Una mattina in sala docenti trovo solo una mia collega e una donna che le parla in modo accorato. Il discorso è iniziato da un bel po’ e non fa che ripetere lo stesso concetto: suo figlio non pagherà la colpa di stare in quella classe. Sono colpita dalla sua paura e dalla sua esasperazione. È così palpabile che tiene la mia collega inchiodata alla sedia a cercarsi le parole giuste per rassicurarla. Non ci riesce perché nel frattempo la donna si è alzata, la borsa in spalla. “Devo difendere la mia famiglia”, dice. Io e la mia collega la guardiamo uscire, i nostri sguardi si incrociano. Allora capisco: era la madre del bullo.
Succede da sempre, succederà (pare) per sempre. In un contesto in cui più persone sono costrette a convivere, i più grandi tenderanno sempre a imporsi sui più piccoli, i forti sui deboli, i più riconosciuti dal gruppo sugli emarginati. Alla scuola, dove queste dinamiche possono presentarsi sotto forma delle più gratuite crudeltà, si chiede di intervenire in modo efficace e tempestivo, perché i possibili suicidi di adolescenti fanno più paura di una loro quieta esistenza afflitta da persecuzioni di ogni tipo. Il caso eclatante invece scuote l’opinione pubblica, e le consegna il mostro da additare. Meglio ancora se la La rete può solo contribuire a documentare e condividere le nostre eventuali stupidità e crudeltà, senza per questo originarle.persecuzione della vittima è avvenuta via internet, perché al delitto si aggiunge un aspetto oscuro, qualcosa che pare sfuggire a insegnanti e genitori e che ne convince alcuni che il pericolo possa trovare strade invisibili per raggiungere la vittima in questione. Facebook, WhatsApp, Ask.fm, non più meri strumenti ma complici del delitto, diventano qualcosa su cui concentrarsi, sono le porte da cui entra il diavolo: muriamole e non se ne parli più.
Mi sembra superfluo ribadire che la rete può solo contribuire a documentare e condividere le nostre eventuali stupidità e crudeltà, senza per questo originarle. Al massimo, la distanza che il mondo virtuale implica tra carnefice e vittima può rendere più feroce l’assalto e, a volte, meno consapevole. Quello che mi sembra interessante invece è seguire la mano che digita il commento crudele. Questo bullo che non dimostra alcuna empatia per l’altro, chi è?
L’identikit della vittima, infatti, la cristallizza nel suo ruolo da escluso per i classici motivi: è omosessuale, straniero, poco integrato, manifesta un disagio economico, fisico o culturale. Quando un caso di bullismo finisce male e ha gli onori della cronaca, quello che mi colpisce è la velocità con cui una di queste etichette viene subito assegnata alla vittima, quasi a ricercare una tranquillizzante motivazione sociale, lo stigma per cui il bersaglio è finito proprio dietro quella schiena. Insomma, l’associazione i compagni la prendevano in giro e non riusciva proprio a perdere peso si compie di solito nel giro di un paio di secondi. Così come è altrettanto immediato il ritratto dei compagni come mostri senza pietà e senza volto. Dietro i loro computer e smartphone, nei bagni, negli spogliatoi, nei cortili delle scuole hanno scatenato l’inferno e poi sono tornati a nascondersi nelle loro tane.
Quando un caso di bullismo finisce male e ha gli onori della cronaca, colpisce la velocità con cui un’etichetta viene subito assegnata alla vittima, quasi a ricercare una tranquillizzante motivazione sociale, lo stigma per cui il bersaglio è finito proprio dietro quella schiena.L’identikit del bullo comunque ce l’abbiamo, ed è double face: è un vigliacco che acquisisce potere a spese di una vittima, e al tempo stesso è un insicuro che cerca di mascherare le sue paure e i suoi problemi, infierendo su quelli che percepisce come più deboli. In entrambi i casi a essere fondamentale è l’appoggio del gruppo che fa da spalla ridendo o semplicemente astenendosi dall’intervenire. È opinione recente e condivisa che sia proprio questo pubblico che si fa complice a fornire il movente dell’atto di bullismo ed è nelle mani di questo pubblico la possibilità di rovesciare le sorti della vittima. Basta che non applauda. In altre parole: incoraggiare l’inclusione di ogni alunno, lavorare (più che sulla tolleranza del diverso) sul riconoscimento del bisogno di essere se stessi e sull’uguaglianza dei diritti può davvero rendere il contesto scolastico poco fertile agli atti di bullismo.
La domanda è: lo facciamo?
Di recente un video sul bullismo ha fatto molto discutere perché, sulle note della canzone I will survive, una serie di ragazzi bullizzati predice la propria vendetta: le vittime sono diventate pezzi grossi della società, e toccherà ai bulli sottostare alle vessazioni del capo, ex nerd preso di mira ai tempi della scuola.
È un video arrabbiato. Dimostra un malessere e una voglia di rivalsa e di vendetta che posso capire. Però è una perfetta propaganda probullismo. Il messaggio è che il sopruso è solo una questione di possibilità e tempismo: se te lo puoi permettere, allora puoi farlo. Non ribalta un comportamento, ma chi ha la possibilità di commetterlo (sia pure per vendetta) e quindi lo perpetua.
Una cosa interessante però la suggerisce: che la nostra società sia basata su dinamiche bulliste. Che ci sia una violenza sottesa e legittimata, per cui il se l’è cercata è dietro l’angolo.
E se la nostra società fosse basata su dinamiche bulliste? Se ci fosse una violenza sottesa e legittimata, per cui il “se l’è cercata” è dietro l’angolo?Mi chiedo quindi se questo problema vogliamo risolverlo davvero. Se questa società vuole davvero che i ragazzi si sentano più liberi di esprimere la propria diversità e che siano più felici, o se invece l’atto di bullismo non serva a rendere stabile un sistema tradizionale e, tutto sommato, socialmente accettabile. Mi pare, infatti, che il pubblico che ride alle spalle del bullo sia più vasto del suo gruppo classe. Se guardiamo bene, potremo intravedere attorno a lui la serie di adulti che gli indicano la ragazza grassa, il compagno vestito di rosa, quello straniero. Sono gli adulti che dicono “checca”, “zoccola”, “cesso”, “negro”. Quando gli insegnanti li chiamano a scuola per quello che è successo in bagno negano o minimizzano il fatto. Non è stato lui. E se lo ha fatto è stato provocato. E se anche l’ha fatto che sarà mai? Questi adulti sono bulli e cercano di mascherare le loro paure e i loro problemi alzando la voce per non vederli. La società li aiuta: a parole chiede una scuola più aperta, nei fatti la teme. Certo, accetta il corso di educazione sessuale, i film che raccontano la diversità, i cartelloni sulle pari opportunità. Ma non sarà la scuola a istigare i ragazzi a tutto questo?
Fermo restando che non è possibile istigare qualcuno al sesso o all’omosessualità, ma solo liberarlo dall’idea che si tratti di argomenti oscuri, malati e nocivi, cose che riguardano sempre gli altri e mai se stessi, credo che il compito della scuola sia proprio un continuo istigare. Istigare alla curiosità, alla ricerca, alla conoscenza. Istigare al coraggio e alla difesa dei diritti di tutti. Bisogna trasformare la parola “bullo” dall’ennesima etichetta dietro cui nasconderci a un vero e proprio insulto, qualcosa che offende tutti, non solo la vittima. Insomma, se vogliamo liberarci dei bulli, la prima cosa da fare è smettere di applaudirli.