Io mi guardavo attorno. Alcuni compagni non fingevano neanche di prendere appunti: ci avrebbero pensato i genitori a intervenire al momento giusto per garantire la promozione a fine anno. Altri pendevano dalle labbra del professore: sapevano che qualcosa di buono sarebbe arrivato in futuro ma solo a costo di enormi sacrifici, porte sbattute in faccia, concorsi che i compagni di cui sopra avrebbero vinto come per magia. Qualcuno stretto nel banco rimuginava su un cinque di troppo in pagella. Pazienza, avrebbe dato per sempre una mano allo zio in pizzeria. Insomma, ci guardavamo tra noi ed eravamo già i cittadini del domani; su ciascuno potevi vedere emergere la forma che la famiglia, l’indole personale e il liceo stavano imprimendo con successo.
Alcuni giorni fa su Repubblica si è parlato di una vicenda scolastica che ha ricevuto un’incomprensibile attenzione. Uno studente diciassettenne dell’ITIS Pininfarina di Moncalieri ha messo in piedi un commercio di merendine comprate al supermercato e rivendute ai compagni a prezzo più basso dei distributori presenti a scuola. Questo commercio illegale è stato scoperto dai professori che hanno indetto un consiglio straordinario per prendere un provvedimento disciplinare nei suoi confronti. Non è la prima volta, comunque: l’anno scorso, quando la cosa è nata, l’alunno è stato sospeso per dieci giorni.
Intervistato in merito, il Preside dell’istituto ha dichiarato che, per motivi di sicurezza degli studenti (le merendine erano vendute senza indicazioni sulla provenienza o lo stato di conservazione) e di legalità (è illegale vendere senza licenza a scuola qualsiasi tipo di prodotto), questo commercio è stato bloccato e per l’alunno sarà previsto un percorso che lo recuperi dal punto di vista educativo. Fine dell’episodio. Una marachella scolastica, l’intenzione di mettersi qualche soldo in tasca, l’arroganza adolescenziale di chi è convinto di farla franca, la (prevedibile) tirata di orecchie degli adulti. Qualcosa da raccontare un giorno ai nipotini annoiati con lo sguardo nostalgico e un sorrisetto autoassolutorio.
E invece diventa un caso di cui si legge sul giornale, si parla nei corridoi delle scuole e con gli amici in pizzeria. Tutto per quelle due parole citate nell’articolo che molti considerano un’argomentazione: spirito imprenditoriale dice, dicono.
Il ragazzo, dunque, avrebbe dimostrato uno spirito imprenditoriale non comune mettendo su una compravendita che conveniva a tutti: ai compagni che compravano merendine a prezzo basso, a lui che intascava i soldi guadagnandoci sopra. Secondo questa interpretazione dei fatti la scuola, sempre castrante in termini di creatività e libertà, non ha riconosciuto al giovane una capacità di iniziativa che andava premiata (o perdonata) e ha reagito come di solito fa l’istituzione: riportandolo ferocemente nei ranghi.
A conferma di questa barricata erta in difesa del venditore di merendine arriva la proposta di una borsa di studio da parte della Fondazione Luigi Einaudi di Roma, il cui Presidente ha definito l’iniziativa del ragazzo come “una scelta d’impresa applicata”. Che non sia punito dunque, per quello che ha fatto, anzi: che segua le sue inclinazioni, che diventi con l’aiuto di tutti un imprenditore del domani.
Mi sembra che sia un’ottima idea. Sono convinta che si debbano incoraggiare i ragazzi a esprimere le proprie inclinazioni e a lavorare duro per vedere realizzati i propri sogni. Credo ancora in una scuola che si faccia strumento di una vita migliore per chi la frequenta. Un posto in cui germogliare.
Per questo mi piacerebbe che i sostenitori di questa borsa di studio si recassero a scuola a parlare non solo con il venditore di merendine ma con tutti gli studenti. Potrebbero spiegare che l’onestà e il rispetto delle regole che gli diamo sono formule antiche, ipocrisie di cui la società non ha bisogno. Potrebbero consegnare a questo ragazzo una sostanziosa borsa di studio che gli spalanchi le porte di una futura azienda davanti agli occhi dei compagni che stanno imparando da professori e libri l’economia, la matematica, la storia, la letteratura e che sanno che dovranno faticare e avere fortuna per non restare a lavorare a vita nella pizzeria dello zio. Insomma sarebbe ora di smetterla di insinuarlo, e di dire chiaramente a questi ragazzi che vivono in una società che premia i più furbi, non i più preparati, e che le leggi valgono solo per quelli che non hanno il coraggio o la volontà di infrangerle.
Tutto è bene quel che finisce bene, dunque. Ma il mio pensiero va al Preside dell’istituto, chiamato a giustificare se stesso e gli insegnanti per il lavoro che svolgono. Un Preside che parla di legalità, di educazione, di sicurezza degli studenti, ma soprattutto di capire quale sia il bene del ragazzo. Non deve essere facile. Né deve essere facile confrontarsi con genitori degli studenti che d’ora in avanti non sapranno più se pretendere che la salute del proprio figlio sia garantita dalle regole o che lo stesso figlio abbia il diritto di infrangerle in caso avesse qualcosa da guadagnarci.
Come tutti, infine, penso al ragazzo che proprio mentre scrivo sta affrontando il consiglio di classe. È la seconda volta che accade per lo stesso motivo, segno che non ha capito che quello che faceva era sbagliato o non gliene è importato. Spero che i suoi sogni si realizzino e che, se vuole, un giorno diventi imprenditore. E spero che la scuola riesca nell’impresa solitaria di insegnargli in questi ultimi mesi che si può avere rispetto dei profitti e insieme delle persone, mettere il giusto numero di estintori nelle fabbriche, smaltire i rifiuti senza rivolgersi alla camorra, proteggere i propri operai dall’amianto. Essere imprenditori e cittadini con cui non sarà brutto convivere.