Solo nell’ultima settimana, mi sono iscritto a tre newsletter. Tutte personali, anzi: tutte di amici. Tutte interessanti eh, intendiamoci, tutte pensate da persone con qualcosa da dire – qualcosa attinente a un ambito specifico e delimitato – e dotate di una voce piacevole da leggere. Ma in ogni caso: sembrano (sono) passati secoli da quando le newsletter erano quelle istituzionali, di servizio, o dei grandi giornali. Poi sono arrivate le newsletter personali: non più l’azienda o la testata, ma la singola imprenditrice, il singolo giornalista. La seconda vita delle newsletter viene spiegata con l’information overflow che dal sistema mediatico generale è tracimato anche nell’ambiente più recente, quello dei social network: in tempi di economia dell’attenzione, bene scarso quant’altri mai, se scrivi un post su Facebook si perde nel flusso, o peggio viene nascosto dall’algoritmo, mentre con una mail arrivi direttamente nella casella di posta delle persone, che sono più propense a leggerti, o almeno devono scegliere di ignorarti. Sarà. Passaggio ulteriore, che sembra solo di quantità ma invece è un mutamento qualitativo: la newsletter, grazie anche ad alcune facilitazioni tecniche, è diventata strumento popolare. Non solo più la giornalista famosa o l’artigiano-star, ma anche il giovane intellettuale o la crafter della domenica: insomma, chi 15 anni fa apriva un blog, oggi manda una newsletter. Il punto è che chiunque di noi ha qualcosa da dire – si sa, nell’internet qualcosa.punto.zero siamo tutti sia consumatori che produttori – e quando capisce che su Instagram rischia di essere travolto per mancanza di K follower, la tentazione di venirti a stanare nella casella di posta è forte. Così però si crea un effetto inflattivo che rischia di assorbire la novità, uniformandole: non vedo lontano il distopico futuro in cui ognuno di noi avrà una newsletter, e tutti ci sentiremo in obbligo di iscriverci a quelle degli amici, dei conoscenti, delle persone che potrebbero esserci utili. Ogni giorno una casella postale piena di riflessioni, foto, articoli, aneddoti, racconti: che non leggeremo. In pratica, il feed di un social network.
L’altro grande hype degli ultimi tempi è il podcast. Anche questo potrebbe essere definito un ritorno in grande stile: in questo caso non di un trend del primo internet ma di un medium antico e duro a morire, la radio. A ben vedere però, le differenze sono enormi: in questo caso davvero il mezzo è messaggio, e mentre un palinsesto radiofonico è un flusso ininterrotto ma con tempi contingentati, spazi ben delimitati riservati a ogni trasmissione, il podcast galleggia nel vuoto, deve rispondere solo a sé stesso. E nella maggior parte dei casi, non lo fa. Troppo spesso i podcast sono parole in libertà, sbrodolate di gente che si parla addosso per ore, con poca sostanza dispersa in un mare di chiacchiere, come degli snervanti vocali di Whatsapp. (Si potrà dire che sono comunque tutti accomunati da una tendenza di lungo periodo, quella del ritorno all’oralità, ma per quello allora c’è anche un social, Clubhouse, e davvero il discorso si allarga troppo.) Certo, ci sono delle eccezioni: podcast scritti, e scritti bene. Uno di questi è Phenomena.
PHENOMENA reca il sottotitolo audiobiografie impossibili e si definisce «seduta spiritica in forma di podcast». È dedicato a scrittrici eccentriche, eccezionali per la loro opera come per la loro vita. L’idea è di Paola Moretti, la regia di Ivana Marrone, le grafiche di Giulia Vigna, le musiche ogni volta di artisti diversi. Viene ospitato dal sito NOT. Nero Editions. In occasione dell’8 marzo ma anche no, ho pensato di fare qualche domanda a Paola Moretti. Un’intervista in chat, un format che uso sempre più spesso ultimamente, per mantenere la vivacità del dialogo parlato e la comodità di lettura della parola scritta, e che mai come in questo caso è azzeccato: un articolo che sembra un podcast, per un podcast che sembra una serie di articoli.
Allora cominciamo, io ho le domande preparate quindi parto avvantaggiato, tu sentiti libera di prenderti tempo, di scrivere risposte brevi, risposte lunghe, contestare le domande, mandarmi a quel paese, correggermi se sbaglio.
Ok. Io scrivo come se stessi parlando, tipo.
Esatto. Inizio con la domanda ovvia: presentiamo Phenomena come se uno non avesse mai sentito parlare né di questo podcast, né dei podcast in generale, né della letteratura femminile. No, scherzo ovviamente, però comunque mi pare che abbia delle particolarità che lo rendano in qualche modo unico nel pur vasto panorama attuale. No?
Allora, Phenomena è un podcast di intrattenimento costruttivo, direi. È nato da una mancanza, nel senso che personalmente se leggo qualcosa di un autore o di un’autrice – più spesso un’autrice – che mi piace, poi vado a cercarmi la sua vita. Solo che spesso la pagina Wikipedia è troppo scarna e troppo fredda, mentre le biografie, per i miei gusti, si dilungano troppo. Quindi avevo pensato di creare un archivio di longform biografici su delle autrici che mi avevano appassionato, solo che poi ci ho pensato di nuovo e ho detto: «Mah, però anche i longform che palle», e siccome in quel periodo mi stavo divertendo a provare varie voci in prima persona e scrivevo dei monologhi a caso, ho fuso le due questioni e ho iniziato a scrivere dei monologhi immaginandomi e cercando di imitare la voce di un’autrice che mi aveva appassionata, sfruttando i fatti e gli avvenimenti delle loro biografie.
Ah ecco, perché spieghiamolo: sono biografie, ma c’è la fiction della prima persona.
Sì, la prima persona, così come alcune opinioni e interpretazioni di fatti, sono fiction. Gli avvenimenti sono reali.
Togliamoci subito il pensiero con la domanda delle domande: ha senso per te parlare di letteratura femminile? Cioè, in un certo modo immagino di sì, altrimenti non lo avresti scelto come tema di una serie. Ma cosa diciamo a chi ritiene che un’espressione e una categoria del genere portino il rischio di una (auto)ghettizzazione?
Phenomena non è spiccatamente programmatico, tratta solo autrici donne per vari motivi: leggo più donne che uomini tendenzialmente, le vite di alcune scrittrici donne sono spesso meno conosciute e quindi c’è un effetto scoperta/novità, le donne hanno notoriamente meno spazio, quindi in questa serie se lo sono preso. Non è escluso che compaia un phenomeno, però: ci sarebbero un paio di candidati. Ha senso di parlare di letteratura femminile? In teoria no, sarebbe bello che se si parla di letteratura si pensasse a un insieme molto più ampio di quello a cui si pensa automaticamente ora, che è un insieme tendenzialmente costituito in maggioranza da uomini bianchi occidentali.
Come scegli le protagoniste? Ho notato un equilibrio tra nomi molto noti, come la mia adorata Shirley Jackson, e nomi più di nicchia. Le prendi da quelle che sono le tue passioni o cogli l’occasione per documentarti ex novo?
Le protagoniste le scelgo in base alle mie passioni, ed è il caso per esempio di Shirley Jackson e Clarice Lispector, che sono piuttosto (se non molto) note. Alcune le scopro per caso, altre le scopro facendo scouting per le case editrici, altre le ho scoperte nei corsi universitari, comunque tutte hanno avuto un’esistenza notevole, se così si può dire.
Ecco, per esempio l’8 marzo uscite con la puntata su Milena Milani, un personaggio abbastanza conosciuto in un certo periodo, ma oggi un po’ caduto nel dimenticatoio, o sbaglio?
Io l’ho scoperta con il passaparola: una mia cara amica frequentatrice di mercatini mi ha mandato la prefazione, scritta dall’autrice, di questo libro che aveva comprato per pochi euro durante una nostra vacanza a Catania. Ovviamente sono rimasta molto colpita dalla storia e ho iniziato a fare ricerca e parlarne in giro, e ho scoperto altre amiche che la conoscevano e ci avevano addirittura scritto la tesi di laurea. Se non fosse stato per queste coincidenze non so se ne avrei sentito parlare, anche se soprattutto in questo periodo c’è molto impegno nel recupero e nella riscoperta. Penso al lavoro che fa la Società italiana delle letterate, ad alcune piccole case editrici e ad alcuni collettivi come LeOrtique.
Senza dilungarci, ma com’è la sua storia? Di Milani, dico, posto che ovviamente invitiamo chi ci legge ad ascoltare il podcast.
Milani nel 1964 pubblica La ragazza di nome Giulio; il libro viene ritirato, i piombi distrutti perché viene considerata una pubblicazione oscena, l’autrice viene accusata di oltraggio al comune senso del pudore, perde, viene condannata a sei mesi di reclusione e al pagamento di spese processuali. A fare da garante per la sua rettitudine morale durante il primo processo ci è andato Ungaretti! Milani ricorre in appello e vince, il libro torna liberamente nelle librerie. Soltanto che la reputazione della scrittrice ne esce più o meno distrutta: tacciata di pornografia, perde il lavoro, perde gli “amici”. Certo, per gli anni in cui è uscito, in Italia, era un libro che precorreva i tempi, ma non c’è nulla di così scabroso.
E com’è, in verità?
Il libro parla di Jules, un’adolescente alle prese con le prime sperimentazioni amorose e sessuali, una giovane donna turbata e confusa dalla crescita. È un libro di formazione per niente edulcorato, un po’ esistenzialista/angosciante, con alcune scene di sesso senza amore.
Quindi insomma, non solo non è pornografia, ma neanche letteratura erotica.
Esatto. E ci terrei a dire che quando ho finito di leggere La ragazza di nome Giulio ho pensato: magari averlo trovato quando ero adolescente, mi sarei sentita molto meno “strana”, molto meno sola. Che è un po’ la stessa cosa che ho pensato dopo aver letto Altri libertini di Tondelli.
L’accostamento è notevole.
Sì, tra l’altro ad Altri libertini è toccata più o meno la stessa sorte… vedi i danni del bigottismo. Sono entrambi libri che mi sono piaciuti molto, ma per cui ho sentito il rimpianto di averli letti tardi, quando da ragazzina sarebbero stati proprio utili.
Senti: 8 marzo, cerco di evitare domande ovvie (e maschiliste in re ipsa). Possiamo azzardare però un paragone tra letteratura e società? Cioè: secondo te, nell’ambiente letterario e editoriale come siamo messi sulle questioni di genere e la discriminazione, peggio meglio o uguale rispetto alla situazione generale?
Non so, forse un pochino meglio? Ci sono tante donne che lavorano nell’editoria – è anche se spesso i ruoli ai vertici sono occupati da uomini, quindi alla fine è sempre la stessa storia.
E invece le scrittrici? Io non lo so, ma mi pare sempre di avvertire una differenza: da un lato il libro (scritto da un uomo), dall’altro la scrittrice. Già in generale è un’epoca che tende alla personalizzazione, si cerca il personaggio, il volto, poi con le donne ancora di più, non trovi?
È il momento delle giovani donne e si sta cavalcando un’onda credo, sembra che tutti cerchino la giovane donna che ha qualcosa da dire/scrivere, spiace che abbia il retrogusto di un’operazione di mercato, ma ben venga, speriamo che duri e diventi lo standard.
Da ultimo, la domanda che avrei dovuto farti all’inizio: presentiamo Paola Moretti, please.
Oh no, la peggiore.
LOL.
Prima di rispondere alla domanda spauracchio volevo aggiungere una cosa sul perché è diverso Phenomena che poi mi sono persa.
Dài.
Con Ivana Marrone, che è la regista, ci siamo dette da subito che non volevamo avere il tono di “ora ti insegno qualcosa che non sai”, pur cercando di trasmettere della conoscenza, o più che altro infondere curiosità in chi ci ascolta. Volevamo e vogliamo più di tutto creare un’esperienza piacevole, 20 minuti di svago non futile. La volontà di non essere pedagogiche e didascaliche si rispecchia anche nelle scelte sonore, con cui Ivana percorre una sua linea ben precisa che si interseca con la narrazione in maniera originale e personalissima.
Ivana Marrone è quella di Riscatti, vero?
Sì.
Rispondi alla domanda di prima, non svicolare.
Allora: io parto da una formazione da linguista, in teoria; ho studiato lingue e poi ho continuato a studiare varie applicazioni della letteratura, e studierei per tutta la vita. Da un po’ di anni scrivo, sempre in merito a letteratura e cultura, traduco e scrivo narrativa.
Abbiamo finito, ti ringrazio. Prima di chiudere dimmi se mi sono dimenticato qualcosa, o se c’è qualcosa che tieni a dire.
Beh, non so, credo che mi piacerebbe aggiungere che le persone con cui abbiamo realizzato Phenomena sono state una fonte continua di energia e supporto, nonché fondamentali per la nascita del progetto: mi riferisco a Giulia Vigna che ha fatto le illustrazioni, alle attrici che hanno partecipato (ogni monologo è interpretato da un’attrice di professione) e ai musicisti/compositori/producer che ci hanno lasciato usare i loro brani.
Ah no, un’ultima cosa riguardo alla struttura del podcast.
Dica.
Il tutto è inserito nel contesto di una seduta spiritica, questo perché dopo che studiavo un’autrice – la sua biografia, le sue opere, le analisi e gli articoli su di lei – dicevo scherzando che prima di scrivere i monologhi incanalavo la sua voce tipo medium: scherza scherza, alla fine la abbiamo usata come cornice narrativa. Sarebbe bello riuscire a fare anche una puntata-séance.