Scheletri negli armadi. Il “J’Accuse” di Polanski

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Con “L’ufficiale e la spia” Roman Polanski va alle radici dell’antisemitismo moderno, ponendo il suo immaginario carnale e febbrile al servizio di un ottimo cinema narrativo.

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Parigi, fine Ottocento. L’affaire Dreyfus, il caso politico per eccellenza nella storia della Francia moderna, fa tremare i vertici militari e politici della Terza Repubblica e spinge uno dei maggiori intellettuali del tempo, Émile Zola, a pubblicare quel J’Accuse (1898) che è il primo vero grande gesto di intervento mediatico, su larghissima scala, da parte di un intellettuale occidentale. Scheletro nell’armadio di un’Europa illusa di essersi rifatta una coscienza con l’Illuminismo, l’odio per l’ebreo (che non manca né in Kant né in Voltaire) è un’eredità culturale che nella storia ha ripetutamente servito gli interessi di macchine statuali in cerca di capri espiatori; col Novecento, il processo accelera.
L’accanimento di tutta una città, una nazione e un popolo (quello in nome del quale vengono pronunciate le sentenze) contro Alfred Dreyfus – capitano ebreo accusato di aver venduto informazioni ai tedeschi – diventa allora una spia, un sintomo dei mali di un paese, la Francia, che, annegate nel sangue le speranze della Comune (1871), si accinge a fare il proprio ingresso – con lo stile che si addice a una grande potenza coloniale – nel carnaio del “secolo breve”.
Se la Grandeur politico-diplomatica è una costruzione basata sulla menzogna e la sopraffazione, il culto della ragione, elevato a dogma, è il suo servo idiota. Il positivismo più miope e inumano, qui incarnato dalla figura dell’improvvisato perito calligrafico Alphonse Bertillon, rappresenta infatti il braccio armato (di pseudo-scienza) del potere.

L’ingiusta e assurda persecuzione patita da Alfred Dreyfus è, si potrebbe dire, la storia che Roman Polanski attendeva da sempre, cui il suo percorso d’autore naturalmente tendeva. La sua filmografia, anche per le note vicende personali (i genitori deportati, la madre morta ad Auschwitz) è tornata più volte sul personaggio dell’ebreo: basti ricordare il Fagin del dickensiano Oliver Twist (2005: l’ebreo malvagio secondo stereotipo) e il Wladyskaw Szpilman (Adrien Brody) del Pianista (2002: l’ebreo-testimone degli orrori nazisti).
Entro questa parabola la figura di Dreyfus occupa un posto decisivo, facendo da ponte tra le ingiustizie dell’antisemitismo premoderno (il primo livello concentrazionario, con i secoli di marginalizzazione nel ghetto) e le atrocità dell’antisemitismo novecentesco (il secondo livello concentrazionario, dal ghetto verso il campo di sterminio). I roghi dei libri e le scritte “morte agli ebrei” che compaiono sulle vetrine, fissati in una sequenza circa a metà del film, richiamano in modo inequivocabile quanto accadrà pochi decenni dopo: una scena forse un po’ didascalica ma eloquentissima.

Dunque, un personaggio squisitamente polanskiano, si è detto, Dreyfus, un individuo fuori posto, un’anomalia che i suoi superiori invitano (a un certo punto esplicitamente) a farsi fuori da sola. Salvo che, in questo J’Accuse (così l’originale, titolo che richiama Zola ma sottolinea pure la posizione del regista), Polanski ci mostra solo episodicamente la storia del perseguitato (Dreyfus, ottimamente interpretato da Louis Garrell, è in scena molto poco) concentrando invece l’attenzione sulle vicende del persecutore – poi a sua volta perseguitato – ufficiale Picquard.
Picquard non è un ribelle, tutt’altro: è un uomo d’ordine, piuttosto conservatore, altezzoso e integerrimo rappresentante della Francia cattolica oltre che, comme tout le monde, spregiatore di ebrei (nei suoi panni si cala un attore solitamente impegnato in ruoli brillanti, Jean Dujardin, qui bravo a mantenere una maschera di ambiguità). Ma è una voce che non accetta di cantare dentro al coro, quando il coro gli appare inaccettabile: ed è proprio questo rifiuto della falsità condivisa (dai vertici militari, che la chiamano obbedienza; dalla società, biecamente antisemita anche nei suoi strati sociali più bassi), a non essergli perdonato. Almeno, finché un nuovo ordine, stavolta a lui propizio, non si imporrà. Nel destino di Picquard, nelle ragioni non esattamente etiche che lo muovono, nel suo trionfo finale (quando la colpevolezza diventa merito, laddove per Dreyfus la non colpevolezza resta, kafkianamente, colpa inespiabile) sta la chiave di volta del film.

L’impianto narrativo de L’ufficiale e la spia è decisamente classico: non a caso è tratto da un romanzo scritto da un giornalista inglese (Robert Harris, che co-firma la sceneggiatura), specialista in fiction storica ad alto tasso di spettacolarità. Volendo categorizzare, siamo dalle parti della spy story e del legal drama, con tocchi da thriller e sapienti, ben dosate, marche autoriali.
La costruzione delle inquadrature, ad esempio, rivela una solida, ancorché non sorprendente, cultura visuale. Le reminiscenze figurative sono numerose e buona parte della pittura francese del Diciannovesimo secolo è saccheggiata, dai ritratti di seducenti damesdi Boldrini a certi scorci campestri di Sisley, da Renoir a Toulouse-Lautrec. Alcuni fotogrammi in particolare riproducono tele celeberrime, quali la Colazione sull’erba di Manet e L’assenzio di Degas; né mancano – penso alle immagini del mare intorno all’isola dove è recluso Dreyfus – gli incubi grafici di Victor Hugo.
Tanti anche i richiami alla storia del cinema, francese (Jean Renoir, evidentemente) e americano. Ciò che però fa de L’ufficiale e la spia qualcosa di più di un dramma di solida fattura è la capacità di Polanski di immettervi le proprie ossessioni e inquietudini esistenziali. È infatti pedinando Picquard che il regista restituisce il clima stesso della persecuzione, il suo essere un’assurdità logica, una grottesca, irrespirabile, letale trappola per uomini-topi.

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La sfida che il caparbio ufficiale lancia alle autorità ha le caratteristiche di un percorso di sprofondamento, di un’autentica discesa agli inferi, in una camera delle torture dove gli strumenti del supplizio si chiamano borderò, frammenti di lettere, biglietti carpiti, appostamenti. Dietro le porte sprangate, nelle stanze vagamente mortuarie piene di casseforti, cassetti, armadi chiusi a doppia e tripla mandata (quanti i mazzi di chiavi, lungo tutto il film) si celano segreti che non hanno valore in sé, ma solo in rapporto alle convenienze e ai codici di un sistema che, prima di tutto, protegge sé stesso da ogni ingerenza esterna.

Squisitamente, esemplarmente polanskiano è il trattamento degli spazi architettonici: la palazzina parigina che ospita l’ufficio di Picquard e dei suoi sottoposti è un castello kafkiano abitato da personaggi equivoci, viscidi e sordidi, dominato dalla sporcizia, cadente e soffocante. Impossibile, per quanti sforzi l’ufficiale faccia, spalancare le finestre: ogni tentativo di aprirle fallisce (siamo dalle parti, per chi lo ricorda, de L’inquilino del terzo piano, 1976). L’aria fresca, e con lei un vento purificatore, non devono entrare.

Altrettanto notevoli le scene, in flashback, dei processi a Dreyfus. Polanski evidenzia il carattere teatrale, falso, del dibattimento – la giustizia come farsa, rappresentazione di un copione dagli esiti scritti in anticipo: si ricordi, per restare in ambito militare, Orizzonti di gloria di Kubrick – ma invece di scegliere la strada dell’astrazione raggelata punta invece sulla visceralità, sulle facce e sui corpi restituiti nella loro materiale sgradevolezza.

Nevrotici, sifilitici, putrescenti, oppure stolidamente rubizzi e sani, i suoi militari (uomini di teatro anche nella realtà: molti, nel cast, gli interpreti della ComédieFrançaise) formano un campionario di umana degradazione che (letteralmente) trasuda corruzione, nonostante le divise inamidate e l’algida autorevolezza di mostrine, bottoni dorati, medaglie. L’amante del protagonista (interpretata da Emmanuelle Seigner, ancora bellissima, candida e matronale odalisca ingresiana) e lo stesso Zola, rappresentanti di un’umanità composta e dignitosa, sono il contraltare del corrotto spirito dei tempi, e potrebbero costituire i modelli per una rinascita dell’“eroe” Picquard.

Salvo che Picquard non è affatto un eroe, ma un testardo, e un po’ ottuso, uomo d’apparato, che da questa vicenda non impara niente, se non il modo di salire al potere. Divenuto ministro, si atterrà alle regole del gioco, evitando di compiere nei confronti di Dreyfus il gesto riparatore che pure il suo nuovo statusgli consentirebbe, ma che è meglio tralasciare in quanto ripugna al sentire comune, e a lui per primo. Le carte passano di mano, l’antisemitismo resta.

Sarebbe troppo definirlo capolavoro, ma L’ufficiale e la spia è il film, solidissimo e godibile, di un maestro capace di trovare forme moderne per il cinema classico. Mai patinato, dall’andamento piano senza cali di ritmo, visivamente scintillante, è sorretto da una tensione didattica, ed etica, non comune. Un’opera che molto avrebbe (se mai la studiassero) da insegnare ai tanti Autori – uso la maiuscola con qualche ironia – oggi in auge: allusivi, metaforici, virtuosistici, tanto, troppo bravi quando si tratta di mettere suoni e visioni al servizio di sé stessi.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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