Nelle nostre strade si incrociano lingue e dialetti, nelle case si celebrano riti e si rispettano usanze che ci hanno seguito per chilometri. Andiamo a scuola e impariamo l’italiano e un’altra lingua europea; impariamo la storia di chi ha colonizzato il nostro Paese; leggiamo fiabe con principesse bionde che una matrigna invidiosa ha imbruttito per sempre scambiando la loro pelle candida con una carnagione scura come la terra.
Qualche settimana fa ho incontrato alcuni lettori in una libreria. Il discorso si è spostato sulle letture che consiglio ai miei studenti. La mia lista è ampia, in continuo aggiornamento: comprende tutti i generi, romanzi e racconti, testi classici e moderni. Nelle mie classi ci sono dodicenni di origine rumena, moldava, nordafricana, senegalese. Sono tutti nati a Torino.
Non c’è quasi mai un’imposizione nelle letture: scelgono un libro dalla lista, lo leggono, ne parlano in classe. Conoscono Patrick Ness, Siobhan Dowd, Agata Christie, sir Arthur Conan Doyle, J. K. Rowling, Nadine Murail, Alan Stratton, Neil Gaiman, Sabrina Rondinelli, Nadia Terranova, Marta Barone, Giovanni dal Ponte, Fabio Geda, Niccolò Ammanniti.
– E gli africani? – mi chiede qualcuno in libreria. – Cosa gli fai leggere?
Ho provato a scorrere mentalmente la mia lista e ci ho trovato libri sull’immigrazione e il razzismo, Malala, Mandela e Martin Luther King. Nessun autore africano o asiatico che potessi ricordare.
– Come faranno ad avere un legame con le proprie origini se non leggono più le storie della propria cultura? – ha incalzato la signora.
E come faranno, ho pensato, a ritenere il loro Paese d’origine qualcosa di diverso da un posto che non gli ha offerto niente?
Ho promesso che avrei rimediato.
La parola d’ordine nella scuola moderna è inclusione. Un concetto all’apparenza facile e facilmente condivisibile. Una scuola accogliente, a misura di tutti: stranieri, diversamente abili, alunni con disturbi dell’apprendimento, problemi economici o comportamentali. Tutti accolti da un’istituzione che garantisca a ciascuno di loro un percorso didattico alla propria portata, che ne sviluppi le potenzialità attraverso strumenti adeguati e che gli dia un’educazione improntata al rispetto di se stessi e degli altri. Una scuola diversa e insieme comune che sappia parlare a persone diverse e che al tempo stesso hanno bisogno di sentirsi parte di una realtà comune, in cui poter lavorare, in cui rispecchiarsi.
Intanto, ciclicamente, un attentato in una capitale europea spacca la società in “noi e loro”. Una circolare richiede un minuto di silenzio nelle classi a un’ora stabilita con la stessa automaticità con cui si pretende la condanna del terrorismo da parte dei nostri concittadini musulmani. Vogliamo essere rassicurati che siamo tutti dalla stessa parte: la nostra.
Ho promesso che avrei rimediato. Ho ammesso con i miei studenti che tutti gli autori africani e asiatici che conosco scrivono libri per adulti e che mi informerò per trovare qualcosa di adatto a loro che racconti questa parte del mondo con la propria lingua. Loro mi hanno chiesto preoccupatissimi se i libri saranno sempre in italiano: solo due tra i marocchini parlano l’arabo, ma di leggerlo e scriverlo non c’è verso.
Europei, dunque, ma anche qualcosa di più: cittadini di un’entità politica senza veri confini, che si riconosce in una Dichiarazione dei diritti condivisa e nella possibilità concreta di essere trattati come il compagno o la compagna di banco. Ma per arrivare a questo dobbiamo essere pronti a guardare alla nostra storia e alla nostra cultura senza pensare che basti spiegarle e imporle. Affrontare colonialismo e schiavismo con tutte le loro orrende conseguenze; condannare assieme al terrorismo la guerra e il traffico d’armi di cui i nostri Paesi sono responsabili; aprire il nostro sguardo a un Mediterraneo che dovrebbe essere un ponte e invece è un cimitero.
C’è molto da fare, molto da sbagliare.
Affrontando senza paura il compito di associare un’immagine e uno slogan a Imagine di John Lennon, Soheil ha mostrato alla classe il suo mashup di bandiere dal titolo: Tanti popoli una sola bandiera.
Gli ho fatto notare che nel suo disegno c’erano rappresentati solo Paesi europei.
– Non hai messo neanche il Marocco – ho detto.
– Non ci ho pensato – ha detto lui.
Noi insegnanti, invece, dobbiamo pensarci. È necessario che la scuola si ponga l’obiettivo di includere senza schiacciare. Non possiamo permetterci di semplificare i rapporti tra culture diverse senza considerare le implicazioni di questa convivenza, imponendo un’identità comune cui adeguarsi, spinti dalla paura di perdere la nostra.
Mi ritrovo a sorprendermi, comunque, davanti a fenomeni che esistono e hanno poca rilevanza mediatica: la voglia di esprimersi e di emergere delle ragazze di ogni etnia, il conseguente supporto della famiglia; l’abitudine a percepirsi come parte della collettività in cui si è nati a prescindere dalle origini familiari; l’esistenza di una comunità virtuale trasversale a ragazzi della stessa età e priva di pregiudizi che suonano vecchi o riservati agli stessi emarginati del mondo adulto (zingari e Rom, ad esempio).
La settimana scorsa, chiacchierando, Moahmed ha concluso un aneddoto con un nordico “bòn”: un’esclamazione spontanea, di cui non c’è traccia nel passato dei suoi antenati, nelle città in cui sono nati i suoi nonni e i suoi genitori, ma che, stranamente, non stona in mezzo al suo accento piemontese come invece stonerebbe pronunciata nella mia parlata campana. Mi ha fatto effetto sentirlo: mi sono chiesta se fosse una conquista o una rinuncia, se non potesse significare entrambe le cose. Più semplicemente, forse, è la prova che è possibile trovare una lingua comune in cui dire cose diverse o celebrare in silenzio sia le vittime dell’odio che quelle della nostra indifferenza o della nostra politica. È evidente però che per un numero così alto di vittime un minuto al giorno non basterebbe e forse, è proprio questo il problema.