Orwell, le candid camera e la banalità del male

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Stanley Milgram, una figura che non smette di parlare alla nostra contemporaneità, nell’ultimo film di Almereyda.

Da poco uscito nelle sale statunitensi, Experimenter, il nuovo film di Michael Almereyda, è dedicato a uno dei più affascinanti e controversi intellettuali americani del secolo scorso, lo psicologo sociale Stanley Milgram. Una figura che non smette di parlare alla nostra contemporaneità.

They Live – Essi vivono, di John Carpenter, tratto da un racconto del 1963 di Ray Nelson

A partire dal 1961 Stanley Milgram, newyorkese di origine ebraica, conduceva presso l’Università di Yale i cosiddetti “obedience experiments”, pietre miliari negli studi di psicologia sociale mille volti citati in film, fumetti, serie televisive e spesso anche brillantemente parodiati (i casi più noti sono quelli di Ghostbusters e dei Simpson). Gli esperimenti consistevano nell’istruire persone comuni, americani medi di entrambi i sessi, perché infliggessero dolorose scosse elettriche di crescente intensità a un estraneo chiuso in una stanza adiacente. Nonostante le preghiere della vittima – in realtà complice dello scienziato – perché il supplizio cessasse, il 65 per cento dei soggetti portava a termine il proprio compito, obbedendo scrupolosamente ai comandi impartiti da un uomo in camice che con modi autorevoli e persuasivi intimava loro di non interrompere l’esperimento. Solo il 35 per cento dei soggetti si rifiutava di proseguire la tortura.

L’ultimo film di Michael Almereyda, intitolato Experimenter (Sperimentatore), ricostruisce la vita e l’opera di Stanley Milgram (interpretato da un magistrale Peter Sasgaard) e della moglie Sasha (Winona Ryder) concentrandosi principalmente sugli anni del famoso esperimento. La teoria che Milgram sviluppa sulla base delle sue osservazioni scientifiche e che poi descriverà dettagliatamente nel volume Obbedienza all’autorità (1974, ristampato regolarmente in Italia dai tipi di Fabbri) è che gli “obedience experiments” aiutino a comprendere i meccanismi che hanno condotto all’Olocausto, possano cioè spiegare come sia stata possibile la Soluzione Finale. Come il film ci ricorda, mostrando immagini televisive d’epoca, nei Nei giorni in cui Milgram conduceva i suoi esperimenti si teneva a Gerusalemme il più celebre processo del Novecento, quello al gerarca nazista Adolf Eichmann.giorni in cui Milgram conduceva i suoi esperimenti si teneva a Gerusalemme il più celebre processo del Novecento, quello al gerarca nazista Adolf Eichmann, cui Hannah Arendt dedicherà le celebri pagine del saggio La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963).
L’analogia tra le idee dello scienziato americano e quelle della filosofa di origine tedesca risulta evidente: come l’aguzzino nazista nella lettura di Arendt, così i soggetti sottoposti agli “obedience experiments” non sono né fanatici né sociopatici, bensì persone qualunque che si sono limitate a eseguire un ordine piuttosto che a pensare individualmente, pronti a produrre sofferenza per pura inerzia e cieca obbedienza all’autorità. Non a caso in quegli anni Milgram difese le tesi di Arendt dai suoi molti oppositori, sottolineando come parlare per Eichmann di banalità e normalità non significasse in alcun modo assolverlo, ma semmai mostrarne la natura non tragica, non sublime di banale uomo qualunque pronto a perpetrare meccanicamente qualsiasi tipo di delitto.

Peter Sarsgaard in Experimenter, film del 2015 scritto e diretto da Michael Almereyda

Milgram ha avuto nel tempo molti oppositori; si è detto che i suoi lavori producono situazioni troppo diverse da quelle reali della Germania degli anni Quaranta per poter fare paragoni ed è stato ripetutamente accusato di condurre esperimenti moralmente riprovevoli, causando inutili stress emotivi ai soggetti indagati. In realtà, ci pare, quel che più disturba e rende inaccettabili le sue tesi, come il film ben mostra, non sono tanto le riserve etiche sul suo lavoro quanto l’idea che gli uomini come Eichmann non siano personaggi eccezionali (di eccezionale malvagità, cioè), prodotti di un dato luogo e in un dato momento storico in cui si è manifestato un picco di crudele inumanità (la Germania nazista), bensì siano figure in larga parte rappresentative della natura dell’uomo contemporaneo. Nel caso specifico del film di Almereyda, ciò che il regista a nostro avviso riesce ad evidenziare è proprio come gliQuel che più disturba e rende inaccettabili le sue tesi è l’idea che gli uomini come Eichmann non siano personaggi eccezionali, bensì figure in larga parte rappresentative della natura dell’uomo contemporaneo. esperimenti di Milgram si radichino esemplarmente nel panorama politico e socio-culturale della modernità, la quale nel suo complesso, e non solo nel contesto totalitario che ha creato Eichmann, tende a produrre cittadini dall’individualità limitata, soggetti dissociati, alienati e perciò potenzialmente trasformabili in ogni momento in aguzzini. Nel creare questa condizione di istupidita passività degli individui, questo loro stato come di ipnosi o trance che li porta ad agire senza pensare individualmente ma eseguendo meccanicamente azioni eterodirette, la sfera mediale in cui l’uomo moderno si trova immerso ha giocato – e, probabilmente, ancora gioca – un ruolo fondamentale.

Più o meno esplicitamente, il regista statunitense ci mostra come proprio negli “spensierati” anni Sessanta i media fornissero esempi rilevanti di ciò che in quegli stessi giorni Milgram andava scientificamente sperimentando. Nel film ci sono almeno tre episodi che vanno in questa direzione. Il primo è legato alle memorabili immagini di Eichmann chiuso nella gabbia di cristallo che dovrebbe proteggerlo da eventuali aggressioni ma che di fatto ne rivela, come sotto una lente di ingrandimento, non già il faustismo titanico bensì la natura ordinaria, squallidamente banale. Vestito di abiti borghesi, quell’ometto di mezza età stempiato, sudaticcio e con gli occhiali si stenta a credere che sia stato uno degli uomini più potenti e feroci del mondo; semmai potrebbe confondersi con uno degli americani medi studiati da Milgram in quegli stessi giorni. Il secondo esempio è legato all’epocale shock dell’attentato a John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963). Quando Milgram entra in classe per comunicare agli studenti la ferale notizia che il Presidente è morto, questi si rifiutano di credergli: sarà certo uno dei suoi crudeli esperimenti di psicologia sociale, immaginano, in una sorta di delirio complottistico alla rovescia. Solo ascoltando la notizia alla radio si convincono che il loro Anche molte candid camera dimostrano esemplarmente la tendenza dei singoli a adeguarsi passivamente all’autorità o ai comportamenti del gruppo, per quanto insensati.professore non mente. Quanto a Lee Oswald, va ricordato che sul suo conto qualche commentatore dell’epoca disse che si trattava del prodotto di un esperimento sulla sottomissione alle autorità del tipo di quelli condotti da Milgram. Infine, ancor più importante, è l’apparentemente innocuo e scanzonato richiamo a una delle più fortunate trasmissioni televisive del Dopoguerra, Candid Camera. Ripreso in Italia proprio in quegli anni da quel poliedrico talento che fu Nanni Loy (Specchio segreto, 1964), lo show, in onda dal 1948, si basava sull’idea di filmare attraverso una telecamera nascosta le reazioni di alcuni soggetti posti in situazioni singolari, fastidiose o imbarazzanti. In una scena di Experimenter vediamo Milgram e la moglie intenti a guardare una puntata del programma. L’effetto comico nasce dalla coazione delle “vittime” a adeguarsi ai comportamenti della maggioranza, ripetendo ciecamente l’assurda condotta tenuta dagli attori in scena: in questo caso, il fatto di entrare in un ascensore e voltare senza motivo le spalle alla porta. Mentre si gode la candid camera nel salotto di casa lo scienziato sorride divertito, ma poi subentra una sorta di “sentimento del contrario” e Milgram deve ammettere che quella trasmissione fu un’importante fonte di ispirazione per i suoi esperimenti. Anche molte candid camera, in effetti, dimostrano esemplarmente la tendenza dei singoli a adeguarsi passivamente all’autorità o comunque ai comportamenti del gruppo, per quanto insensati.

Merita infine notare come anche l’elemento letterario e quello cinematografico siano chiamati in causa da Almereyda per ricostruire la sfera dell’immaginario entro cui Milgram si muoveva. Penso alle citazioni da brani di Nabokov e Kierkegaard e soprattutto alle scene che richiamano l’opera di Orwell, e più precisamente La fattoria degli animali (1945) e 1984 Milgram era anche filmmaker e realizzava pellicole in cui commentava i propri esperimenti: Obedience, del 1962, è considerata una pietra miliare del cinema di ricerca.(1949). Le pagine del grande romanziere britannico sul controllo del pensiero e la tendenza alla sottomissione all’autorità riecheggiano nel film, al pari di altre figure fondamentali di quegli anni che però non vengono direttamente citate, da Philip K. Dick a Marshall McLuhan.
Infine, c’è un forte elemento metacinematografico che percorre tutto il film. Occorre ricordare che Milgram era anche filmmaker e realizzava pellicole in cui commentava i propri esperimenti. Alcune di esse, come Obedience (1962), sono considerate pietre miliari del cinema di ricerca. In un’intervista che si può leggere sul sito del Sundance Institute, Almereyda ricorda di essersi ispirato per realizzare alcune scene ai maestri del Dopoguerra che nelle loro opere hanno insistito sul carattere alienato, scisso e potenzialmente distruttivo dell’uomo moderno; in particolare cita i nomi di Rod Serling – creatore della serie di culto Ai confini della realtà, uno dei capisaldi della tv americana anni Sessanta – e di Alfred Hitchcock. Anche i vari artifici cinematografici utilizzati, dallo sguardo in macchina del protagonista mentre racconta la sua storia alle scelte stranianti di regia (tra cui spicca la cosiddetta rear projection, tecnica finzionale che richiama direttamente il cinema americano anni Quaranta e Cinquanta), introducono una dimensione di irrealtà e straniamento che rafforza un’idea degli anni Sessanta come stagione della falsificazione, della paranoia e della manipolazione autoritaria (vale la pena ricordare come i modelli sviluppati da Milgram furono poi richiamati da alcuni per spiegare uno dei più brutali eventi della guerra in Vietnam, il massacro di My Lai da parte della Compagnia Charlie nel marzo 1968).

Il valore di Experimenter non risiede dunque solo nell’essere un riuscito biopic su una figura pur di per sé straordinaria come Milgram, ma nell’aver abilmente mostrato quanto il suo lavoro fosse profondamente radicato nell’immaginario mediale della sua epoca e più in generale della modernità, sollevando questioni sulla presunta libertà delle nostre azioni e sulla natura profonda dei comportamenti sociali che non riguardano solo i regimi totalitari ma anche le società cosiddette democratiche. Questioni che continuano a restare ancora in larga parte senza risposta.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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