Scrivere un sonetto

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Mondo accademico e scuola si confrontano al telefono: saper scrivere un sonetto è competenza? E c’è differenza tra abilità e competenze?

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Quando ho dei dubbi sulla didattica, io telefono alla Gloria. La Gloria è Gloria Giudizi, già colonna della SSIS Toscana: uno di quei supervisori di tirocinio (e docenti di laboratorio) che all’inizio noi accademici guardavamo con sospetto, quando arrivavano muniti delle loro tabelle, delle loro oscure terminologie (oh, i curriculi verticali), delle loro irremovibili certezze («I modi dell’apprendere sono sei…»).
Poi ci siamo rilassati. Che la SSIS sia stata chiusa è stato un peccato proprio perché ha interrotto il circuito che si era riaperto tra la ricerca accademica, da una parte, e quella che io chiamerei “la cultura materiale” della scuola, dall’altra: che comprende non solo le competenze nella didattica, ma tutto ciò che la scuola, lasciata per decenni in caduta libera da una università ormai lontana e indifferente, ha elaborato per conto suo anche in termini di interpretazione dei testi, di canone, di riscrittura concreta della nostra storia letteraria.
Dunque, la Gloria. Che ha tentato non so più quante volte di spiegarmi la differenza tra conoscenze, competenze e abilità. Che io non riesco mai a mettere a fuoco per bene. E dunque, ritelefoniamo alla Gloria.

R: «Gloria non ti arrabbiare».
G: «No, perché dovrei?».
R: «Perché mi chiedono un intervento sulle competenze…».
G: «e tu non ti ricordi più quello che ti ho detto centinaia di volte».
R: «Piano, gentile supervisora».
G: «La prossima volta che mi richiami supervisora ti ammazzo. Anzi, butto giù il telefono e non ti spiego più nulla».
R: «Ascolti, professoressa Giudizi  (va bene?). Non creda che io non mi ricordi la differenza tra conoscenze e competenze. Quella me la ricordo benissimo».
G: «Sentiamo».
R: «Dicesi conoscenza quando uno sa una cosa; competenza quando uno la sa fare».
G: «Mica chiaro, professor Bruscagli. Come sarebbe, la sa fare? Cosa vorresti dire: che se io conosco un sonetto petrarchista è conoscenza, e la competenza corrispondente sarebbe che io so scrivere un sonetto petrarchista?».
R: « Più o meno».
G: «Nessuno scrive più sonetti petrarchisti».
R: «Ma si potrebbe. Una volta Luigi Baldacci mi ha detto che per studiare il petrarchismo del Cinquecento secondo lui era opportunissimo insegnare agli studenti a scrivere sonetti in stile petrarchista».
G: «Scherzava».
R: «Beh, può darsi. Però fino all’Ottocento la letteratura si insegnava così: non come una serie di autori e di testi da sapere, ma come esempi di stile da imitare. E ora che ci penso: imitare è una forma di competenza? O meglio, di passaggio dalla conoscenza alla competenza? Michelangelo va a studio da Bertoldo: apprende (conosce) come si lavora il marmo, e comincia a lavorarlo lui…».
G: «Stiamo sul letterario, per piacere, che mi ci sento meglio».
R: «Sì però, ma pensaci: in fondo nelle classi di retorica e di eloquenza si insegnava a scrivere; ci si aspettava che uno non solo conoscesse i buoni autori, ma imparasse a scrivere come loro…».
G: «Professore, la volta che sento il bisogno di una ripassatina di storia della letteratura e dell’insegnamento della letteratura la chiamo io».
R: «Scusami. Dunque dicesi competenza…».
G: «Dicesi competenza la capacità di fare delle cose, non solo di conoscerle in astratto».
R: «Già, già. E io quando faccio un corso sull’Ariosto, secondo te, come li faccio passare, i miei fanciulli, da una conoscenza a una competenza? Loro sono lì perché io gli faccia delle belle lezioni sul Furioso, che non sanno manco cosa voglia dire il titolo di preciso».
G: «Mio caro, ascoltami. Lo so che ti stanno a sentire rapiti. Lo so che escono da lezione conquistati, eccetera. Mi figuro che non manchino, in prima fila, i soliti fans adoranti».
R: «Beh, in effetti. Però lo so quello che vuoi dire. Te l’ho detto io già una volta: l’ipnosi da frequenza».
G: «Dica, Professore, dica – o ripeta».
R: «Cioè, succede questo. Che più d’una volta lo studente/studentessa che ti ha seguito rapito/a e adorante, che prendeva furiosi appunti segnandosi anche quando ti soffiavi il naso, a cui avresti dato 30 e lode sulla fiducia, poi all’esame faceva una magra figura. Cioè, niente di tragico: 24, 25…».
G: «E secondo te, perché ciò avviene?».
R: «Per la suddetta ipnosi da frequenza: questi pendono dalle mie labbra, ma io non sono mica sicuro che capiscano davvero. Anzi, evidentemente no – non tutti».
G: «Allora stammi a sentire. Tu fai parte di quella tipologia di professori universitari entusiasti, entusiasmanti, che mettono cuore e cervello in quello che fanno, e i ragazzi lo sentono e te ne sono grati».
R: «Grazie».
G: «Il fatto è che la vostra tipologia è la più nefasta – zitto un momento. Perché voi non entrate in vera relazione con chi vi sta davanti, ma con il riflesso del vostro superego. Scommetto che tu leggi stupendamente le ottave dell’Ariosto – zittino, per piacere. Ma se tu provassi a far leggere quelle ottave in classe ai tuoi allievi, con i loro accenti sbagliati, l’interpunzione trascurata, i segni interrogativi ignorati o non capiti, il ritmo sconnesso, di’ la verità, questo ti disturberebbe, perché sarebbe una ferita alla sublimità della tua recita».
R: «Questa è una cattiveria. Però è vero, il momento della verifica è tutto all’esame, e lì casca l’asino».
G: «Perché voi, professori-sciamani-incantatori, non vi preoccupate di controllare che la conoscenza che impartite si converta in competenza di chi vi ascolta. E lo studente che va bene ai vostri esami è quello che imita e sa ripetere la vostra recita, non quello che ha acquisito competenze in proprio».
R: «La trovo piuttosto cattiva, signora professoressa supervisora».
G: «Competenza, o Chiarissimo, sarebbe innanzi tutto far acquistare ai tuoi fanciulli una capacità indipendente di lettura…».
R: «Per esempio?».
G: «Per esempio, insegnargli a leggere l’endecasillabo e l’ottava. Metterli in grado di capire quando una parola antica non ha il significato che ha oggi. Fornire gli strumenti perché capiscano il gioco tra canto e sequenza…».
R: «Questo l’hai imparato da me».
G: «Sissignore: dieci anni di SSIS insieme non saranno passati per nulla, signor mio».
R: « Tutto ciò è più facile in classe, a scuola, che all’università».
G: «È da vedersi. Dipende dall’università. In altri Paesi, Lei m’insegna, l’enfasi è sui tools, come li chiamerebbe Lei, Professore…».
R: «Sulle abilità».
G: «Alt. Ti ho detto miliardi di volte che c’è differenza tra competenze e abilità».
R: «Sì, e io non l’ho capita mai. Cioè, la capisco per cinque minuti e poi me la dimentico. Le sottigliezze del vostro didattichese talvolta sfuggono ai nostri umili cervelli accademici».
G: «Ignoro e passo oltre. Abilità, mio caro, e un saper fare individuale, immediato, consumato nell’atto in cui una cosa si fa; competenza è una sorta di meta-abilità, che sa render conto di quello che si sa fare».
R: «Esempi».
G: «Io ti leggo un testo e ti chiedo di che tipologia di testo si tratta. Tu mi dici: argomentativo. E io: bravo. Questa è un’abilità. La competenza invece sarebbe che tu non ti limiti a saper riconoscere un testo argomentativo, ma lo sai anche definire, e quindi sai socializzare la tua abilità, e sei in grado di produrlo».
R: «Te lo dicevo! I sonetti del Cinquecento! Abilità: ti so dire, sentito un testo, che è un sonetto del Cinquecento. Competenza: so scrivere un sonetto del Cinquecento. Eh?».

[Pausa]

G: «Sei un caso disperato».

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Riccardo Bruscagli

è Professore Emerito di Letteratura Italiana presso l’Università di Firenze. Allievo di Lanfranco Caretti, a Firenze ha svolto tutta la sua carriera, ricoprendo anche varie cariche di governo (Direttore della SSIS Toscana, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia). I suoi studi, dopo un esordio ottocentesco (sulle lettere di Carducci), si sono rivolti soprattutto alla letteratura del Rinascimento: poema cavalleresco (Boiardo, Ariosto, Tasso), novellistica (Lasca, Bandello, Giraldi) teatro, Machiavelli. Più di recente si è accostato agli studi Danteschi, con vari saggi e un nuovo commento alla Divina Commedia (2011, 2021).

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