Ormai si sa: che ogni chiamata alle urne venga accompagnata da svariate analisi circa i motivi sottesi al fenomeno astensionistico è una certezza assai più stabile che qualsiasi legge elettorale. Certezza forse poco rassicurante, poiché effettivamente trova le sue ragioni nella costante crescita di quella che si configura a tutti gli effetti come una vera erosione dei presupposti fondamentali del nostro sistema democratico, ma capace comunque di farci assistere allo spettacolo del ciclico riproporsi di diverse ipotesi circa i motivi a essa sottesi. Come per l’indagine di ogni fenomeno complesso, nessun fattore può bastare di per sé a spiegare la questione nella sua interezza e, per quanto una facilitazione delle attuali modalità di voto potrebbe senz’altro riportare qualche fuorisede alle urne, è assai improbabile che il cuore del problema risieda in impedimenti di ordine pratico: una tra le indagini più esaustive sulla composizione dell’astensionismo in Italia proposta da Mannheimer e Sani rileva come gli astensionisti forzosi, ovvero coloro che non votano per un oggettivo impedimento, rappresentino soltanto il 20% del totale dei voti inespressi. Una percentuale sicuramente importante, anche perché composta principalmente da giovani che nella difficoltà di voto vedono un ulteriore segno della distanza che intercorre tra le loro esigenze e le risposte della politica. Ma non bastevole a spiegare la tendenza del fenomeno. In questo contesto, suggerire l’introduzione del voto online come possibile soluzione pare ignorare le reali cause dell’approfondirsi del già vastissimo abisso che oggi separa politica istituzionale e società civile.
Se lo scandalo di Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica hanno certamente segnato l’inizio di quell’era della sfiducia nelle possibilità di un’effettiva rappresentatività politica, limitarsi al mero dato storico sarebbe fuorviante: le ragioni per cui il fenomeno si aggrava a ogni tornata elettorale vanno ricercate soprattutto nel presente. Un presente in cui appare sempre più evidente l’oggettiva arretratezza della classe dirigente italiana che, procedendo a passo di opportunistiche alleanze e cicliche crisi, sancisce l’incostituzionalità del referendum sull’eutanasia poco dopo avere affossato il Ddl Zan. Tutti fatti, questi, che certo non contribuiscono a scalzare quell’immagine figlia dell’italica saggezza popolare che dipinge l’esercizio politico come un ufficioso gioco delle poltrone, il cui ritmo è scandito dai gretti umori di un elettorato da conquistarsi a suon di promesse e da precari equilibri interni, assai più determinanti di qualsiasi voto ben speso.
Sono sinceramente stupita da come le svariate analisi sul tema manchino puntualmente di rivolgere lo sguardo verso la scuola, luogo in cui per primo impariamo a stare con gli altri, entrando in una dimensione relazionale che è, consapevoli o meno ne si possa essere, anche politica. In quel brevissimo e immenso arco temporale che sono stati i miei cinque anni di liceo ho visto mutare profondamente il modo degli studenti di vivere la scuola: attività laboratoriali, spazi di confronto e autonomia, manifestazioni di piazza, tutte realtà ben affermate al mio ingresso, sono andate via via scemando fino al totale azzeramento seguito alla pandemia. L’impressione diffusa fra gli studenti è che in molti casi le limitazioni sanitarie causate dalla pandemia da Covid-19 siano state impiegate da alcune dirigenze come scusa per una restaurazione in senso autoritario della scuola.
Eppure una corda così tesa, se non si spezza, non può fare a meno di tornare indietro con un aspro contraccolpo: così si sono avute le centinaia di scuole occupate e le piazze più partecipate mai viste dai tempi della legge “Buona scuola”. C’era voglia di riprenderci anni di una vita vissuta a metà, di riappropriarci di spazi che avevano smesso di appartenerci. Le questioni che hanno fatto da catalizzatore di queste energie – le morti degli studenti in alternanza, le modalità dell’Esame di Stato, la carenza di un adeguato supporto psicologico – sono state senza dubbio fondamentali per decidere di occupare le scuole e scendere in piazza. E tuttavia non sempre erano note nella loro interezza agli studenti che protestavano: a guidarli è stato anche un disagio rimasto troppo a lungo sottopelle, che solo col tempo ha imparato a individuare con precisione responsabilità politiche e cause del suo esistere. Anche per i tanti per cui queste ragioni apparivano più chiare, non sempre la consapevolezza si è tradotta in un’azione continuativa.
In questo senso, le agitazioni studentesche, pur presentandosi come aperta contestazione al sistema scolastico, non hanno potuto che risentire dei suoi condizionamenti, e questo perché l’istruzione italiana oggi è sempre meno in grado di formare alla cittadinanza, intesa come partecipazione attiva alla cosa pubblica. Lo è nelle modalità di trasmissione del sapere, che continuano a considerare gli studenti più come vasi da riempire che fuochi d’intelligenza da accendere, a privilegiare la nozione mnemonicamente appresa e verticalmente trasmessa, educando alla passiva riproposizione di un sapere morto; e lo è nei contenuti che seleziona, anche e soprattutto per una disciplina come l’educazione civica, che della formazione alla cittadinanza dovrebbe fare la sua unica missione. E invece quello che impariamo il più delle volte è che il primo posto in cui le leggi non vengono applicate è proprio il luogo del suo insegnamento.
Ad esempio, mentre le norme si dicono per una scuola improntata ai valori democratici e alla compartecipazione delle decisioni, si tenta di esautorare gli organi collegiali di ogni potere decisionale, limitandone le funzioni di rappresentanza alla mera dimensione burocratica e informativa. E allora, sarà anche vero che non sempre gli studenti hanno precisa coscienza delle premesse politiche alla base della loro progressiva marginalizzazione, ma dietro alle agitazioni studentesche non c’è, come molti vorrebbero, una velleitaria ribellione adolescenziale. Il disagio di cui sono manifestazione, che sappiamo esistere e mai vorremmo rinnegare, affonda le sue radici in un terreno ben più ampio, fatto delle scelte di una politica la cui cecità nei confronti dei giovani e della scuola non ha fatto che acuirsi nel periodo pandemico. È naturale, quindi, che noi studenti agiamo nello spazio che abitiamo per difenderlo, e che invece guardiamo con indifferenza alla stessa politica che lo abbandona.
Personalmente non sono d’accordo con quanti sostengono che dovremmo pensare all’astensionismo come a un indice di maturità delle democrazie occidentali. Credo semmai si tratti di una delle manifestazioni più evidenti della loro crisi, e che la scuola, anziché produrre passivi ripetitori di nozioni, dovrebbe rieducarsi al confronto e alla critica attiva. Forse è perché nella mia scuola – nozionista, dirigenziale, che agli slanci di partecipazione politica risponde con ostilità e gatekeeping – ho imparato anche che l’impegno e l’interesse politico sono il mezzo più potente che abbiamo per cambiare la realtà che abitiamo. Ma l’ho imparato nonostante e non grazie al suo essere respingente e passivizzante. Per veder fiorire e durare a lungo questa mia fiducia, mi auguro allora una scuola che, prima di chiederci di memorizzare la Costituzione per formarci alla legge e ai suoi principi, sappia farsi entità incarnante quelle leggi e quei principi; che chiuda, almeno fra le sue mura, quell’abisso tra rappresentanza e rappresentati, tra voto e partecipazione, tra la norma scritta e la consuetudine che la tradisce e la cancella.