Pedinare solitudini con disperata ironia

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Con “La colpa al capitalismo” Francesco Targhetta firma uno dei migliori libri in versi apparsi in Italia negli ultimi anni.

Il maggior punto di forza di La colpa al capitalismo di Francesco Targhetta (La Nave di Teseo, Milano 2022) sta nella qualità della scrittura. L’autore trevigiano possiede una delle voci più limpide e nettamente profilate dell’attuale panorama poetico, ed è, oggi, uno dei pochi versificatori in grado di padroneggiare il piano ritmico e quello retorico, lessicale, stilistico con tale perizia tecnica da conseguire tre risultati che sono propri dei maestri novecenteschi. Primo: far scomparire l’artificio fra le pieghe del testo. Secondo: rovesciare il tavolo della tentazione afasica – sempre più affollato di carte, in questi anni (ma non sempre il silenzio è d’oro, in poesia). Terzo: ottenere un’apparentemente facile spontaneità melodica accostando registri diversi, dal sarcasmo amaro all’ironia pensosa, dal ritornello beffardo alle modulazioni sottili di un male di vivere non completamente depurato di lacerazioni metafisiche.

Targhetta è inoltre uno dei rari versificatori in grado di offrire una rielaborazione assai intelligente delle nostre istituzioni metriche, a partire dal sonetto, inoculando dosi discrete, ma mirate, di giochi allitterativi, rime (spesso argute, del tipo «retrofuturiste/triste»), parallelismi sonori, scansioni interversali da cui balenano contrappunti emotivi, sgranature nella tensione del rigo capaci di produrre insieme qualità performativa e profondità di senso. Passando in rassegna l’intera raccolta ci accorgiamo che mai, chi scrive, corre il rischio di cadere nel pezzo di bravura (il virtuosismo, lo sfoggio prosodico, l’ostentazione formale) e, d’altro canto, neppure incappa nell’incidente compositivo (la stonatura, l’immagine facile, la tentazione dimostrativa o la strizzata d’occhio). Nessuna meraviglia che questa maturità della lingua poetica Targhetta l’abbia conseguita facendo esperienza di altre forme espressive, innervando la sua parola con massicce dosi di prosa, tra prove saggistiche (penso in particolare agli studi su Govoni) e romanzesche (Le vite potenziali, 2018). Anche da questo punto di vista si dimostra intelligente e attento continuatore dei maestri novecenteschi.

Continuatore, e non epigono, giacché sa rielaborare e riconfigurare i tasselli del passato in vista del proprio personale discorso creativo. Dal poemetto dei crepuscolari (campioni di ironia, oltre che di ridimensionamenti egotici ed esibito bad taste: molto conta, qui, Palazzeschi) fino all’inaggirabile magistero affabulante di Elio Pagliarani (si vedano, in corsivo, i prestiti dai sorridenti/autoritari slogan del marketing), Targhetta si muove per vie traverse e secondo percorsi tutti suoi lungo il nastro della tradizione. Non poco conta, per lui, il fiume del pensiero poetante che da Zanzotto risale a Leopardi bordeggiando i campi della tenerezza elegiaca, sia pure smarginati dalle combustioni dell’io, dalle deflagrazioni dell’idillio esploso. Né mancano, azzardo, felici accostamenti al campo fertile della canzone d’autore – da Jannacci a Brondi, più certo indie d’oltreoceano – con una sensibilità sottile per taluni guizzi rivelatori dell’ultracontemporaneo.

L’architettura di La colpa al capitalismo è piuttosto regolare, alternando testi propriamente lirici, disposti in cinque sezioni (quella eponima seguita da Vita associata, Individualismo occidentale applicato, Ad altezza d’uomo, Nothing left to do list), alle arcature narrative di cinque poemetti. Questi sono: La morte seconda, affondo narrativo nella tragicomica realtà scolastica, con mordaci punture di satira sociale; Tiziano tra le bandiere, una ballata del vivere differito nel profondo Nordovest, con finale omaggio/tradimento zanzottiano; Nora dei fantasmi, una sorta di planctus dell’abbandono in contesto vacanziero; Per Zero, tributo pensoso a un’anima fragile. Con i suoi circa trecento versi Elegia per Marghera, l’ultimo e il più notevole, è un’apologia della bellezza lancinante della desolazione, nonché uno straordinario esempio di come la poesia, quanto e meglio del romanzo o del saggio, sappia restituire plasticamente, e con vivace forza immaginifica, la realtà storica, sociale, geo-politica di un territorio e del Paese tutto.

L’antiepica del quotidiano che domina La colpa al capitalismo si pone in continuità con i libri precedenti di Targhetta, tra cui va ricordato almeno il celebrato “romanzo in versi” Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn, Milano 2012, Mondadori, Milano 2019). Ben lo si nota anche in rapporto alle opzioni rappresentative: pedinamento di personaggi qua e là gratificati di un nome proprio, magari accostato a un epiteto («Lexotan Livia», «Inidoneo Iacopo»: con effetto straniante, per l’eco di certe trading cards demenziali degli anni Ottanta) e squarci suburbani colti per frammenti. Il lavoro di composizione delle immagini è anche qui sottilmente cinematografico, tra campi lunghi decentrati e insistiti piani medi. Certe sequenze si dissolvono in un fermo immagine, magari nell’accamparsi pastoso, rilevato, di una still life: «accanto al portafrutta semivuoto / di mele più rugose del vento». Altre si affievoliscono in fondu su un angolo di strada («dai cerchioni con cura appoggiati / dai bordi delle provinciali»), in un ralenti alla Antonioni («echi di oggetti che cadono / sull’impiantito di bruna moquette»), o in un primo piano di struggente precisione e sospesa tenerezza («in un muto soliloquio di brodo e di lana»). Notevole in tal senso il lavoro sulla luce, con rari sprazzi di solarità diurna tra molti chiarori artificiali che rifrangono ovunque, oltre il diaframma isolante di una vetrata o di un parabrezza, nei fari delle auto e nei neon, nei led e nel balenio degli autovelox.

Non una poesia di immani sgomenti e tragedie esibite, ma il residuare sulla pagina di un pulviscolo di coscienze irrelate, di solitudini inaccostabili. L’affresco corale essendo impossibile, resta un campionario di ossessioni, lasciti di colpa, egoismi e solipsismi, crolli e obnubilamenti, sopraffazioni e casti affetti denigrati, direbbe Francesco Guccini, che ciascuno sconta vivendo. E, poi, apatia, conformismo, inibizione e disconnessione della facoltà di pensiero, adesione incondizionata ai diktat del momento, a comporre uno spaccato estremamente veritiero del paese senza per questo fare sociologia. Ciò che dice benissimo Paolo Giovannetti quando, in La poesia italiana degli anni Duemila (Carocci, Roma 2017), sostiene che nel caso di autori come Targhetta vale la formula «Poesia=racconto+osservazione morale personale». Non perché sia una parola dimostrativa o pedagogicamente orientata, quella dell’autore trevigiano, ma perché si tratta di una scrittura dalla forte postura morale. Grazie a una grammatica emotiva sorvegliata e come raffreddata, sa imporsi un distacco senza risultare arida, anzi mantenendosi sempre partecipe, attenta alle minime fibrillazioni emotive. Più che una fenomenologia dell’inappartenenza, dell’alienazione, si trova in queste pagine quella che Giovanni Raboni, parlando di Vittorio Sereni, chiama una poesia di distanze variabili dalla vita.

Quanto a La colpa al capitalismo è, a ben pensarci, un titolo allucinatorio, apparente delucidazione di una farneticazione e invece, di fatto, svelamento di una condizione storica non più percepita come tale e dunque vissuta come condizione umana tout court. Targhetta, in questo attento continuatore dell’opera di Zanzotto, lo sa bene: una verità esistenziale (l’antititanismo crepuscolare essendo specchio del titanismo, coglie l’individuo sperso, isolato e in balia di forze avverse) non cancella una verità storica (l’opera annichilente della società sull’individuo accelera, non rallenta, per mano del Capitale). Il paesaggio umano devastato, fatto di nevrosi, stordimento e malessere, e il suo analogon, il paesaggio veneto sgualcito dalla storia e poi improvvisamente appallottolato e gettato via dall’ingordigia di pochi, sono, al di là di tutti i rimpianti possibili (ironizzati nei componimenti intitolati Nostalgia per la vita comunitaria di un tempo), due prodotti di una data civiltà, non portati di un qualche fato ineffabile.

Con i suoi vecchi e i suoi lavoratori, con le sue casalinghe, badanti, quarantenni in crisi e giovani rampanti, Targhetta lascia emergere dal moto ondoso e spesso leggero dei suoi versi la testa di Medusa che figge al nulla il nostro vivere associato, ossia il presupposto che il mondo si esaurisca nelle cose, e nello scambio – smercio – di cose debba necessariamente esaurirsi il vivente. Tutto per l’esistenza materiale, niente per ciò che pertiene alla sfera etica dell’esperienza. Così che il paradosso finale possa esplodere in tutta la sua pietrificante chiarezza: «innocente non resta / che ciò che non è uomo».

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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