramento militare e acrobatismo. Wikipedia commons.

Non ci volle molto a comprendere che, se voleva davvero stare alle “regole del gioco” scolastico, la materia doveva uscire dalla concezione tecnico-coreografica che le era stata propria fino a quel momento e allargare i propri orizzonti culturali trasformandosi in “educazione fisica”, parte integrante del progetto educativo in aula con l’obiettivo di accrescere negli alunni «salute, energia, agilità, educar [loro] i sensi e gli istinti» (istruzioni e programmi per gl’istituti infantili approvati con regio decreto 26 novembre 1893, n. 914). Stando ai risultati della Commissione Todaro, incaricata di rivedere i programmi a pochi anni di distanza dalle prescrizioni del 1886 (regio decreto 11 aprile, n. 3914), che avevano visto un possibile tentativo di compromesso fra le istanze di Baumann e quelle dei seguaci di Obermann, la nuova materia rappresentava qualcosa di più della ginnastica metodica, non solo per l’attenzione crescente manifestata nei confronti delle questioni igieniche (il che, appunto, presupponeva un’infarinatura sanitaria che raramente i docenti possedevano), ma soprattutto per l’introduzione del gioco e dello sport quali elementi di educazione globale del soggetto in formazione. «L’educazione fisica – ordinava la legge Rava-Daneo del 26 dicembre 1909, n. 805, punto di massima della parabola ginnica del primo cinquantennio unitario – comprende: la ginnastica propriamente detta, i giuochi ginnici, il tiro a segno, il canto corale e gli altri esercizi educativi atti a rinvigorire il corpo ed a formare il carattere». E ancora i programmi Pasquali per gli asili infantili di cinque anni dopo (regio decreto 4 gennaio 1914, n. 27) ribadivano la distanza da una didattica «militaresca», «teatrale», «ridicolmente convenzionale».

Il restyling della disciplina nascondeva, tuttavia, una crisi profonda non tanto dell’universo ginnico e sportivo7 ma del ruolo che faticosamente la stessa si era ritagliata nel “recinto” scolastico, con la sussistenza di stipendi magistrali ridotti all’osso, un sempre scarso riconoscimento degli insegnanti, mancanza di locali e strutture. Alla vigilia del primo conflitto mondiale, che avrebbe segnato definitivamente il trionfo delle masse sul palcoscenico della storia, cominciò a profilarsi l’ipotesi che l’educazione fisica potesse uscire dalla scuola per essere affidata ad enti terzi, sportivi o militari. Toccò paradossalmente a Giovanni Gentile, il filosofo che aveva sostenuto le ragioni di un monismo spiritualistico mente-corpo, realizzare questo piano disaggregante, una volta divenuto ministro della Pubblica istruzione del governo Mussolini, subito dopo la Marcia su Roma. In pratica, si trattava del tardivo compimento dell’antica dicotomia psico-somatica, nel nome degli interessi del Partito nazionale fascista e del suo progetto ideologico.

Il linguaggio (politico) del corpo

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Una lezione di educazione fisica in una classe femminile negli anni Venti, da Pinterest.

Nel 1923 l’Enef (Ente nazionale per l’educazione fisica) assunse sotto di sé l’insegnamento della materia nel grado secondario. Nel 1927 gli succedette l’Onb (Opera nazionale balilla), longa manus del Partito preposta alla diffusione dell’ideologia totalitaria in tutta la popolazione under 18, ed esattamente dieci anni dopo sarebbe stata la volta della Gil (Gioventù italiana del littorio), con più marcati tratti sportivi e militari. Nel corso del ventennio fascista, l’aspetto ordinativo e coreografico arrivò ad assorbire l’intera dimensione educativa, il che non era certo nuovo, come c’insegnano gli studi di Foucault8: «la disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce queste stesse forze (in termini politici di obbedienza)».

L’immagine elaborata attraverso il linguaggio corporeo era quella di una massa docile, determinata da una volontà superiore; e il distacco dalla scuola portò inevitabilmente con sé un’estraneità di codici e lessici rispetto alla tradizione, anch’essa in qualche modo rivisitata dal fascismo. Si potrebbe dire che «il corpo che […] vogliamo irrobustire, rendere agile e pronto, è sempre uno strumento dell’animo». Peccato che ad affermarlo sarebbero stati, stavolta, i programmi didattici per le scuole elementari e materne approvati nel 1945 (decreto ministeriale 9 febbraio e decreto luogotenenziale 24 maggio, n. 459), a liberazione avvenuta. Ricalcando un consolidato cliché, l’Italia uscita dalle macerie belliche attribuiva ora ai gesti e alle parole un significato nuovo, ispirato al linguaggio delle moderne democrazie: «La forza fisica deve essere posta a servizio di una volontà diretta ad operare secondo le leggi morali», anzitutto respingendo «ogni forma di quel caporalismo che tanto ha mortificato lo spirito della giovinezza nel recente passato» (ibidem). «In questi ultimi anni l’educazione fisica, sotto l’influenza di particolari e spesso contingenti finalità politiche, aveva gradualmente perduta la sua natura di sana, feconda, necessaria pratica fisiologica ed era degenerata in un complesso di esercitazioni e di addestramenti improntati ad un rigido formalismo, che aduggiava le anime giovanili e ne addormentava e isteriliva le sane energie e le libere tendenze» (programmi per l’educazione fisica nelle scuole secondarie, approvati con decreto del capo provvisorio dello Stato 8 novembre 1946, n. 383).

Ciononostante, il rapporto che la scuola italiana ebbe, nel secondo dopoguerra, con l’educazione fisica, finalmente rientrata nel suo seno, rimase diffidente: rispetto alle altre materie, essa si manteneva all’ultimo posto e gl’insegnanti continuavano a essere quelli formati nelle Accademie istituite dal fascismo, antenate degli Isef (Istituti superiori di educazione fisica, il primo dei quali aperto a Roma nel 1952), mentre riguardo allo sport si sviluppava negli ambienti pedagogici non solo nazionali un sospetto dovuto principalmente all’elemento competitivo e mercificatorio proprio degli spettacoli di massa9. Oltretutto, gli accordi col Coni, dagli anni Cinquanta in avanti, in merito all’attività sportiva scolastica non fecero che replicare quel dualismo scuola-extrascuola (partito, organizzazioni del tempo libero, ecc.) proprio dei decenni precedenti10.

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Un’altra vignetta di Frato.

L’ondata contestativa degli anni Settanta, seguita all’attesissima riforma del grado medio (legge 31 dicembre 1962, n. 1859) e al Sessantotto, non poté non coinvolgere la dimensione corporea, per la quale s’invocò una maggior attenzione in aula (non soltanto in rapporto alla sfera ginnico-sportiva), come nell’appello del Movimento di cooperazione educativa da cui si è partiti. Sulla scia di proposte educative internazionali come l’“antiginnastica” della francese Thérèse Bertherat, lungo la Penisola sorgevano esperienze cariche di entusiasmo e passione politica, quale quella confluita nel volumetto C’era una volta la ginnastica, di Andrea Imeroni e Rita Margaira (1976): una critica feroce ai metodi consolidati, fatti di autoritarismo, classifiche e direttività11.

I programmi del 1979 per la scuola media (decreto ministeriale 9 febbraio) introducevano il concetto di corporeità cosciente «anche come mezzo espressivo […] nell’unità fondamentale della persona umana», oltre che come occasione interdisciplinare di «verifica vissuta di nozioni apprese» nel resto del curricolo; mentre, nell’incessante tentativo di rivalutare la disciplina, i programmi del 1982 (decreto del presidente della Repubblica 1° ottobre, n. 908) attribuivano al docente di educazione fisica nella secondaria superiore la pesante responsabilità di seguire, forse più da vicino rispetto ai colleghi data la peculiarità dell’insegnamento, «la travagliata ricerca di una identità personale» negli allievi, posti dinanzi alla delicata fase di «passaggio all’età adulta». Nel grado primario faceva, infine, capolino il gioco-sport (decreto del presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, n. 104), inteso non come avviamento precoce alla pratica sportiva, ma come opportunità – cognitiva, emotiva, sociale e motoria – di educazione globale alla corporeità.

Cosa sia ora la materia, oggetto negli ultimi anni di numerosi cambiamenti di denominazione a seconda dei gradi scolastici e delle differenti riforme dell’insegnamento, è difficile dire. Stando alle vigenti Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo (decreto ministeriale 16 novembre 2012, n. 254), essa parrebbe più che altro, ambiziosamente, uno strumento in grado di consegnarci le chiavi per conoscerci e comprenderci meglio. E lo “star bene con noi stessi” richiama un’idea di benessere (e una conseguente pedagogia del benessere12) che resta tutta da scoprire, alla luce dei singoli vissuti e di un mondo in sempre più rapido cambiamento. Una sfida alla quale la scuola non può risultare impreparata.


NOTE

1. M. Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano 2000, pp. 87-88. Sul banco come dispositivo disciplinante cfr. almeno F. De Giorgi, Appunti sulla storia del banco scolastico, in «Rivista di storia dell’educazione», I (2014), 1, pp. 85-98 e J. Meda, Mezzi di educazione di massa. Saggi di storia della cultura materiale della scuola tra XIX e XX secolo, FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 43 ss.

2 Il testo della circolare, come tutti i programmi citati in seguito, è riportato in M. Ferrari, M. Morandi, I programmi scolastici di “educazione fisica” in Italia. Una lettura storico-pedagogica, FrancoAngeli, Milano 2015. Sulla storia della ginnastica, o altrimenti denominata, nella scuola italiana, la bibliografia è vasta, a suo modo espressione dei molteplici sguardi disciplinari coi quali la materia è stata nel tempo oggetto di ricostruzione. Per brevità, mi limito a rimandare al pionieristico studio di M. Di Donato, Indirizzi fondamentali dell’educazione fisica moderna. Profilo storico, Studium, Roma 1962 (più volte aggiornato) e, da ultimo, a P. Alfieri, Le origini della ginnastica nella scuola elementare italiana. Normativa e didattica di una nuova disciplina, Pensa Multimedia, Lecce-Rovato 2017. Un’articolata rassegna storiografica è stata offerta di recente da Id., La ginnastica come disciplina della scuola elementare negli anni dell’unificazione italiana. Una proposta di “ri-contestualizzazione” storiografica, in «Espacio, Tiempo y Educación», IV (2017), 2, pp. 187-208.

3. F. Valletti, Pedagogia e metodica applicate alla ginnastica educativa, Paravia, Torino 1876, riportato da P. Viotto, Storia antologica dell’educazione fisica in Italia. Testi Leggi Istituzioni, Vita e pensiero, Milano 1983, p. 88. Più in generale, sulla «fenomenologia della scolasticizzazione» si veda M. Morandi, Snodi identitari di una materia scolastica, in Corpo, educazione fisica, sport. Questioni pedagogiche, a cura di M. Morandi, FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 56-71.

4. P. Arnaud, Contribution à une histoire des disciplines d’enseignement. La mise en forme scolaire de l’éducation physique, in «Revue française de pédagogie», 89, pp. 29-34.

5. Così scriveva, ad es., il direttore Alessandro La Pegna relazionando sui corsi della Scuola magistrale ginnastica di Napoli per l’anno 1880: «Quest’anno ò creduto aggiungere […] il disegno delle macchine di ginnastica di cui ciascun alunno al compire del corso à potuto presentare alla Commissione esaminatrice un atlante di dodici tavole delle principali macchine della ginnastica, con tutte le più succinte indicazioni sulla loro costruzione ed impianto […]. Infine perché vi fossero messi in grado di poter da sé far costruire le maggiori macchine nelle palestre […] feci che tutti si fossero provveduti di una collezione dei vari legnami più in uso per dette costruzioni, e per dei altri furono anche date speciali istruzioni». Il passo è citato da D.F.A. Elia, Alessandro La Pegna: ragioni di un silenzio storiografico, in «Rivista di storia dell’educazione», II (2015), 2, p. 223.

6. E. De Amicis, Amore e ginnastica e altri racconti, Biblioteca universale Rizzoli, Milano 1986, p. 56.

7. Sulla diffusione degli sport nel Paese rimando, in particolare, agli studi di Stefano Pivato, ad es. Sport, in Guida all’Italia contemporanea, 1861-1997, diretta da M. Firpo, N. Tranfaglia, P.G. Zunino, IV: Comportamenti sociali e cultura, Garzanti, Milano 1998, pp. 141-202.

8. Mi riferisco, in particolare, a M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976, p. 150 per la citazione che segue.

9. Sul tema, ad es., E. Isidori, Filosofia dell’educazione sportiva. Dalla teoria alla prassi, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012, pp. 74 ss.

10. Cfr. A. Scotto di Luzio, Corpo politico e politiche del corpo nella storia dell’Italia unita. Le vicissitudini della “ginnastica” a scuola, in Scuola in movimento. La pedagogia e la didattica delle scienze motorie e sportive tra riforma della scuola e dell’università, a cura di G. Bertagna, FrancoAngeli, Milano 2004, pp. 49-69; Morandi, Snodi identitari cit.

11. Cfr. M. Zedda, Pedagogia del corpo. Introduzione alla ricerca teorica in educazione fisica, Ets, Pisa 2006, pp. 125 ss., in particolare pp. 133 ss.

12. Rinvio a riguardo ai lavori di M.L. Iavarone, Pedagogia del benessere (con T. Iavarone), FrancoAngeli, Milano 2004 (2ª ed. 2007); Educare al benessere. Per una progettualità pedagogica sostenibile, Bruno Mondadori, Milano 2008; Sport e attività motoria per il benessere. Frontiere formative e didattiche (a cura di), Bradipolibri, Torino 2016.

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Matteo Morandi

È dottore di ricerca in Storia (Pisa 2006) e in Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea (Pavia 2013), è ricercatore di Storia della pedagogia all’Università di Pavia, dove insegna anche Pedagogia generale. Studioso di storia della scuola e dei processi formativi tra Otto e Novecento, è autore, tra l’altro, de La fucina dei professori. Storia della formazione docente in Italia dal Risorgimento a oggi (Scholé 2021). Con M. Ferrari, R. Casale e J. Windheuser ha curato, sempre nel 2021 presso FrancoAngeli, La formazione degli insegnanti della secondaria in Italia e in Germania. Una questione culturale.

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