Starnone infero

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Con “Vita mortale e immortale della bambina di Milano” Domenico Starnone tocca una nuova tappa nella costruzione del personaggio maschile dei suoi lavori, tra un’esistenza ordinaria, a Napoli, e l’abisso infernale.

 

Chi pensi di regalare per le feste l’ultimo romanzo di Domenico Starnone (Vita mortale e immortale della bambina di Milano, Einaudi, Torino 2021) tenga ben presente che la sua trama ha ben poco a che fare con le gioie del Natale. Subito, infatti, il narratore, sempre più vicino all’autore fin dal nome, Mimì (alias Domenico), precisa quella che dall’infanzia è stata la sua ossessione: «la fossa dei morti». Suggestionato dal racconto del mito di Orfeo ed Euridice, Mimì sente per tutta la vita il richiamo degli inferi, che i latini ritenevano spalancarsi proprio in prossimità della sua regione, presso il lago Averno, zona Cuma-Pozzuoli, oggi Città metropolitana di Napoli. Questa solo apparente fantasia infantile segna la formazione del protagonista e si intreccia con la sua vocazione poetico-letteraria, con le sue relazioni di più o meno stilnovistica amicizia (con la bambina di Milano, appunto, danzatrice), con la sua crescita anagrafica e culturale.

Mimì vive in un quartiere di Napoli e tra i vari membri della sua famiglia ha un rapporto speciale con la nonna, maltrattata da tutti in quanto costretta alle gravose mansioni domestiche tradizionalmente associate al suo ruolo. La nonna tuttavia nutre per il nipote un affetto viscerale, assoluto, facendogli sperimentare quella gratuità incondizionata che sembra propria solo dei legami di sangue. Proprio con lei, in maniera meno sadica che tra nonno e nipote in Scherzetto, Mimì fa domande e riceve risposte, soprattutto sulla morte, che ha reso precocemente vedova la donna. Tra Mimì e gli altri, invece, c’è come una barriera invalicabile, costantemente rafforzata dalla sua ricerca di un inafferrabile senso della vita accompagnata alla compiaciuta consapevolezza che la morte è dietro l’angolo, che tutto, dalla geografia alla letteratura, dalla fisica all’algebra, ne è pervaso.

Più che le conseguenze di questa disillusione il nuovo romanzo di Starnone ricostruisce le sue premesse. Vediamo così il giovane Mimì barcamenarsi tra gli studi liceali e universitari, quando impara le trascrizioni fonetiche per l’esame di Glottologia o esamina i testi del filosofo Filodemo di Gadara per l’esame di Papirologia. La sua relazione sentimentale con Nina, laureanda in Matematica, è rosa dallo spettro della bambina di Milano, la vicina di casa ammirata dal piccolo Mimì, che ne ricostruisce via via i particolari, le origini familiari, le circostanze della scomparsa. Questo percorso da acrobata, anzi proprio da Orfeo, tra il mondo di sopra (la «vita mortale») e il mondo di sotto (la «vita immortale»), trova la sua scenografia d’elezione nel cimitero, in mezzo a tombe e lapidi trasandate, con una difettosa illuminazione elettrica.

Jean Baptiste-Camille Corot, Orfeo guida Euridice fuori dall’Oltretomba, 1861, olio su tela (Houston, Museum of Fine Arts).

I personaggi di Starnone, salutato da più parti come il maggiore narratore italiano del momento e oggetto di importanti studi accademici (citiamo Reading Domenico Starnone a cura di E.M. Ferrara e S. Milkova) sono spesso considerati gli eredi contemporanei dell’inetto primonovecentesco. Lo scrittore è però insofferente rispetto a questa categorizzazione e in effetti, più che essere «uomini senza qualità», i personaggi starnoniani, da Via Gemito in giù, subiscono i condizionamenti di una società perbenista in cui si sentono imbrigliati e da cui pertanto si vorrebbero estraniare: la famiglia borghese e rispettabile; lo stereotipo del maschio protettivo e tutto d’un pezzo; l’immacolata affermazione professionale. Anche il percorso dell’adulto Mimì, come quello dei suoi predecessori, sembra lineare, ma le sue vere «qualità», che pure ci sono, hanno più a che fare con il passato che con il futuro, più con l’altrove che con il qui-e-ora; e non sono ovviamente apprezzate dall’ambiente intorno.

A leggere Vita mortale e immortale della bambina di Milano in controluce con il racconto di Orfeo viene in mente quella frase terribile dell’Inconsolabile di Cesare Pavese, dialogo con Leucò dedicato appunto a quel mito: «Visto dal lato della vita tutto è bello. Ma credi a chi è stato tra i morti… Non vale la pena». Mimì si sente a suo agio tra le rovine di Pompei, tra i caratteri greci degli sbrindellati papiri di Ercolano, tra i simboli dell’alfabeto fonetico internazionale che cercano di fissare per iscritto gli sfuggenti suoni del parlato. Quella «fossa dei morti» che non è mai riuscito ad aprire sembra averlo comunque trascinato di sotto. La bambina di Milano è la sua Euridice, la nonna, la sua traghettatrice dell’Orco; non c’è un cambio di gusti sessuali (come invece per Orfeo), né delle moderne Baccanti si avventano su Mimì per sbranarlo. Eppure un’atmosfera lugubre, infera, come lava vesuviana ammanta ogni pagina del romanzo. E nessuna ginestra è in grado di resisterle.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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