Riflessioni sul suicidio

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Da una decina d’anni, da quando cioè ho “raccontato” la Commedia per un piccolo editore di Recanati, sono spesso invitato a parlare di Dante nelle classi, commentando da “esperto” alcuni passi del poema. Di solito gli episodi di Paolo e Francesca e di Ulisse la fanno da padrone, ma in realtà ci sono altri argomenti che, una volta rotto il ghiaccio, quando entrano in gioco riflessioni più personali, sempre emergono e suscitano negli adolescenti le reazioni più intense. Qui riassumo alcune riflessioni relative al tema del suicidio.
L’incontro con Pier della Vigna. Illustrazione di Gustave Doré

1. Dal famigerato “imbuto” che apre tutte le edizioni scolastiche e non solo della Commedia veniamo a sapere, ben prima di incontrarli, che i suicidi sono puniti nel VII cerchio dell’Inferno, tra i violenti contro sé stessi. Nel canto XIII dell’Inferno, come è noto, Dante trova Pier della Vigna, uomo di fiducia dell’imperatore Federico II, vittima dell’invidia degli altri cortigiani (gli «occhi putti» della «meretrice» che sempre si annida nelle corti) e suicida dopo una ingiusta condanna (all’accecamento, per la precisione: crudele ironia del contrappasso giuridico!).

Nel corso del colloquio con Dante, Pier della Vigna spiega così le ragioni del suo gesto: «L’animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo col morir fuggir disdegno, / ingiusto fece me contra me giusto». Spiegazione di fondamentale importanza, perché il lettore attento ha già incontrato personaggi che si sono tolti la vita, ma che sono collocati altrove, e altri ne incontrerà nel prosieguo del viaggio: evidentemente, non tutti i suicidi sono uguali. L’equazione “suicidio = peccato mortale” nell’universo morale dantesco non è affatto tale. (E non c’è bisogno di sottolineare quanto questa osservazione sia significativa per chi, tra gli studenti, abbia avuto esperienza indiretta del suicidio, in famiglia o tra amici o conoscenti; ma l’importanza del tema va ovviamente al di là di questi casi, perché i pensieri suicidi fanno parte dell’esperienza universale, soprattutto negli anni dell’adolescenza.)

Nel canto V, fra i lussuriosi, Virgilio ha segnalato a Dante le anime di Didone e di Cleopatra, entrambe suicide, ma punite in maniera più lieve, tra i peccatori di incontinenza e non fra i violenti; all’inizio del Purgatorio incontreremo Catone l’Uticense, che pur essendo pagano e suicida ha il ruolo di custode del secondo regno ultramondano e, secondo quanto afferma senza ambiguità Virgilio, dopo il Giudizio finale sarà destinato al paradiso. Dante, insomma, non attribuisce meccanicamente la pena prevista per chi si toglie la vita: la colpa di Didone è la lussuria, il suicidio è una conseguenza e come tale viene giudicata; Catone è destinato al paradiso perché il suo è un gesto positivo, un sacrificio per proclamare che l’ideale della libertà è più importante della stessa vita. I mediocri letterati come Bonvesin da la Riva o Giacomino da Verona, che avevano descritto l’aldilà prima di Dante, trattavano i dannati e i beati, diciamo così, all’ingrosso, per categorie generali; la grandezza di Dante sta anche in questa sua capacità di analisi, è la profondità morale di chi non solo tiene sempre distinto il peccato dal peccatore, ma non si ferma alle prime apparenze e indaga le motivazioni profonde dell’operare umano, nel bene e nel male.

2. Il confronto con Catone ci aiuta a comprendere meglio la collocazione di Pier della Vigna: con il suicidio, Catone afferma un valore; il suicidio di Pier viceversa è un gesto che oggi diremmo nichilistico, di negazione della vita. Come sottolineano tutti i commenti, il canto XIII si apre con una serie di negazioni, che servono al poeta per introdurre il tema dell’episodio in maniera indiretta, cioè attraverso il linguaggio: «Non era ancor di là Nesso arrivato… / neun sentiero… // Non fronda verde… / non rami schietti… / non pomi… // Non han sì aspri sterpi sì folti…».

È proprio il linguaggio (si tratta di un’acquisizione critica ormai più che consolidata) che caratterizza la personalità di Pier della Vigna, il quale si esprime con la raffinatezza di un intellettuale abituato a maneggiare le parole e a giocare abilmente con le figure retoriche più ricercate: perfino nelle prime battute, quando il grido di dolore sembrerebbe escludere ogni preoccupazione espressiva, Pier non sa rinunciare a un’antitesi in chiasmo come «Uomini fummo, e or siam fatti sterpi». E il suo discorso procede affastellando non solo metafore (le «chiavi del cor», l’invidia «meretrice», Federico detto ora «Cesare» ora «Augusto» e così via), ma figure del suono e della dispositio («serrando e diserrando», «infiammò contra me… / e li ’nfiammati infiammar», «lieti onor… tristi lutti», «per disdegnoso gusto, / …fuggir disdegno», «ingiusto… contra me giusto», e l’esemplificazione potrebbe riguardare quasi ogni verso, ogni parola).

Un così abile parlatore certo non a caso rivendica la propria innocenza affidandosi a una parola carica di valenze religiose come «fede», solennemente ripetuta a breve distanza in due posizioni di rilievo, in principio e in fine di verso: «fede portai al glorïoso offizio» e «vi giuro che già mai non ruppi fede / al mio signor». Come tutti i dannati, Pier parla per giustificarsi, il suo discorso è un’apologia. Il lettore attento, a questo punto del viaggio, l’ha ormai capito e non dovrebbe lasciarsene ingannare.

E infatti, se rileggiamo le parole del funzionario federiciano trasformato in arbusto, la sua morte non è presentata come il frutto di una pulsione autodistruttiva, ma come un gesto animato da un intento positivo, analogo a quello di Catone: uccidendosi, Pier pensava di riscattare il proprio onore, di «fuggir disdegno» (disprezzo), per usare le sue parole.

È evidente che Dante non è d’accordo. Resta da capire perché.

Canto XII – Illustrazione di Gustave Doré

3. Pier della Vigna, come il lettore a cui Dante si rivolge sa bene, è stato un poeta della scuola siciliana, magari non eccelso, ma tale comunque da poter interloquire con il “notaro” Giacomo da Lentini (insieme a Iacopo Mostacci) in una famosa tenzone sulla natura d’amore.

Non è un’informazione secondaria, evidentemente: Dante nel corso del suo viaggio ha già incontrato moltissimi poeti, a partire da Virgilio, ma tutti antichi. Fra i moderni, a parte l’allusione a Guido Cavalcanti del canto X, Pier della Vigna è il primo della lunga schiera che scandirà il percorso del pellegrino nel basso inferno (Brunetto Latini e Bertran de Born), nel purgatorio (Sordello da Goito, Forese Donati, Bonagiunta Orbicciani, Guido Guinizzelli, Arnaut Daniel) e nel paradiso (Folchetto da Marsiglia).

Perché Dante, pur attribuendo a Piero tutte le caratteristiche del maestro di stile, non accenna alla sua attività poetica? Io credo che qui, in questo silenzio, si nasconda una parte importante del significato di questo episodio. Detto un po’ schematicamente: Dante è stato vittima di un’ingiustizia – diversa certo, ma per molti versi paragonabile a quella di Pier: anche lui si è impegnato in politica e ne ha avuta l’esistenza devastata, anche lui è stato diffamato e condannato senza colpa… Ma il poeta Pier ha reagito all’offesa uccidendosi, in una sterile forma di protesta; il poeta Dante concependo la Commedia, cioè un’opera destinata a lanciare un messaggio di speranza e di rinascita all’umanità intera.

In questo consiste dunque il «disdegnoso gusto» all’origine del peccato di Pier della Vigna, che non ha trovato in sé la forza per andare oltre la propria vicenda individuale, riconoscendo in essa un significato provvidenziale e attribuendole un valore universale, come invece ha saputo fare Dante.

A voler distinguere meglio, al momento del viaggio Dante non ha ancora subito l’ingiustizia da cui nascerà il progetto del poema; l’incontro con Pier ha quindi, nel suo racconto, un valore formativo: è un esempio che gli viene offerto perché impari a guardarsene, perché viva nella mente, nella fantasia, quella possibilità, il suicidio “di protesta”, e sia pronto un domani ad affrontare la prova con esiti diversi.

Nel momento in cui scrive, Dante sa che patire l’ingiustizia non genera automaticamente ribellione, forza d’animo, volontà di lotta e opposizione, ma al contrario è all’origine di una tentazione autodistruttiva. Ha sperimentato in prima persona l’attrazione dell’abisso. E tuttavia la “fede” che Pier rivendica, e che non gli è stata sufficiente, ha permesso invece a Dante di salvarsi. La parola ha davvero un significato religioso, al di là delle intenzioni di Pier: il lettore è chiamato a intuire che entrambe le vicende, quella di Pier e quella di Dante, hanno un precedente nell’ingiusta condanna del Cristo.

4. In buona sostanza, quindi, Dante non parla della poesia di Pier della Vigna perché, dal suo punto di vista, non vale la pena di parlarne. Lui stesso si diverte a imitare i giochi verbali del dannato, per esempio nel famoso «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse», ma come ha già spiegato più volte al lettore, la sua non è letteratura di intrattenimento, la Commedia non si legge “per diletto”, ma per intraprendere un cammino interiore, una ricerca della verità. La poesia, questo tipo di poesia, incarnata da Virgilio, ha salvato Dante dalla selva della disperazione nel canto I; la letteratura fatta “per diletto” ha portato Paolo e Francesca alla perdizione nel canto V (il confronto fra questi due canti, il V e il XIII, è poco praticato, ma a me sembra utile, sia per il tema meta-letterario, sia per il fortissimo coinvolgimento emotivo d Dante, sia infine per alcune soluzioni stilistiche: anche Francesca, come Piero, ama i giochi retorici, fondamento di un’idea della letteratura come divertissement per le élites); ora si ribadisce che la mancanza di fiducia nell’arte e nella sua funzione profetica e salvifica è parte fondamentale della colpa di Pier della Vigna.

Ma il testo dice qualcosa di più rispetto a queste contrapposizioni un po’ schematiche in cui tentiamo di imbrigliarne il senso. Per esempio, dice anche che la poesia non basta. Se bastasse, Dante non avrebbe bisogno di spezzare il ramo del “gran pruno”, gli sarebbe sufficiente ricordare l’episodio dell’Eneide a cui la scena è ispirata. Invece deve fare esperienza di ciò che poteva apparirgli come una semplice fantasia, un’invenzione poetica senza riscontro materiale. Le ferite sugli alberi sono finestre di dolore, le parole delle anime escono insieme al sangue. Le prime frasi di Pier della Vigna non sono l’ornato discorso di un intellettuale cortigiano, ma l’urlo di protesta quasi (quasi!) incontrollato di chi fisicamente soffre.

5. In questo senso, credo, si devono leggere i sottili distinguo fra i destini dei suicidi citati sopra (e si potrebbe aggiungere la regina Amata, ricordata nel canto XVII del Purgatorio fra coloro che si sono lasciati dominare dall’ira al punto da perderne la vita; e le altre vittime di ingiustizia come il Romeo presentato da Giustiniano nel canto VI del Paradiso e così via). L’atteggiamento analitico è il primo e fondamentale insegnamento della Commedia. Dante, come abbiamo già detto, non si ferma allo schema astratto, al meccanismo biunivoco “tale colpa – tale pena”, ma va alla radice dei problemi, mette in campo tutti gli strumenti a sua disposizione (etici, psicologici, artistici) per restituire l’inesauribile complessità del reale e per fissare ogni anima nella sua individualità.

È questo l’atteggiamento che gli permette, nella parte finale del canto XIII, di distinguere scialacquatori e prodighi: questi ultimi si trovano insieme agli avari (canto VII) fra i peccatori di incontinenza, che non hanno saputo usare con equilibrio i beni terreni; i primi si trovano invece insieme ai suicidi fra i violenti, per il carattere (auto)distruttivo della loro colpa, punita nella famosa scena della caccia infernale.

Sembra una distinzione inessenziale finché non usiamo (come hanno fatto studiosi ben più autorevoli di me) la parola “consumismo”. È un esercizio di attualizzazione un po’ rischioso, ma utile, credo, per far cogliere a un lettore delle superiori la concretezza del discorso di Dante. I prodighi peccano come gli avari per troppo amore dei beni materiali, sono quelli che, ieri come oggi, spendono per accumulare a dismisura cose, oggetti, proprietà; gli scialacquatori sono invece analoghi ai suicidi nella loro follia distruttiva, sono i giocatori d’azzardo compulsivi, i broker che rovinando sé stessi trascinano nella miseria persone, aziende, popoli…

L’excursus finale su Firenze è giocato sulle figure di Marte, dio della guerra, Attila, il distruttore per antonomasia, e (scelta per noi di grandissimo interesse) Giovanni Battista, simbolo del fiorino, cioè di un’economia che è diventata padrona della città e dei suoi abitanti, e che come Marte la sta riducendo nuovamente in cenere… Come sempre, per Dante, la sua esperienza personale di exul immeritus è quella di everyman, di ogni singolo lettore, la sua città è il mondo e ogni vicenda per quanto minima (e nel caso dei due scialacquatori siamo di fronte a personaggi della cronaca locale, non certo a eventi storici come la condanna e la morte di Pier della Vigna) rimanda a una verità universale.

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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