L’obsessive smartphone disorder: una riflessione sociologica

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Quali sono le ripercussioni che l’uso ossessivo di smartphone e computer possono avere sulla vita dei singoli individui, soprattutto se più giovani?

In questo difficile periodo storico in cui le misure di contenimento del SARS-CoV-2 ci impongono di passare nelle nostre case la maggior parte del tempo, i computer e i cellulari si sono rilevati fondamentali. Ma nonostante questi dispositivi abbiano favorito un incremento dello smart working e della didattica a distanza (per quanto riguarda la ricerca nazionale a opera della SIRD relativa alle criticità e ai punti di forza della DAD cito, a titolo d’esempio, l’articolo di Claudio Girelli La scuola e la didattica a distanza nell’emergenza Covid-19 , mentre Ilaria Venturi e Corrado Zanino espongono alcune perplessità in un dossier su La Repubblica online), facilitando enormemente le relazioni in diversi ambiti, c’è spazio per alcune critiche al riguardo. Nonostante gli indubbi vantaggi, infatti, molti esperti mettono in guardia dalle ripercussioni che l’uso ossessivo di smartphone e computer possono avere sulla vita dei singoli individui, soprattutto se più giovani.

La parola “dispositivo”, utilizzata anche per descrivere questi strumenti tecnologici, è un termine caro alla tradizione foucaultiana; si tratta di un tema vastissimo di cui non è possibile ripercorrere la storia all’interno di questo articolo[1] ed è a partire da questo punto che vorrei esporre la mia argomentazione. Altri autori, oltre a Michel Foucault, hanno trattato questo tema[2]; uno di loro è Giorgio Agamben, che scrive: «chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi»[3]. Dunque, evidentemente, anche il cellulare e il computer. Questi apparecchi elettronici, infatti, hanno la capacità di gestire l’economia del nostro tempo come nessun apparecchio aveva mai fatto prima. Si pensi alle svariate app in grado di aiutarci a gestire la maggior parte delle attività quotidiane – dalla sveglia, agli esercizi ginnici fino addirittura all’app che invia finte chiamate consentendoci di sfuggire a situazioni scomode – “inserendosi” però, di fatto, all’interno di tutti gli ambiti della nostra giornata entro cui usufruiamo del dispositivo in questione.

Sia chiaro, in questo articolo non si vuole disapprovare l’uso degli apparecchi elettronici, ma riflettere su quanto il servizio messo in campo dalla tecnologia possa diventare, in alcuni casi limite, una vera e propria dipendenza in grado di stravolgere le abitudini e il comportamento degli individui che ne sono colpiti. Manfred Spitzer, studioso tedesco di neuroscienze, si è occupato molto di questo argomento. La sua argomentazione parte dalla constatazione comprovata scientificamente secondo cui, a livello clinico, non sono presenti sostanziali differenze tra l’obsessive smartphone disorder e la dipendenza da droghe, alcool o gioco d’azzardo, in quanto «le strutture e i processi cerebrali coinvolti sono assolutamente identici a quelli delle dipendenze da sostanze»[4]. Usufruendo dei dati provenienti dal Ministero della Ricerca coreano relativi al 2013, Spitzer può constatare che la Corea del Sud presentava già a quel tempo un allarmante sviluppo nella dipendenza nell’utilizzo dello smartphone, sottolineando comunque che paesi europei, come la Germania e la Svezia, vivevano anch’essi situazioni problematiche da questo punto di vista[5].
Tra gli effetti sulla salute e sul comportamento descritti da Spitzer, l’insonnia e la depressione sono sicuramente tra i più preoccupanti, ma vengono presentati anche disturbi dell’attenzione, ansia, stress e comportamenti compulsivi. Senza contare fenomeni in continuo aumento come il cyberbullismo, l’hate speech, le fake news e il body shaming[6].

Certamente, il cellulare è uno strumento: si trova nelle nostre mani e non viceversa, siamo noi che lo utilizziamo e non il contrario. Eppure è un oggetto particolare, interagisce con noi, ci consiglia nuove amicizie e ulteriori prodotti da acquistare basandosi su quelle che sono le nostre relazioni sociali e i nostri gusti in fatto di vestiti o di libri: tutte conoscenze che, in un modo o nell’altro – nella maggior parte dei casi –, il nostro cellulare possiede e utilizza.

Mi servo di questi due termini coscientemente, tenendo presente il documentario The Social Dilemma[7] in cui quella che potremmo definire “la mente pensante dello smartphone” sembra essere descritta come un meccanismo in costante attività, “felice” di svolgere il suo ruolo e “preoccupata” nel caso l’apparecchio venga trascurato per un certo lasso di tempo. Si può criticare o accettare le argomentazioni espresse nel documentario, ma non si può negare che esista un’importante emergenza riguardante l’educazione all’utilizzo dei dispositivi elettronici, soprattutto nei riguardi di bambini e bambine, ragazzi e ragazze. Infatti, internet entra a far parte della “cultura popolare dei giovani”[8] già in tenera età ed è innegabile che parte del mondo digitale si relazioni a questa categoria di utenti a scopi economici e d’intrattenimento.

Il web intercetta il bisogno di molti genitori che necessitano di strumenti multimediatici come distrazione per i figli: «mamma e papà cedono ai figli lo smartphone e il tablet per tenerli buoni. È l’idea che siano come una babysitter»[9]. C’è poi chi si oppone all’ingresso troppo precoce nel mondo virtuale da parte dei minori[10]. Successivamente, crescendo, la costruzione della propria identità diventa una questione sempre più pressante e questi dispositivi elettronici si configurano come una sorta di “catalizzatore”: «In internet […], l’identità viene principalmente costruita e mantenuta attraverso testi, discorsi, narrazioni. L’io acquista concretezza attraverso le parole pubblicate su un blog oppure su un social network, oppure nei dialoghi mediati dal computer»[11].

Il web, attraverso i suoi numerosi mezzi, è dunque in grado di aiutarci a “fabbricare” l’idea di noi che vogliamo mostrare agli altri. Il bisogno umano di socialità si esprime a pieno, con tutta la sua intensità, anche nel contesto virtuale, portando con sé gioie, delusioni, soddisfazioni e dubbi, esattamente come accade nel mondo relazionale concreto – le uscite con gli amici nei bar o nelle discoteche oppure le semplici passeggiate con i nonni –, “messo tra parentesi”, almeno momentaneamente, a causa del Sars-CoV-2.

È dunque a questo mondo digitale che i giovani si rivolgono maggiormente in questo periodo storico in cui la vita quotidiana risulta essere “ristretta” principalmente all’ambito domestico. Smartphone e computer si configurano come principali portali verso parenti e amici, ma anche come “cassa di risonanza” del bisogno di espressione del sé, ora fortemente limitato data la carenza di relazioni in presenza.

Inoltre, il mondo digitale intercetta l’intimo desiderio di piacere agli altri e dà l’occasione di esporre gli individui sul palcoscenico del mondo digitale nei panni di ciò che desidererebbero essere – si pensi al caso di un avatar in un online game – o di come si vorrebbe essere visti dagli altri – ad esempio attraverso il selfie che «ci permette di scegliere e di proporre un aspetto specifico della nostra soggettività»[12].

Si tratta allora di un’identità ibrida, a cavallo tra due mondi, in cui la parte in carne e ossa sente il bisogno della sua controparte digitale per esprimere le sue potenzialità. Ragazzi e ragazze, più vulnerabili sotto certi aspetti rispetto agli adulti, entrano in contatto con la costruzione della loro identità sociale e personale in un modo totalmente nuovo rispetto alle altre generazioni, ponendosi direttamente nel contesto di una “società cibernetica”, costituita però da persone reali e caratterizzata da fatti non così tanto virtuali come potrebbe invece sembrare affacciandosi ai social network con uno sguardo grossolano – i recenti fatti al Campidoglio negli USA dimostrano quanto singoli video e opinioni personali postate sulle piattaforme digitali possano effettivamente generare e alimentare situazioni pericolose.
In conclusione, è proprio per arginare la paura dello spettro della definitiva perdita di senso di cui parlava Jean Baudrillard – prima ancora dell’avvento dei social network, il filosofo e sociologo francese scriveva: «L’evento, il senso scompaiono all’orizzonte dei media»[13] – che è nostro dovere tutelare i più giovani dalle insidie nascoste nel web, formulando anche delle linee guida per aiutare a non fare un uso eccessivamente distratto di internet[14] o introducendo al tema di un’“etica dei media”[15].

In estrema sintesi, se la scuola e l’educazione in generale, così come molti impieghi nell’ambito lavorativo, possono sicuramente beneficiare in positivo dell’utilizzo di computer, tablet o smartphone, non bisogna però dimenticare i molti rischi evidenziati da Spitzer, oltre alle numerose frodi telematiche presenti nel web: l’educazione tout court – quella che ha come protagonisti non solo i genitori e gli insegnanti ma la società nella sua interezza – ha anche il compito di arginare i possibili danni di questa iper-realtà sulla vita – reale – dei più giovani e più in generale sull’assetto sociale nel suo complesso.

Ci troviamo quindi davanti a una domanda che non abbiamo mai dovuto porci prima d’ora nel corso della storia: nella nostra società, quanto spazio siamo disposti a concedere al virtuale? E, singolarmente, nella quotidianità, quanto della nostra esperienza personale vogliamo lasciare che diventi virtuale? Si tratta di domande cui urge dare una pronta risposta perché è chiaro ormai che siamo giunti a un “punto di non ritorno”: infatti se, per assurdo, internet sparisse da un giorno all’altro, le nostre vite ne risentirebbero enormemente. Aveva quindi ragione Baudrillard a sostenere che la realtà fosse stata in qualche modo la vittima dell’immagine digitale[16]? Se davvero le cose stanno in questo modo, è necessario scoprire chi sia il vero colpevole, senza restare stupiti se, alla fine, sulla scena di questo “delitto” troviamo le impronte digitali di ognuno di noi.


Note

[1] Si pensi a M. Foucault (1966), Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. it. E. Panaitescu, BUR, Milano 2016; id. (1971), L’ordine del discorso e altri interventi, trad. it. A. Fontana, M. Bertani, V. Zini, Einaudi, Torino 2004; id. (1975), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1993.

[2] Per esempio G. Deleuze (1989), Che cos’è un dispositivo?, trad. it. A. Moscati, Cronopio, Napoli 2017; E. Redaelli, L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfisica alla semiotica del potere, ETS, Pisa 2011 e, per una riflessione in ambito pedagogico, cfr. M. Ferrari, Lo specchio, la pagina, le cose. Congegni pedagogici tra ieri e oggi, FrancoAngeli, Milano 2011.

[3] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006, pp. 21-22.

[4] M. Spitzer (2015), Solitudine digitale. Disadattati, isolati, capaci solo di una vita virtuale?, trad. it. C. Tatasciore, Corbaccio, Milano 2016, p. 101.

[5] Ivi, pp. 102-103.

[6] Su questo delicato tema mi permetto di consigliare la lettura di M. Grandi, Far web. Odio, bufale, bullismo. Il lato oscuro dei social, Rizzoli, Milano 2017.

[7] J. Orlowski, The Social Dilemma, Exposure Labs, 2020.

[8] A questo proposito si veda C. Mitchell, J. Reid-Wlash, Researching Children’s popular culture. The cultural spaces of childood, Routledge, London 2002.

[9] G. Gambassi, A tre anni già pazzi per YouTube, in “Agorà” (inserto di “Avvenire”, 29 novembre, 2017, p. 25.

[10] Cfr. F. Taddia, Pellai: bisogna avere il coraggio di vietare il web ai bambini, in “La Provincia Pavese”, 22 gennaio 2021, p. 13.

[11] M. Ranieri, S. Manca, I social network nell’educazione. Basi teoriche, modelli applicativi e linee guida, Erickson, Trento 2018, p. 43.

[12] G. Riva, Selfie. Narcisismo e identità, il Mulino, Bologna 2016, p. 89.

[13] J. Baudrillard (1983), Le strategie fatali, trad. it. S. D’Alessandro, SE, Milano 2007, p. 79.

[14] M. Facci, S. Valorzi, M. Berti (2013), Generazione Cloud. Essere genitori ai tempi di smartphone e tablet, Erickson, Trento 2013.

[15] P. C. Rivoltella, Le virtù del digitale. Per un’etica dei media, Morcelliana, Brescia 2015.

[16] J. Baudrillard (1995), Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, trad. it Gabriele Piana, Cortina, Milano 1996.

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Davide Schieppati

Ha conseguito nel 2018 la laurea magistrale in filosofia. Si è classificato terzo al Concorso Letterario Nazionale La Lettera: “ti scrivo perché”, con conseguente pubblicazione di quattro poesie nella raccolta “Florilegium”. Ha pubblicato dodici poesie nella raccolta “Quattro poeti da leggere – Quinto volume”, Carta e Penna Editore, Torino 2016..

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