Il racconto sugli animali degli specchi «Persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona» (I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991, ed. dig.) e dice qualcosa anche dell’epoca che stiamo vivendo, caratterizzata come noto dalla cosiddetta «quarta rivoluzione», che ha introdotto l’uso della tecnologia digitale in quasi ogni ambito, agendo in modo indelebile sugli aspetti individuali, sociali, economici, sanitari, culturali del nostro abitare il mondo.
Uno dei termini chiave che connota questo passaggio è “virtuale”, un concetto che ha alle spalle una lunga tradizione filosofica e altri termini, dalla dynamis aristotelica all’implexe di Paul Valéry, fino a quando, con Bergson e Deleuze, si comincia a utilizzare proprio questa parola, anche se ancora non in riferimento al contesto informatico nel quale oggi viene comunemente impiegata. Senza scendere nei dettagli delle singole significazioni e sfumature, diciamo che per tutti i pensatori menzionati ciò che è virtuale ha a che vedere da un lato con una potenzialità ancora inespressa in termini della sua attualizzazione, e dall’altro con una rete di connessioni coimplicate e che è in grado di stabilire, anche in virtù della sua indeterminazione.
Secondo i pensatori che a questa nozione hanno dedicato le loro riflessioni, non si tratta di un duplicato del mondo nella sua attualizzazione, ma di un universo che ha una sua consistenza e che segue la sua logica non per forza sovrapponibile a quella del reale nella sua concretezza. In filosofia, quindi, il virtuale è un intero – un mondo che, secondo Bergson, coincide con il passato, ma non rappresenta una copia sbiadita del presente, bensì un sistema denso e complesso che presenta una differenza qualitativa e non soltanto temporale con il presente.
Un’addomesticazione virtuale
Si configurano così due mondi che, al pari di quello degli specchi e quello degli uomini, sono diversi tra loro, ma pacificamente riguardosi l’uno dell’altro. La metafora dello specchio si dimostra efficace per descrivere il riflesso dell’atto nella potenza così come dell’attuale nel virtuale; un rispecchiamento, tuttavia, che evidenzia corrispondenze, accordi, ritornelli, ma non perfette coincidenze o sovrapposizioni.
Oggi invece il virtuale sembra essere diventato molto più simile a ciò che Borges racconta come conseguenza della guerra vinta dall’Imperatore Giallo, anche se nel nostro caso non si può parlare di un conflitto, ma del progressivo subentro di una nuova significazione del termine, inteso sempre più come una duplicazione dell’attuale, e luogo, quindi, in cui riprodurre le azioni che scandiscono la nostra esistenza.
Il virtuale viene riconosciuto come indispensabile, ma allo stesso tempo gli viene negata l’autonomia e la forza di potenziale che invece la filosofia gli attribuisce. Crediamo di averlo assoggettato ai nostri bisogni, di averlo reso domestico e disponibile a risolvere le complicazioni della quotidianità, di averlo progettato servo a nostra immagine, uno strumento pronto a rispondere alle nostre domande e a soddisfare le nostre richieste.
Una pericolosa illusione
Ma il pensiero filosofico da un lato e l’avanguardia tecnologica dall’altro sembrano dirci qualcosa di diverso, che Borges ci ricorda in forma narrativa: sottovalutare il potenziale del virtuale significa esporsi al rischio di venirne travolti e noi stessi, assoggettati. Vuol dire, sulla corta distanza, non accorgerci che abbiamo progressivamente «avvolto il mondo» (L. Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina, Milano 2020) per renderlo conforme alle possibilità di manovra del virtuale: non tanto, quindi, la tecnologia ha fatto passi da gigante nella soluzione delle nostre problematiche, quanto noi abbiamo semplificato compiti e richieste affinché fossero adeguati alla risposta tecnologica.
Sulla lunga distanza, infine, questo significa non renderci conto che la dynamis propria del virtuale non è determinabile a priori: il giorno in cui gli animali degli specchi dovessero «smettere di imitarci» e quindi realizzare il loro proprio potenziale, potrebbe essere già troppo tardi per noi, che abbiamo vissuto nell’illusione di essere la versione originale dell’immagine, rifiutando così l’idea che quello che abbiamo visto sullo specchio non era il nostro riflesso, ma un varco di passaggio verso altre configurazioni di realtà.
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