Si legge in apertura del Comunicato congiunto delle Società di storia sulle Nuove Indicazioni Nazionali:
Le società storiche che rappresentiamo si oppongono con fermezza e convinzione alle Indicazioni nazionali 2025 relative alla Storia rese note […] dal Ministro Valditara. Le Indicazioni si presentano con un carattere decisamente prescrittivo, dettando un programma dettagliato, punto per punto, che si dovrebbe tradurre, nelle intenzioni del Ministro Valditara e della sotto-commissione coordinata dal collega Galli della Loggia, in una prossima e veloce riscrittura dei manuali scolastici. Ciò, di fatto, restringerebbe anche la libertà di insegnamento, principio sancito dalla Costituzione.[1]
Non ha forse avuto il giusto risalto il fatto che le società che, a livello nazionale, rappresentano le quattro branche principali della ricerca storica (antica, medievale, moderna e contemporanea) abbiano steso un comunicato congiunto che contesta la sezione dedicata alla storia delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo di istruzione: SISSCO – Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, SISEM – Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna, SISMED – Società Italiana per la Storia Medievale, CUSGR – Consulta Universitaria per la Storia Greca e Romana. Al testo hanno aderito altre dodici istituzioni. Ve le elenco per darvi un’idea dell’ampiezza di questa rappresentanza: SISAM – Società italiana di Storia ambientale; Consulta universitaria per la storia del cristianesimo e delle chiese; SIDIDAST – Società italiana di didattica della Storia; SISR – Società Italiana di Storia delle religioni; CUSR – Consulta Universitaria per la Storia delle Religioni; SIS – Società italiana delle storiche; AISSECO – Ass. Italiana Studi Storia Europa Centrale e Orientale; Società per gli studi di Storia delle istituzioni; SISI – Società italiana di Storia internazionale; Sislav – Società italiana di Storia del Lavoro; AIPH – Associazione italiana di Public History, SISCALT – Società Italiana per la Storia Contemporanea dell’Area di Lingua Tedesca).
Non è un fatto scontato: si tratta di una presa di posizione coesa e decisa del mondo della ricerca, che arriva dopo un mese di dibattito durante il quale diverse società di storia hanno esaminato gli aspetti più controversi del documento ministeriale. A partire da quell’incredibile attacco.
«Solo l’Occidente conosce la Storia». L’incipit della sezione “Storia” delle indicazioni nazionali è ormai diventato un simbolo dell’infarcitura ideologica che le pervade. Alla sentenza segue una citazione tratta dall’apologia della storia di Marc Bloch, del tutto decontestualizzata, forse ancora più grave perché tende a trasformare uno degli storici più rivoluzionari del Novecento in uno sciovinista, impegnato a restringere gli orizzonti più che ad allargarli. La successiva spiegazione esprime con chiarezza l’operazione culturale alla base di questa sezione del documento:
Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia, come compilazioni annalistiche di dinastie o di fatti eminenti succedutisi nel tempo; allo stesso modo, per un certo periodo della loro vicenda secolare anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su sé stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo.[2]
La Società degli studi cinesi ha avuto vita facile a stigmatizzare il «ritorno all’idea colonialista dei “popoli senza storia”»: troppo semplice era evidenziare l’enorme tradizione secolare della storiografia cinese e il pregiudizio culturale che vuole ricondurla alle “cronache dinastiche”[3]. E, guardando sommariamente ad altri contesti, potremmo richiamare i grandi storici islamici Tabari, Ibn Khaldun, al-Mas’udi, o ricordare il capitale Il mondo e l’Occidente di Arnold Toynbee a conferma di quanto sia rozzamente infondata questa sentenza.
Da qui, tuttavia, mi sembra opportuno partire con un quesito di fondo: quale credibilità può avere un documento dedicato alla storia che comincia con un falso storico così grossolano e manifesto? E come può essere possibile che gli studiosi della sottocommissione guidata da Ernesto Galli Della Loggia abbiano avuto in così poco conto la propria reputazione da abbracciare una prospettiva ideologica con tale approssimazione? In realtà la superficialità è la vera cifra della sezione “storia” del documento, dove coesistono considerazioni contraddittorie e giustapposte. A partire dalla stessa concezione della storia, a tratti considerata come luogo di comprensione del passato, a tratti come «arena per eccellenza dove post factum si affrontano il bene e il male variamente intesi», o come «una sorta d’inappellabile tribunale dell’umanità»: evidentemente la lezione di Carlo Ginzburg sulla relazione che passa tra il metodo giudiziario e quello storico alla commissione ministeriale è arrivata mancante di alcune pagine[4]!
Talvolta le incoerenze assumono una sembianza quasi grottesca. Ad esempio il passaggio che rileva «come ogni sapere umano pure la storia, insomma, offre il destro di essere piegata al pregiudizio e alla discriminazione» sembra una censura dello stesso documento, cominciato all’insegna del pregiudizio[5]!
D’altronde, già la scelta acritica del paradigma di Occidente, contrapposto a un ipotetico e indefinito Oriente, posto come cardine del sistema concettuale, è indice dell’inseguimento di una prospettiva ideologica che si alimenta della carenza (a tratti sprezzante) di riferimenti di didattica della storia, come se questa non fosse una disciplina che ha alle alle spalle diversi decenni di studi. Sono ignorati gli studi principali, a partire da quelli capitali di Antonio Brusa e Ivo Mattozzi[6], e il percorso di Clio 92. Ma la stessa manifesta carenza di un supporto bibliografico adeguato a me sembra non solo determinata da una sciatteria non emendabile, ma da una scelta ideologica: ciò che questo documento intende respingere sono proprio gli approcci più innovativi e ragionati della didattica della storia, sia nella sua visione (uno sguardo multiscalare che va dal locale al planetario) sia nel metodo (i laboratori sulle fonti). L’obiettivo prevalente è proprio un uso strumentale della storia a fini identitari, non scevri di una certa nostalgia del passato: la prospettiva occidentale si accompagna a una celebrazione nazionale, ed entrambe sono anteposte alla conoscenza delle dinamiche storiche.
La prospettiva italocentrica o occidentalocentrica stride con classi composite, dove spesso le stesse identità di alunni e alunne sono plurime e complesse. Gli estensori delle linee ne sembrano consapevoli, ma risolvono la questione contraddicendosi. L’insistenza sulla dimensione nazionale viene infatti giustificata con il «fine di favorire l’integrazione […] che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere»[7]. Considerazione in sé condivisibile, ma problematica quando diventa l’unica prospettiva perseguita: diventa difficile promuovere l’integrazione se si soffoca la comprensione delle grandi dinamiche di quel palcoscenico in cui gli attori della storia (gli esseri umani) si muovono, ovvero il mondo. Una storia nazionale privata di una visione pluralistica impedisce di comprendere la polifonia che è propria della storia, le contaminazioni e le influenze che vengono dall’esterno.
Ma sono le stesse Indicazioni nazionali a smentire queste scelte, in altre parti, ad esempio nella sezione “Geografia”, il cui incipit è di tenore opposto[8]: «Dopo aver concorso in passato a “fare gli italiani”, la geografia ha oggi il compito di allargare lo sguardo sul mondo, per abbracciare l’idea di essere parte di relazioni e legami a più scale, da quella locale a quella planetaria». Sembra spetti solo alla geografia la funzione di «aprire l’orizzonte degli studenti sul mondo», ha commentato acutamente la Sismed[9]! Ma anche la sezione storia sembra a tratti mossa da una inspiegabile schizofrenia, laddove pone poi tra gli obiettivi quello di favorire attraverso la storia la comprensione della diversità delle culture.
Da un lato quindi la sottocommissione dichiara che «pur essendo sempre più venute alla nostra attenzione le vicende dell’intero pianeta, resta il fatto che le finalità indicate sopra possono essere raggiunte solo rinunciando preliminarmente all’ambizione enciclopedica di parlare della storia universale, che vorrebbe dire necessariamente occuparsi un poco, o pochissimo, di ogni cosa»[10]. Dall’altro inserisce, tra le competenze attese per la classe quinta delle primarie, la capacità di creare connessioni tra le differenze culturali e religiose!
La cornice, di riferimento è superata nella visione e nel metodo: come ha giustamente evidenziato la Rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea è anacronistico incentrare l’attenzione sullo Stato-nazione[11], in un’epoca segnata da relazioni «sovranazionali e globali»
Le nuove linee guida riorganizzano il curricolo storico ponendo al centro la costruzione dell’identità nazionale. Questa impostazione corre il rischio di riproporre una visione nazionalista della storia che la storiografia contemporanea ha ampiamente superato da decenni. Invece di presentare il passato nella sua complessità, interconnessione e pluralità di dimensioni, si torna a un racconto circoscritto entro i confini dello Stato-nazione, come se la nazione fosse l’unico orizzonte significativo dei processi storici.
La prospettiva da cui è guardata la storia italiana è a tratti pervasa da un anacronistico canone romano-risorgimentale, che sembra perseguire un intento pedagogico e moralistico volto a costruire il sentimento nazionale e a mostrare la storia italiana come una sorta di comunità di destino. Scrive a questo proposito la SIDIDAST:
Con questo documento, l’esecutivo intende cancellare dal curricolo la storia, intesa come ricostruzione scientifica del passato, e sostituirla con un racconto che la storiografia conosce come “biografia della nazione” e che annovera da tempo fra le tradizioni inventate. Questo testo non prescrive di studiare la storia italiana, presente già nelle Indicazioni vigenti, ma una sua versione mitologizzata. Lo dimostra il modello narrativo nel quale vengono iscritti i fatti, che è quello di una nazione eterna, che affonda le sue radici nel passato glorioso di Roma e, poi, vittima di dominazioni straniere, se ne libera in un Risorgimento popolato dal Pantheon degli eroi.[12]
Emblematica è la proposta per la seconda elementare incentrata su una serie di “fiabe patriottiche” (la piccola vedetta lombarda, Anita Garibaldi, gli incarcerati nello Spielberg, i martiri di Belfiore) che inseguono in realtà una dimensione agiografica e aneddotica. L’idea di sottoporre a bambine e bambini di sette anni dei fioretti evidenzia l’intento di usare la storia per orientare modelli comportamentali legati al sacrificio e all’amor di patria, comportando un inevitabile impoverimento di un’età complessa come quella del Risorgimento.
È poi singolare che queste proposte si accompagnino a un salto temporale che porta direttamente alla distinzione tra Monarchia e Repubblica e alla nascita della Costituzione. «Forse qualche precisazione sul passaggio da un contesto privato delle libertà da parte del fascismo a un nuovo contesto in cui la Costituzione le ha restituite ampliandole, avrebbe giovato a non far scambiare la Costituzione per un fungo che nasce spontaneamente e improvvisamente», ha commentato la SISSCO[13]. La SISCALT ha invece evidenziato come basterebbe sostituire alla storia astratta della nazione la «storia degli italiani» per avere come orizzonte la pluralità delle culture e dei domini politici che sono il carattere peculiare della storia italiana[14].
L’insistenza sul canone nazionale – che è cosa ben diversa da un approccio transcalare, ovvero con focus sulla storia d’Italia, necessario nei ristretti termini dell’orario scolastico, ma capace di inquadrarla, tenendo conto anche della scala mondiale dei fenomeni[15] – in realtà non solo ci riporta a un’ottica vecchia di almeno cinquant’anni, non solo veicola un’idea patriottica che ha poco a che vedere con l’insegnamento della storia, ma soprattutto fa perdere i legami con la complessità della storia e con la pluralità delle soggettività. Come ha evidenziato la società delle storiche
a dispetto di un’antistorica prospettiva nazionalista, eurocentrica e neocoloniale, che propone ancora una volta la cultura occidentale come fulcro e metro del mondo, abbiamo bisogno di rendere visibili le differenze di genere, socio-culturali, di età, di abilità e di valorizzarle nei percorsi formativi, nei curricoli e nei libri di testo.
In realtà, anche l’eurocentrismo è piuttosto claudicante. La Siscalt ha rinvenuto come la narrazione unitaria dell’Occidente penalizzi la stessa storia europea, rimuovendone le drammatiche divisioni che l’attraversano. Dall’altro, lo stesso processo di integrazione europea è confinato a un punto del programma della classe terza della scuola secondaria di primo grado, arditamente correlato con la «fine dei regimi comunisti».
Altrettanto inadeguato (in questo c’è coerenza!) è il modo in cui è trattata la metodologia su cui si appoggia la prospettiva occidentalocentrica e italocentrica. Già la stessa costruzione della commissione è umiliante verso i docenti di primaria e secondaria di primo grado che non sono rappresentati da nessun esponente. I componenti sono tutti professori universitari (tranne una, insegnante di Liceo) che non sembrano assidui frequentatori delle scuole primarie e secondarie di primo grado. E d’altronde la metodologia proposta sembra proprio venata da un’antididattica della storia, che evoca nostalgicamente tempi passati in cui l’unico insegnamento contemplato era quello trasmissivo. «Non c’è traccia del grande patrimonio di strumenti che la ricerca didattica internazionale oggi mette a servizio dei docenti. Lezione e manuale sono gli unici attrezzi del mestiere che la Commissione conosce. Né i suoi membri sembrano consapevoli di temi quali l’alfabetizzazione storica, il pensare storicamente, la coscienza storica e il rapporto fra formazione storica e potere politico, il rapporto fra storia accademica e sapere storico diffuso», scrive la SIDIDAST[16].
L’humus ideologico è l’invenzione di un nemico (la didattica della storia) che avrebbe accettato il proprio subordinamento a una superdisciplina (la pedagogia) e rinunciato all’insegnamento dei contenuti per una vuota didattica delle competenze e provocato la caduta del sapere storico. Una costruzione ideologica che parte da un problema (la poca conoscenza della storia), che però affronta non sulla base di dati e delle ricerche disponibili, bensì su convinzioni pregresse, orientate all’obiettivo di ritornare a una didattica meramente frontale, incentrata sulla memorizzazione, intesa non come uno degli aspetti della didattica, ma come la panacea per gli attuali mali. La posa della commissione d’altronde è quella salvifica rispetto al disastro in atto. Anche laddove il documento sembra voler ammiccare a un approccio moderno, concentrandosi sull’impostazione narrativa del racconto storico che passa dall’uso di filmati e audiovisivi, adotta una prospettiva anacronistica, orientata a una didattica nozionistica e trasmissiva:
Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare nell’insegnamento, svincolato da qualsiasi nozionismo così come da un inutile ricorso a “grandi temi”, disancorati dall’effettiva conoscenza degli eventi. Non è pertanto necessario che i discenti imparino tutto ciò che di più o meno notevole è avvenuto in ciascuna epoca, bensì che apprendano quanto è stato davvero determinante, in primo luogo nella vicenda storica italiana.
Sia chiaro, la narrazione è certamente una componente fondamentale nell’insegnamento della storia. Senza, la storia non sarebbe non solo poco affascinante, ma nemmeno trasmissibile. E d’altronde non esiste didattica della storia che non contempli la narrazione. Il problema si pone quando lo studio della storia si incentra quasi esclusivamente sulla suggestione veicolata attraverso l’aneddotica, le vicende dei personaggi, il coinvolgimento emotivo e sentimentale. Richiamo ancora una volta il documento della Rete degli Istituti storici, laddove ricorda come proprio Marc Bloch e Lucien Febvre, tra i fondatori della storiografia moderna, insegnassero già nel secolo scorso che la comprensione storica richieda di guardare oltre l’elenco di eventi e personaggi, integrando prospettive sociali, economiche e culturali. L’allenamento alle connessioni non può esimersi da un confronto con le fonti che deve essere adattato in base alle fasce d’età non espunto.
Qualcuno potrebbe trovare questo aspetto difficile per un bambino o uno studente delle “medie”. In realtà una narrazione senza un addestramento alla ricerca si traduce in un sapere sacerdotale, perché veicola la convinzione che la storia sia una disciplina calata dalla cattedra e non scoperta dal basso (negli archivi, negli scavi archeologici, in tutti i luoghi in cui vi è una produzione umana). In secondo luogo, se si disarticola la storia dalle fonti, la narrazione da seguire non si caratterizza più per la verificabilità, ma solo per la sua capacità d’essere accattivante. Si viene a generare una visione in cui l’ascolto dell’intrattenitore di turno diventa l’unica via di accesso al sapere storico. Per cui l’unica cosa che conta diventa quella di essere un buon narratore, che imbastisce un racconto storico affascinante. Gli altri criteri diventano marginali: quello della fondatezza imperniata su un metodo scientifico e quello dello studio comparato che deve precedere la narrazione. «Per stupire mezz’ora basta un libro di storia», cantava giustamente il “matto” di De André nell’Antologia di Spoon River.
In realtà quello di cui la sezione “storia” sembra voler fare tabula rasa è proprio il laboratorio delle fonti, surrettiziamente accomunato al nozionismo (di cui invece essa trasuda). L’idea che bambini o preadolescenti che frequentano la scuola del primo ciclo siano inadatti a questa esperienza significa privare la ricerca storica della componente più affascinante: quella dell’investigazione, che comporta anche per un bambino la possibilità di essere un “sapiente”, ovvero di poter possedere una piccolissima porzione di un sapere conquistato attraverso lo studio di alcuni documenti individuati e selezionati, e di non essere soltanto il ripetitore del sapere di altri. Questo significa rinunciare all’idea che studenti e studentesse familiarizzino con un approccio dove lo studio della storia non è solo reiterazione, ma anche interpretazione e intuizione. In realtà, a dimostrazione di quanto queste Indicazioni nazionali siano pasticciate e schizofreniche, un accenno al laboratorio con le fonti è presente nella prima delle attività didattiche proposte nei box di approfondimento. Inoltre il documento smentisce le sue stesse premesse negli obiettivi perseguiti per la classe terza della scuola secondaria di primo grado, tra i quali inserisce anche quello di «capire il valore testimoniale delle fonti antiche di varia tipologia (narrative, storiche, documentarie, archeologiche)» e «possedere gli strumenti per comprenderle»[17]. Difficile raggiungerlo se si ritiene contestualmente «irrealistico» l’obiettivo di «leggere e interpretare le fonti»!
La visione della sezione storia delle Indicazioni nazionali nasconde in realtà una pratica didattica autoritaria, basata su un modello gerarchico. Lo si vede nell’ultimo box di approfondimento, dove la sottocommissione, in parte contraddicendosi, dopo aver sottolineato l’utilità delle ibridazioni tecnologiche (ma senza fornire alcuna indicazione sul loro utilizzo) ribadisce come forma principale della lezione l’approccio frontale:
Ma resta un punto decisivo: la storia e il suo insegnamento non sono un video o un film storico, né sono sostituibili da alcuna simulazione virtuale. Così come egualmente la storia non può prestarsi a nessuna manipolazione “creativa” da parte degli studenti. Per quanto si voglia rendere interessante il racconto storico esso deve essere anzitutto conosciuto attraverso la spiegazione dell’insegnante o le pagine scritte di un libro. Al contrario di quanto comunemente si pensa l’interazione con contenuti multimediali non è in grado di promuovere il pensiero critico e l’analisi storica.
Questi intendimenti sono l’esatto opposto di come funziona una comunità scientifica, dove l’autorità viene dalla pratica di un metodo rigoroso, mentre la condivisione del sapere è un processo fondamentale. Come ha richiamato Marco De Nicolò, presidente della Sissco, la storia senza fonti diventa «tifo ideologico», conflitto tra narrazioni opposte dove si parteggia per l’una o per l’altra[18]. Se dunque da un lato le Indicazioni nazionali avvertono sul valore di cogliere le contraddizioni e le complessità della storia e invitano a «evitare ogni faziosità e a mostrarsi capaci di ascoltare e comprendere le ragioni degli altri», dall’altro si muovono in una direzione contraria, quella di un sapere ideologico da inculcare.
Al tempo stesso, come ha evidenziato la Sissco nelle sue osservazioni, un’impostazione basata esclusivamente sulla narrazione pone in secondo piano una pratica fondamentale: quella di abituare gli studenti di storia a esaminare i problemi, a sviluppare nessi, a impadronirsi degli strumenti «per interrogare il passato e meglio comprendere il presente» e a formulare domande. Questi aspetti sono sommersi da un approccio moralistico, che intende formare il patriota più del cittadino e che adopera la narrazione come espediente.
Un salto nel passato che si avverte anche nella cavillosa modulazione di un programma: anziché fornire le linee guida che facciano da quadro alla libertà degli insegnamenti propongono un minuzioso elenco orientato a «colonizzare la manualistica scolastica»[19], confondendo lo scopo delle indicazioni con quello che la SISMED definisce il «demone del programma» (non privo di errori e interpretazioni singolari: ad esempio l’unificazione del mondo mediterraneo sotto Alessandro Magno, i Longobardi come antesignani dell’unità politica dell’Italia, la decolonizzazione inserita nel solo quadrante asiatico)[20].
Inoltre la visione è tutta incentrata sulla storia politica e sui personaggi eminenti. Questo significa che molti ambiti ne rimangono esclusi: manca l’evocazione di personaggi comuni che rappresentano una stratificazione di classe, manca l’infanzia come soggetto storico, è assente una prospettiva di genere, è tralasciata la questione ambientale.
La Società italiana delle storiche ha evidenziato come la sezione “Storia” delle Indicazioni nazionali nella loro dimensione meramente trasmissiva proponga un approccio educativo che dimentica come la scuola sia fatta di corpi: l’idea di «una scuola rigidamente gerarchica, in cui il sapere storico è un pacchetto pre-confezionato da somministrare a studenti considerati come soggetti incorporei e astratti». Lo stesso documento evidenzia quanto tale approccio sia limitante anche rispetto agli ambiti dove le Indicazioni nazionali si propongono di intervenire: nell’introduzione generale la violenza di genere è indicata come una «triste patologia» da affrontare attraverso un’attenzione alla «complementarità delle rispettive differenze» e «un’educazione del cuore» che generi «la fiducia, l’empatia, la tenerezza, l’incanto, la gentilezza»[21]. Ma doveva essere conseguente una riflessione sulla «natura culturale e strutturale» della violenza di genere, rispetto alla quale la sezione storica sarebbe dovuta intervenire individuando «le dinamiche sociali e politiche»[22].
Afferma a questo proposito Vinzia Fiorino che lo sguardo storico servirebbe proprio per «stimolare una riflessione sulle ragioni culturali che hanno costituito per il passato quell’humus che ha sorretto la violenza di genere e che oggi, in condizioni diverse, mantiene molti elementi di continuità. Questo – tema tragico e attualissimo, ahimè – rappresenta un ottimo esempio per cogliere la centralità della conoscenza storica nella comprensione dei fenomeni e delle problematiche odierne»[23]. La Sis ha alle spalle decenni di ricerca didattica e di formazione degli insegnanti, che avrebbero condiviso con la commissione «se ci degnasse di un’audizione».
Se poi qualcuno crede che questa insistenza sulle conoscenze, in esplicita polemica con la didattica delle competenze, possa almeno arginare la caduta del senso storico, anche su questo la Società degli storici esprime scetticismo. Evidenzia la Sissco come non sarà il nozionismo a ridarlo. Serve uno sguardo generale di ben più ampio respiro che consideri anche come la difficoltà a pensare il passato è legata a doppio filo con la fatica a immaginare il futuro, dovuto anche a una politica e a una società che sono schiacciate su un eterno presente[24].
«La storia è l’insieme della successione degli eventi in cui l’esistenza umana si è concretizzata, è “la scienza degli uomini nel tempo”», scrive a un certo punto la commissione. Ebbene: mi sembra che il punto di partenza per recuperare il senso della storia sia proprio quello di restituire alla definizione di storia di Marc Bloch come «scienza degli uomini nel tempo» tutto il suo enorme respiro, che non può essere ridotto a una proposta moraleggiante o a una linea di eventi da mandare a memoria, disincarnate dalla vita di uomini e donne in carne e ossa[25].
Note
[1] Comunicato congiunto delle Società di storia sulle Nuove indicazioni nazionali, si può leggere ad esempio qui https://www.sissco.it/comunicato-congiunto-delle-societa-di-storia-sulle-nuove-indicazioni-nazionali/.
[2] Nuove Indicazioni 2025, Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione, p. 68.
[3] Lettera aperta Associazione italiana di Studi cinesi.
[4] C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, Torino 1991.
[5] Nuove Indicazioni 2025, Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione, p. 69.
[6] Didattica della storia e archivi, a cura di C. Torrisi, Sciascia, Caltanissetta 1987; A. Brusa, L. Cajani, La storia è di tutti, Carocci, Roma 2008; I. Mattozzi, Pensare la storia, Cenacchi, Castel Guelfo di Bologna 2011, W. Panciera, A. Savio, Manuale di didattica della Storia: formazione e aggiornamento per i docenti di scuola secondaria, Le Monnier università, Milano 2022; A. Miccichè, I. Pizzirusso, M. Ravveduto, Il primo libro di didattica della storia, Einaudi, Torino 2025.
[7] Nuove Indicazioni 2025, Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione, p. 71.
[8] M. Gusso, Osservazioni sulle nuove indicazioni nazionali, in https://www.clio92.org/2025/03/24/osservazioni-sulle-nuove-indicazioni-2025-maurizio-gusso.
[9] Comunicato SISMED a firma del presidente Francesco Panarelli, 18 marzo 2025.
[10] Indicazioni nazionali, p. 73.
[11] Rete nazionale degli Istituti storici “Ferruccio Parri”, Una prima analisi delle Nuove indicazioni nazionali, 13 marzo 2025.
[12] Comunicato della SIDIDAST, 23 marzo 2025.
[13] SISSCO, Rilievi sul documento Nuove indicazioni nazionali.
[14] Comunicato SISCALT, 3 aprile 20025.
[15] M. Gusso, Osservazioni sulle nuove indicazioni 2025. scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione. materiali per il dibattito pubblico, con particolare riferimento a storia in https://www.clio92.org/2025/03/24/osservazioni-sulle-nuove-indicazioni-2025-maurizio-gusso/.
[16] Comunicato della SIDIDAST, 23 marzo 2025.
[17] Nuove Indicazioni 2025, Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione, p. 73
[18] «La Repubblica», 17 gennaio 2025
[19] SISSCO, Rilievi sul documento Nuove indicazioni nazionali.
[20] Comunicato SISMED a firma del presidente Francesco Panarelli, 18 marzo 2025. Il documento della SISMED ha fatto un elenco dettagliato degli errori presenti nella parte relativa alla storia medievale: 1) L’impero da Ottaviano a Giustiniano: “Giustiniano” è un evidente errore per “Costantino”; 2) La specifica di “religione universalista” applicata al Cristianesimo ci pare equivoca (lo è anche l’Islam? Sì, no, perché?): suggeriamo di rimuoverla, perché il giustificato riferimento alla “rivoluzione” è sufficiente a evocare la portata del mutamento. 3) Alla definizione di “germanico” (“La crisi dell’impero e le migrazioni dei popoli germanici”) si preferisce normalmente quella di “barbarico”. 4) La codificazione di Giustiniano non è “la nascita della civiltà giuridica moderna”: lo è semmai il recupero e lo studio successivo (dal tardo XI secolo e nelle sedi universitarie) della legge romana attraverso il Corpus giustinianeo. 5) Il riferimento al regno longobardo deve precedere quello a Carlo Magno; inoltre, com’è noto, i Longobardi non unificarono mai la penisola sotto il proprio dominio. 6) “Il feudalesimo: re, signori e contadini”, subito dopo Carlo Magno, suggerisce l’idea, completamente superata da almeno cinquant’anni, di una diffusione della signoria per via feudale già durante l’impero carolingio o subito dopo la sua fine. 7) “L’Italia motore del cambiamento: le città e i mercanti” è una formulazione impropria, che rischia di limitare la libertà di scelta dell’insegnante. Sul ruolo delle città italiane nel decollo commerciale del medioevo esiste un dibattito infinito, con posizioni opposte. Anche il passaggio sulla presunta “sopravvalutazione degli elementi economici e strutturali” ci pare del tutto improprio ed è contraddetto dalla presenza eccessiva, nelle indicazioni programmatiche vere e proprie, dell’economia, presentata esclusivamente nel suo aspetto urbano e commerciale. Le campagne sembrano non esistere. 7) “Repubbliche marinare” è una formulazione ormai inutilizzata da decenni: i comuni non erano propriamente repubbliche e, in ogni caso, Amalfi e Venezia avevano regimi oligarchici. 8) L’insistenza sul commercio come specificità della storia italiana pienomedievale è molto discutibile; non c’è alcun riferimento a una trasformazione capitale come la Riforma della chiesa di XI secolo, né a un evento dalle conseguenze epocali come la Peste del Trecento. 9) Leggere le trasformazioni tardomedievali della penisola italiana come “l’inizio della dominazione straniera in Italia” significa trascurare la recente ricerca storica sulla costruzione di organismi e linguaggi politici complessi in parallelo con la crescita di un mondo europeo e mediterraneo tutt’altro che limitato alle “grandi monarchie europee”.
[21] Nuove Indicazioni 2025, Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione, p. 11.
[22] Comunicato della Commissione didattica della Società Italiana delle Storiche.
[23] Si veda https://www.dinamopress.it/news/liber%C9%99-di-insegnare-una-critica-collettiva-alle-nuove-indicazioni-valditara.
[24] Sissco, Rilievi sul documento Nuove Indicazioni Nazionali
[25] M. Bloch, Apologia della storia: o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, p. 42.