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Philodiffusione #15

Tempo di lettura stimato: 9 minuti
Nella quindicesima puntata della nostra rubrica di recen/riflessioni filosofiche, c’era una volta l’autore: l’opera d’arte nell’epoca della sua ghiblizzazione artificiale.
La leggenda vuole che questo sia il primo post che ha inaugurato la tendenza.

Trasformare una fotografia dell’ultima vacanza (o dell’ultimo aperitivo, del penultimo meme, del primo post IG e via con l’immaginazione…) in un’opera dallo stile inconfondibile di Hayao Miyazaki, attraverso un semplice click: fantasia o distopia? Realtà, a dire il vero. È questo, infatti, ciò che, seppur per breve tempo, è stato reso possibile dall’ultimo aggiornamento della funzione di creazione immagini di ChatGPT, capace di “ghiblizzare” immagini prima che l’opzione venisse censurata, lasciando il web in fibrillazione. E così, mentre sui social impazzano paesaggi pastellati, occhi sovradimensionati e volti trasfigurati in creature malinconicamente bizzarre, una domanda si impone alla nostra attenzione: chi è l’autore quando l’arte scaturisce da un codice?

Se Vilém Flusser, già negli anni Ottanta, vedeva nel design – inteso come capacità di dare forma – il futuro dell’agire umano (V. Flusser, Filosofia del design, Bruno Mondadori, Milano 2003), l’IA generativa rappresenta forse l’incarnazione estrema di questa suggestione. Scomparso l’artista che plasma l’opera attraverso un confronto diretto, corporale, con i materiali, si affaccia sulla scena del mercato una nuova figura, che scrive prompt, calibra algoritmi e si barcamena tra gli output di volta in volta ottenuti dalla diretta interazione con la macchina. Si tratta, a ben vedere, dell’esito di un’evoluzione che affonda le sue radici già nella rottura novecentesca tra arte e artigianato: da Duchamp alla cosiddetta arte concettuale, nel corso dell’ultimo secolo il gesto creativo si è sempre più spostato dall’esecuzione all’idea, dal manufatto all’intuizione.

Per affrontare l’argomento in modo il più possibile scevro da pregiudizi occorre però provare a smontare almeno un altro mito, quello dell’autore come ruolo universale e atemporale. Come tutti gli altri fenomeni (ogni tanto fa bene ricordarlo), anche quello dell’autorialità è un costrutto storicamente e geograficamente situato. L’ossessione occidentale per il nome, figlia dell’Illuminismo e ancor più del culto romantico del genio più che una regola indiscutibile o anche solo una costante, se rapportata all’intera linea dello sviluppo umano, rappresenta un’eccezione: per millenni, evidentemente, l’arte è stata anonima, rituale, comunitaria. Sul piano geografico (o geoculturale), inoltre, l’ossessione per la ricerca del creatore, del responsabile dell’opera, si pone in linea di evidente discontinuità rispetto ad altre tradizioni, prima tra tutte quella genericamente orientale, secondo cui l’opera è invece frutto di stratificazioni collettive – si pensi all’arte calligrafica cinese o ai mandala buddhisti.

L’IA, in questo senso, configura l’avamposto del contemporaneo e allo stesso tempo ripropone dinamiche premoderne, facendo emergere l’opera da un groviglio di contributi (di programmatori, dataset e utenti finali) difficili da isolare. La questione dell’autorialità nell’era dell’IA non va presa, tuttavia, come un rebus da risolvere, ma come il sintomo di una transizione più profonda: le più moderne tecnologie ci invitano a una problematizzazione del concetto stesso di “autore” per come l’abbiamo conosciuto negli ultimi secoli, suggerendoci altresì che potrebbe trattarsi di un’invenzione provvisoria, e in quanto tale destinata a dissolversi.

La complessità del dibattito sull’autore nell’era dell’IA emerge chiaramente anche passando rapidamente in rassegna alcune delle ipotesi che a riguardo sono oggi poste al vaglio dagli studiosi (cfr. L. Manovich, E. Arielli, Artificial Aesthetics, 2024, cap. 8). La prima, più vicina alla tradizione consolidata e che tendiamo a dare un po’ per scontata, identifica l’autore dell’opera nel prompt engineer: figura ibrida tra tecnico e curatore, incarna l’ultima metamorfosi del modello romantico, ancora aggrappata all’illusione di poter governare il processo creativo, benché ormai solo attraverso comandi testuali. Questa prospettiva trascura il debito implicito del prodotto artistico verso gli archivi di dati su cui l’IA si fonda, e, d’altro canto, associa l’originalità alla ricombinazione algoritmica di opere preesistenti.

Francesco D'Isa libro La rivoluzione algoritmica coverAll’estremo opposto, si colloca la narrativa che identifica l’IA stessa come autore autonomo, esemplificata da casi come il Ritratto di Turing realizzato da Ai-Da e recentemente venduto da Sotheby’s per nientemeno che un milione di euro (i proventi, curiosamente, sono andati all’implementazione del progetto di IA: sarebbe stato difficile immaginare di arricchire il bot “in persona”). Sebbene tecnicamente priva di intenzionalità (là dove noi vediamo immagini, essa vede pixel, dove noi scorgiamo concetti, per essa si tratta di relazioni tra token, come evidenzia F. D’Isa, La rivoluzione algoritmica delle immagini. Arte e intelligenza artificiale, Luca Sossella editore, Roma 2024, p. 87), alla macchina in questo caso vengono associate proprietà creatrici, avviluppandola in un paradosso che disumanizza il concetto di genio artistico preservandone tuttavia il feticcio giuridico e commerciale. Oltre a riproporre, pur nella sua versione artificiale, il culto dell’individuo, questo approccio finisce per oscurare il ruolo dei programmatori e dei finanziatori che si collocano dietro la scena dell’algoritmo, e che tuttavia, se considerati nel quadro generale, polverizzano l’idea di autorialità in un simulacro privo di sostanza.

In quest’ultima direzione, che svuota la funzione autoriale della sua consistenza, va una terza via, più radicale, per la quale l’opera è concepita come un prodotto collettivo frutto di interventi successivi e collaborativi sulla base di output iniziali generati dall’IA. In questo senso di muovono modelli come il progetto “DALL-E Collective” che, paradossalmente, finiscono per ricalcare dinamiche premoderne come quelle delle botteghe rinascimentali, in cui il maestro firmava un’opera che però spesso era frutto del lavoro comunitario di apprendisti e collaboratori. Rispetto al passato, sussiste tuttavia una differenza cruciale: l’anonimato, l’asincronia dei contributi e la black box delle reti neurali rendono di fatto impossibile, anche volendola filologicamente ricostruire o rintracciare, l’attribuzione di una paternità univoca, e l’autore finisce per dissolversi in una rete di azioni discontinue.

Infine, una quarta e ultima tesi elimina tout court la necessità di parlare ancora di autore, promuovendo una cultura che, piuttosto, si concentra sul valore formale dell’opera in quanto tale. D’altronde, alcuni sperimenti con le GAN (Generative Adversarial Network) o alcune allucinazioni del sistema che generano paesaggi astratti anche in assenza di input umani dimostrano come l’arte può emergere oggi anche da processi algoritmici privi di narrativa intenzionale di chicchessia.

Tutte queste declinazioni del problema rivelano una tensione irrisolta tra persistenza e obsolescenza del concetto di autore. Il diritto, dal canto suo, resta ancorato a un paradigma individualista e, così, fatica a tenere il passo: nel 2023, una class action ha accusato Stability AI e MidJourney di aver violato i diritti di milioni di artisti, per aver utilizzato le loro creazioni per addestrare modelli commerciali, mentre negli ultimi giorni, alla notizia che ChatGPT è stata addestrata tramite il software pirata libgen, diversi saggisti e romanzieri sono stati felici di avere ritrovato le loro opere collezionate nella biblioteca virtuale, contenti di vedere riconosciuto il loro ingegno e rappresentato, nel mare magnum dell’IA, anche il loro punto di vista.

Indissolubilmente intrecciata a quella dell’autorialità, la questione del copyright rivela anch’essa la sua natura di costrutto storico recente e contestabile. Nato nel Settecento come strumento per tutelare gli artisti (cfr. U. Izzo, Alle origini del copyright e del diritto d’autore. Tecnologia, interessi e cambiamento giuridico, Carocci, Roma 2010), si è trasformato in un meccanismo di controllo posto spesso al servizio di interessi corporativi. Emblematico, in merito, il Mickey Mouse Protection Act: nel 1998, sotto la pressione della Disney, gli Stati Uniti estesero la durata del copyright a 70 anni dopo la morte dell’autore, garantendo così alla corporation il monopolio sui propri personaggi (cfr. D’Isa, La rivoluzione algoritmica delle immagini cit., p. 100). Un paradosso, se si considera che lo stesso Walt Disney costruì il suo impero proprio rielaborando opere di pubblico dominio, da Biancaneve ai fratelli Grimm. Oggi, il sistema perpetuato da simili leggi va soprattutto a beneficio di grandi aziende ed eredi, che detengono diritti su opere di cui impediscono di fatto la libera fruizione e la riattivazione modulare.

Ma perché un’opera dovrebbe rimanere blindata dopo la morte del suo creatore anziché diventare patrimonio collettivo? A che titolo, cioè, gli eredi detengono i diritti sulla paternità dell’opera più del pubblico che potrebbe fruirne e, magari, riattivarne il tasso artistico attraverso la creazione di inedite variazioni sul tema? Queste (e altre) tensioni si depositano nella lucida analisi proposta nel già citato La rivoluzione algoritmica delle immagini, dove Francesco D’Isa interroga il rapporto tra creazione, proprietà e tecnologia. Senza fornire risposte facili, l’autore (che è filosofo ma anche artista digitale, le cui opere si caratterizzano per un’inconsueta sensibilità estetica) svela quanto il diritto d’autore sia oggi un campo di battaglia tra logiche di potere e istanze democratiche: da un lato, l’esigenza di remunerare il lavoro artistico, dall’altro, il diritto del pubblico di accedere, reinterpretare e far vivere le opere oltre la gabbia sempre più asfittica e ridicola della privatizzazione.

In questo scenario, l’IA rende evidente l’obsolescenza di categorie giuridiche pensate per un’epoca pre-digitale e ci obbliga a ripensare radicalmente il concetto di proprietà intellettuale. Se un’immagine generata da algoritmi può essere insieme originale e derivativa, anonima e collettiva, anziché cercare di estendere all’infinito i diritti monopolistici, possiamo immaginare modelli più flessibili che partano da un concetto di arte come processo vivo, piuttosto che come merce imbalsamata nel suo cliché museale. Contrariamente alla tesi di Arthur Danto, secondo cui è l’artworld – il sistema di istituzioni, critici e teorie – a conferire status artistico a un oggetto, l’era dell’IA ci spinge a immaginare un’arte che si autolegittima al di là di ogni cornice istituzionale. Se l’opera generata da algoritmi sfugge ai criteri tradizionali di autorialità e originalità, forse la sua potenza eversiva si annida proprio nel poter essere riconosciuta come arte non per decreto di musei o mercati, ma per la sua capacità di interrogare, commuovere o destabilizzare, indipendentemente dalla firma in calce. La svolta storica, allora, non sta tanto nello stabilire se un algoritmo possa essere autore, ma nel chiederci se abbiamo davvero ancora bisogno di autori per riconoscere il valore dell’arte.

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Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente è Ricercatrice in tenure track in Estetica all’Università Pegaso e collabora con la casa editrice Loescher come autrice e formatrice didattica. Maggiori informazioni e aggiornamenti sulla sua attività sul sito personale, www.silviacapodivacca.com.

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