Del Festival Internazionale di Fotografia di Cortona non si può che dire bene, anzi benissimo, perché è un evento straordinario, dove l’arte si intreccia ai temi umani e sociali e agli spazi della città in modo naturale ed efficace.
Elinor Carucci, Tanya Habjouqa, Poulomi Basu. Ma anche Sanne De Wilde, Deby Cornwall, Guia Besana, Sim Chi Yin. E ancora Carlotta Cardana, Alena Zhandarova, Jennifer Greenburg, Allison Stewart, Loulou D’Aki.
Il 30 settembre termina l’edizione di quest’anno, e a scorrere l’elenco di chi ha partecipato colpisce leggere il nome di così tante fotografe (di fatto, quasi solo fotografe, se si escludono le partecipazioni alle sezioni collaterali e più nuove, come Arena, dedicata ai video sperimentali, alle installazioni e alle opere transmediali).
Si torna colmi di ispirazione e di inquietudine da un festival così. La fotografa attivista indiana Poulomi Basu è presente con Blood speaks: a ritual of exile, un progetto transmediale che si focalizza sulla pratica hindu del chhaupadi (o chaupadi), molto diffusa in alcuni villaggi del Nepal: durante il ciclo le donne vengono allontanate da casa e confinate in capanne, isolate, denutrite, alla mercé di animali e violenze, perché considerate impure e intoccabili a causa del sangue mestruale. Sono esposte così a maltrattamenti, stupri, morsi di serpenti, e a volte sono assassinate. Oppure muoiono soffocate dai fuochi che accendono per scaldarsi.
Il chhaupadi è illegale dal 2005, ma non esistevano sanzioni per i trasgressori. Recentemente è stato definito un atto criminale e sono previsti provvedimenti. Eppure le statistiche di Action Works Nepal pubblicate da the Guardian nel 2016 parlano chiaro: il 96% delle donne nel centro e nell’estremo occidente del Nepal ne è vittima.
Perpetrata sotto le sembianze di una tradizione religiosa, questa violenza è nascosta, non documentata e non risolta. Queste donne sono intoccabili e, di conseguenza, la violenza prende la forma dell’esilio, l’unica possibile. Le mestruazioni sono avvolte nel mistero e trasformate in tabù, così da diventare un’arma che, attraverso la vergogna, tiene le donne in uno stato di sottomissione. Le donne mestruate non possono stare nel loro letto, toccare i familiari, cucinare o essere aiutate in qualche modo. Sono considerate contaminate, e quindi contaminanti: non possono avvicinare ciò a cui viene dato valore, a cominciare dal cibo. Nei giorni del chhaupadi – che per le giovani donne possono arrivare anche a una decina – non è consentito loro mangiare cibi nutrienti, come latte, yogurt, formaggio. Vengono isolate in capanne, senza nulla per coprirsi se non, al limite, una stuoia di juta. E i primi giorni non possono lavarsi. La natura dell’esilio varia da zona a zona. Nell’Accham piccoli ambienti separati ma vicini alla casa, nel Surkhet capanne sparse nella foresta.
A ritual of exile è un progetto di ampio respiro, avviato nel 2013, che esplora la normalizzazione della violenza sulle donne in Asia. Non coinvolge solo il chhaupadi, ma anche il fenomeno delle spose bambine e altre forme di violenza e marginalizzazione, come l’ostracismo che colpisce le vedove (non di rado ragazze di soli 17 o 18 anni). Le vedove sono soggiogate attraverso il meccanismo della vergogna, proprio come avviene nel chhaupadi. Là la donna è considerata contaminata e contaminante per via del sangue mestruale, qui è avvolta dalla “sfortuna”, come ne fosse carica e potesse nuocere ad altri. Chiuse in casa, queste figure vestite di bianco non potranno mai risposarsi, né partecipare alla vita pubblica della famiglia. Sono esiliate, già morte. Talvolta non sono solo emarginate, ma scacciate, o bruciate vive, assassinate, avviate alla prostituzione.
Una parola che emerge, nel discorso politico e nella poetica dell’artista, è «struttura». Analizzare le strutture che creano determinate circostanze – in altre parole guardare oltre il velo delle tradizioni – è fondamentale per capire cosa una pratica sociale rappresenta e quali ingiustizie veicola. Il chhaupadi, l’ostracizzazione delle vedove, l’usanza delle spose bambine sono manifestazioni e conseguenze della convinzione che le donne siano un secondo sesso, silenzioso e subordinato, e questa convinzione è a sua volta perpetrata attraverso la religione, le tradizioni e i costumi. È quello che lei chiama «circolo vizioso», un’altra espressione ricorrente nelle sue interviste e nei suoi interventi pubblici.
Blood speaks: a ritual of exile è progetto fotografico, ma non solo. Accanto ai ritratti di donne provate e spesso giovanissime fotografate nel loro chhau goth (più o meno «capanna delle mestruazioni»), sono presenti video, audio con i rumori della foresta, in un generale utilizzo della tecnologia piuttosto spregiudicato, fino alla realtà virtuale. «La realtà virtuale è criticata perché isola ed è claustrofobica, ma è proprio così che le persone devono sentirsi. Il medium è il messaggio», dice infatti Basu. Ogni storia deve trovare il medium adeguato, la tecnologia giusta, quella che le permette di diffondersi e di avviare un cambiamento culturale. Una serie di fotografie non sarebbe stata sufficiente come specchio dell’esperienza di una donna forzata a praticare il chhaupadi: servivano immagini in movimento, audio, tecnologie quali la fotogrammetria e l’immersività della realtà virtuale. Li chiama «meccanismi di consapevolezza».
Basu racconta che è stata proprio sua madre a indirizzarla verso un destino diverso da quello che era toccato alle donne della sua famiglia. L’ha spinta a lasciare Calcutta per Mumbay, ad andarsene. A rompere il circolo vizioso della sottomissione.
Poulomi Basu è figlia di una vedova. Sua madre, figlia di vedova a sua volta, è stata una sposa bambina. Per l’UNICEF sono circa 700 milioni le donne che si sposano prima dei 18 anni e di queste una su tre prima dei 15. Nell’induismo, sposare una donna che non ha ancora avuto la prima mestruazione è un modo per guadagnarsi il paradiso.