Sono più brutto del mio avatar

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Accettare la “sfida della complessità” nella quale siamo ormai immersi comporta per la scuola la sperimentazione di nuove avventure in campo educativo, e, dunque, anche una conseguente preparazione dei docenti, quasi mai però accompagnati da percorsi formativi ad hoc. Dall’ultimo numero de «La ricerca», “Corpi intelligenti“.

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Il processo di maturazione dei ragazzi del grado secondario, e, nello specifico, l’ingresso nell’età adulta, implica – tanto più oggi – l’attenzione dell’istituzione scolastica verso forme di educazione “altra” (civica, ambientale, stradale, alimentare, sessuale…) rispetto a quella a cui una consolidata tradizione l’aveva abituata. All’interno di questa “rivoluzione” il corpo ha giocato e gioca un ruolo fondamentale. È soprattutto a partire dagli anni Novanta del secolo scorso che un nuovo concetto di corpo «come veicolo per esplorare nuovi linguaggi e acquisire nuove identità» si afferma nella società: «tatuaggio e piercing diventano amplificatori del linguaggio corporeo»1 e la pelle si fa sede di una messa in mostra del proprio modo di essere, comunicando agli altri e a se stessi messaggi a tal punto indelebili da restare per sempre in mostra sotto gli occhi di tutti.

A ciò non può dirsi estranea ad esempio, ma non solo, l’educazione fisica, ai cui insegnanti già i programmi del 1982 affidavano il delicato compito di “vigilare” sulla «travagliata ricerca di una identità personale, nella quale si realizza il passaggio all’età adulta», mediante il «ricorso ai metodi di individualizzazione e ad una continua valutazione dello sviluppo e della differenziazione delle tendenze personali. Tale azione, ovviamente, investe la responsabilità di tutti i docenti della scuola secondaria superiore; ma in modo accentuato quella dei docenti di educazione fisica»2.

Selfie Surgery

Certo non si tratta solo di tatuaggi o di corpi scolpiti. Tali pratiche si inseriscono all’interno di un contesto culturale in rapida trasformazione che sta investendo in modo non marginale il mondo giovanile: la crescente e quasi spasmodica attenzione per il proprio fisico rappresenta infatti una caratteristica sempre più evidente della nostra società, dove programmi televisivi e social network veicolano una concezione del corpo come “mezzo” per raggiungere inedite idee di popolarità legate al mondo di Internet (si pensi ad esempio alla figura dello youtuber, il ragazzo o la ragazza che diventano famosi e apprezzati dai coetanei grazie a una serie di filmati di ogni genere pubblicati sul famoso sito per la condivisione e visione di video). Nel caso dei social network, il corpo è addirittura scisso da sé facendosi immagine ritoccata, modificata e “postata” sulla rete. Mentre per i tatuaggi il legame con il corpo rimane intimo e personale, il selfie sui social media dimostra invece il rapporto (e in alcuni casi persino la sudditanza) che il proprio sé ha con gli altri: si tratta infatti di un soggetto che si rapporta al proprio fisico vedendolo dall’esterno, come lo guarderebbe un’altra persona. Svanisce quindi l’intimità dell’esperienza iniziatica del tatuaggio per lasciare spazio, come vedremo, all’attenzione narcisistica per i dettagli della rappresentazione virtuale.

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Scrive Maria Luisa Iavarone: «in questo panorama nasce un’emergenza educativa palpabile che richiede di infittire la trama del tessuto relazionale tra giovani e adulti, sempre più sgranata a causa di specchi deformanti la vita reale che finiscono per riflettere la fatica del processo identitario»3. La studiosa ci mette davanti al gap generazionale che dev’essere tenuto presente da chiunque voglia occuparsi di educazione in questi tempi di grandi cambiamenti. Un divario che si sta trasformando sempre più in un gigantesco burrone a causa dell’ingresso della virtualità nella vita dei giovani, i quali si trovano a sperimentare il proprio processo di costruzione della personalità anche in relazione a un contesto diverso da quello concreto4. Si tratta di un’esperienza di autoaffermazione non sperimentata dagli adulti della generazione precedente, che dunque necessita di un enorme sforzo intellettuale ed empatico per essere compresa appieno. Possono esistere infatti situazioni complesse in cui la vita online (virtuale) e quella offline (reale, concreta) si confondono generando profondi disagi nelle persone. Una situazione più che nota a Beatrice Borromeo, autrice del docufilm Selfie Surgery – Vorrei essere il mio avatar (2016), nel quale viene raccontata soprattutto l’esperienza di due giovani ragazze romane, Flaminia e Ludovica (rispettivamente 25 e 22 anni), così ossessionate dalle loro foto sui social (i loro avatar) da volerci assomigliare quanto più possibile. È noto infatti che i selfie possono essere ritoccati tramite appositi software per modificare le immagini. Con dei semplici click è possibile ridurre, ad esempio, le dimensioni del naso o lo spessore della mascella, rendendo il soggetto della fotografia decisamente differente dalla persona reale. «La chirurgia mi va a modificare quei punti che io modificavo prima con le applicazioni»5, dice Flaminia nell’intervista. La scelta delle due ragazze, compiuta con disarmante leggerezza, consiste allora nell’agire concretamente sul loro corpo esattamente come si potrebbe fare con un selfie: la chirurgia plastica diventa la soluzione per porre fine a questo disagio. L’idea che emerge dal docufilm è che, secondo il punto di vista delle due ragazze, il fisico reale non può reggere al confronto con quello virtuale, e che dunque a questo debba adeguarsi. Esso diviene un oggetto rimaneggiabile, scomponibile e ricomponibile a seconda dei capricci e dei disagi delle due ragazze. Liposcultura, filler nel naso e attorno agli occhi, rimodellamento del seno sono tra le operazioni a cui decidono di sottoporsi per eguagliare il loro alter ego virtuale, per non sentirsi meno attraenti dell’avatar.

In questa vicenda, la vita online e quella offline non si confondono (e si fondono) semplicemente, ma la seconda travalica prepotentemente i suoi limiti fino a ergersi come esempio al quale la realtà deve adeguarsi per essere considerata migliore dalle due protagoniste. La fotografia, la copia del reale, diventa il modello a cui la persona in carne e ossa deve assomigliare per entrare in sintonia con se stessa: è il virtuale a dettare le regole. Il corpo si fa invece oggetto di importanti (e costose) modificazioni che hanno la propria radice in un nuovo tipo di disagio: l’invidia verso la bellezza “estetico-virtuale” (ma forse non meno reale!) dell’avatar.

Pur trattandosi di una situazione limite, la dipendenza da smartphone e social network è un fenomeno in continuo sviluppo6 che, come abbiamo visto, può insinuarsi nel processo di crescita dei giovani, a volte opponendosi a un sereno processo di maturazione. Si tratta di elementi facenti ormai parte della nostra quotidianità e capaci di modificare il rapporto dei giovani (ma anche degli adulti) con se stessi e con gli altri.  Si tratta, a mio parere, non solo di una situazione da osservare e studiare con grande cura e attenzione, ma anche di una condizione sociale sempre più simile agli infausti scenari di una certa letteratura che, a partire dal secolo scorso, ha cominciato a tematizzare il timore riguardo al sempre maggiore influsso della tecnologia all’interno della vita dei singoli, puntando i riflettori sulle capacità delle innovazioni tecnologiche di rendere l’esistenza sempre meno caratterizzata da sani legami umani7. È rifacendosi a queste preoccupazioni, vecchie ormai di decenni, che può svilupparsi l’interesse verso quella che potremmo definire a tutti gli effetti una pedagogia della distopia, ossia lo studio (e il conseguente intervento educativo a contrasto) di quei fattori indesiderabili o spaventosi sviluppatisi e ormai inseritisi nella vita di tutti i giorni, in grado di modificare la socialità in modo radicale rispetto a come veniva intesa dalla generazione precedente, esattamente come viene raccontato nei romanzi di letteratura distopica.

Il cambiamento è un fattore fondamentale per lo sviluppo di una società ma, com’è noto, ogni mutamento ha un prezzo. Dunque è bene tenere alta la guardia contro escamotages virtuali capaci di rendere la nostra vita più comoda: lo scotto da pagare potrebbe essere alto.


NOTE

1. M.L. Iavarone, Il valore della corporeità nella ricerca pedagogica, in Abitare la corporeità. Nuove traiettorie di sviluppo professionale, a cura di M.L. Iavarone, FrancoAngeli, Milano 2013, p. 26. Per un’interessante trattazione in tema di tatuaggi cfr. A. Castellani, Storia sociale dei tatuaggi, Donzelli, Roma 2014.

2. Nuovi programmi d’insegnamento di educazione fisica negli istituti di istruzione secondaria superiore, nei licei artistici e negli istituti d’arte approvati con d.p.R. 1° ottobre 1982, n. 908, in M. Ferrari, M. Morandi, I programmi scolastici di “educazione fisica” in Italia. Una lettura storico-pedagogica, FrancoAngeli, Milano 2015, p. 165.

3. Iavarone, Il valore della corporeità cit., p. 28.

4. A questo proposito cfr. soprattutto H. Gardner, K. Davis, Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale (2013), Feltrinelli, Milano 2014, nonché S. Turkle, Alone Together. Why we expect more from technology and less from each other, Basic Books, New York 2012.

5. B. Borromeo, Selfie Surgery. Vorrei essere il mio avatar, FremantleMedia, 2016.

6. Al riguardo sono di grandissimo interesse i dati statistici e le argomentazioni contenuti in M. Spitzer, Solitudine digitale. Disadattati, isolati, capaci solo di una vita virtuale? (2015), trad. it. di C. Tatasciore, Corbaccio, Milano 2016.

7. Due esempi tra i più famosi sono certamente G. Orwell, 1984 (1949), Mondadori, Milano 2010 e A. Huxley, Il mondo nuovo (1932), Mondadori, Milano 2015.

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Davide Schieppati

Ha conseguito nel 2018 la laurea magistrale in filosofia. Si è classificato terzo al Concorso Letterario Nazionale La Lettera: “ti scrivo perché”, con conseguente pubblicazione di quattro poesie nella raccolta “Florilegium”. Ha pubblicato dodici poesie nella raccolta “Quattro poeti da leggere – Quinto volume”, Carta e Penna Editore, Torino 2016..

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