In horror, there’s a level of anxiety that your life can be taken at any moment. That’s the Black experience.
(Misha Green)
1. Lovecraft city
Howard Phillips Lovecraft è stato uno dei più grandi scrittori della letteratura fantastica di tutti i tempi: l’orrore cosmico delle sue invenzioni – colori impossibili, torture senza fine, entità mostruose non per malvagità ma per indifferenza – accompagnerà i nostri incubi da qui all’eternità. H.P. Lovecraft è stato un ignobile razzista: la convinzione della superiorità dei bianchi, il disprezzo e lo schifo nei confronti di neri, cinesi, ebrei e chiunque fosse diverso, emergono dalle numerose lettere e da molte poesie, come la raccapricciante On the Creation of Niggers.
Questi due fatti sono incontestabili, e noti a tutti. Quello che è meno noto, forse, è che sono intimamente connessi.
Come ha ricordato lo scrittore Andrea Morstabilini su Il Libraio, il razzismo di Lovecraft trova corrispondenza nella sua vita personale: a 34 anni si sposa e abbandona la tranquilla Providence per trasferirsi a New York; la città smisurata e informe, la metropoli tentacolare e caotica, il calderone ribollente di uomini e cose di ogni tipo e colore. Non sappiamo l’impressione che tutto ciò produsse sulla sua mente febbrile, sulla sua fantasia malata, ma la possiamo dedurre in controluce dai suoi scritti. Esseri alieni, mostri ineffabili, comportamenti imprevedibili: Lovecraft guardava terrorizzato l’umanità intorno a sé, e la trasfigurava in letteratura weird. Il suo razzismo era precisamente la forma dei suoi incubi – che sono diventati i nostri. Il che pone un problema.
Pone un problema al lettore contemporaneo: il profondo legame tra la visione politica (ma di più, e peggio, esistenziale) di Lovecraft e la sua poetica fantastica rendono arduo qualsiasi distinguo. Non è uno di quei casi, insomma, in cui è possibile, e anzi doveroso, separare uomo dall’artista, o meglio ancora l’opera d’arte dalle convinzioni o dai comportamenti personali del suo creatore. Pone un problema ancora più grosso al lettore nero, o asiatico o latino (o anche donna se per questo, dato che Lovecraft era altrettanto convinto dell’inferiorità del genere femminile, e nei suoi scritti se donne ci sono, sono streghe cattive). Cosa deve pensare un ragazzino afroamericano, come tutti i ragazzini attratto dall’horror e dalla fantascienza, quando scopre che il suo amore per un certo tipo di libri non è affatto ricambiato? È infatti questione che si può generalizzare a tutta o quasi la narrativa di genere: storie scritte in prevalenza da maschi bianchi per maschi bianchi. Nei libri, come nei film, se in mezzo alla compagnia c’è un nero, sicuramente è un comprimario, e nove volte su dieci muore alla prima uscita del mostro. Oppure, celato male dietro maschere e trucchi da quattro soldi, il nero è il mostro.
Il punto è sia la sottorappresentazione, sia la misrepresentation: la posizione di quel ragazzino nero quando viene messo di fronte a queste realtà non è minimamente paragonabile alla nostra quando la mamma entrava nella stanzetta e ci diceva di studiare invece di perdere il tempo con tutti quei fumetti, con tutta quella fantascemenza. (C’è un personal essay molto interessante e bello su questo, l’ha scritto Pam Noles e s’intitola Shame, vergogna.)
Eppure, non si può negare l’importanza della fantascienza nell’immaginario contemporaneo. Come non si può, caso specifico, negare l’importanza dell’opera di H.P. Lovecraft. Va bene, va benissimo togliere di mezzo il bruttissimo busto che fino a qualche anno fa veniva consegnato al vincitore del World Fantasy Award. Ma Cthulhu resta lì, monumento non eradicabile dalle nostre teste. Con Lovecraft – come ha detto N.K. Jemisin, star del fantasy contemporaneo, nera e donna – bisogna fare i conti.
2. Lovecraft country
Fa i conti direttamente con Lovecraft un romanzo dello scrittore afroamericano Victor LaValle, La ballata di Black Tom, uscito nel 2016.
È una rivisitazione del racconto L’orrore a Red Hook, che applica uno stratagemma usato da capolavori come Ronsencratz e Guiderstein sono morti di Tom Stoppard o Il grande mare dei Sargassi di Jean Rhys: prendere dei personaggi minori di un’opera nota (rispettivamente, Amleto e Jane Eyre) e raccontare il loro punto di vista, la loro versione della storia, per svelare tutta un’altra storia. Più che giochino postmodernista, è un’operazione intrinsecamente politica, soprattutto nel caso del romanzo post-coloniale di Rhys, o nel libro di LaValle appunto.
Un altro corpo a corpo diretto – fin dal titolo, fin dalle prime pagine – è quello che ingaggia Matt Ruff con Lovecraft Country, uscito nel 2016 (e pubblicato ora in Italia da Piemme con la traduzione di Luca Briasco).
Il libro rovescia la sottorappresentazione: protagonisti assoluti sono Atticus, giovane veterano della guerra di Corea, i suoi parenti e i suoi amici; una famiglia di afroamericani nell’America degli anni Cinquanta, quella di Jim Crow e della segregazione.
Famiglia borghese e impegnata (lo zio di Atticus ha un’agenzia di viaggi che edita una guida turistica in cui si consigliano posti sicuri per i neri, sul modello del Green Book di cui parla l’omonimo film Oscar 2019), famiglia di lettori e woke, come si direbbe oggi: «la serie di Tom Swift, che Earl aveva adorato quando era ragazzo ma che ora lo imbarazzava non poco, sia per il modo nel quale erano rappresentati i neri, sia per il fatto che da ragazzino non se ne fosse reso conto, nonostante i ripetuti tentativi di farglielo notare da parte del padre. “Anche mio padre aveva da ridire sulle mie letture”, disse Atticus». E infatti ancora da grande il padre Montrose si scontra con lui, per la sua scelta di fare il militare al servizio di un esercito razzista, e di nuovo per Lovecraft, mettendogli davanti La creazione dei negri.
Il libro rovescia ovviamente, e soprattutto, la misrepresentation: i cattivi sono i bianchi, poco da discutere. La sensazione di costante minaccia, le violenze impreviste, le torture sadiche, gli assassini efferati, i roghi e le impiccagioni senza senso, i massacri collettivi: sono tutti stereotipi dell’immaginario horror; sono tutti dati di fatto dell’esperienza quotidiana dei neri americani. Non dobbiamo inventarci niente, vuole dire Matt Ruff. Che procede su un doppio binario: da una parte i mostri lovecraftiani sono messi in contrapposizione alle fin troppo realistiche minacce dell’uomo bianco. Come quando un personaggio fugge all’attacco di uno shoggoth nel bosco e crede di essersi messo in salvo sulla strada: «Ma era lì che lo aspettava il vero mostro. Era lo sceriffo della contea». Una sundown county, di quelle in cui dopo il tramonto ogni violenza contro i neri era permessa, per una consuetudine più forte della legge, e sarebbe rimasta impunita. «Persecuzioni, espropri, violenze, e l’eredità dello schiavismo», ha scritto su Boing Boing Cory Doctorow: «i neri non hanno bisogno dei Grandi Antichi per esperire l’orrore».
Dall’altra parte – e qui l’elemento politico e quello narrativo si saldano, rendendo Lovecraft Country non un manifesto o un saggio ma un piacevolissimo romanzo – il potere reale e il potere sovrannaturale sono perfettamente identificati. Si capovolge un altro stereotipo: quello dei neri maghi, delle persone di origine africana come naturali depositarie di formule ancestrali e temibili pozioni, con un facile accesso a incantesimi spaventosi. La madre di una delle protagoniste era sì una spiritista, ma da baraccone, una specie di sensitiva TV: «Al termine della seduta, mamma rideva e scherzava sulla credulità di quella gente. La convinzione diffusa tra i bianchi che i neri avessero poteri magici le appariva la forma più assurda di superstizione al mondo. La magia era inclusa nella Bibbia e ciò significava che era qualcosa di reale, ma per mamma era del tutto evidente che, come ogni altro potere, si concentrava nelle mani dei più forti. Un vero mago doveva quasi sicuramente avere la pelle bianca, e probabilmente degli antenati tutti parrucche e cipria». E nel libro è così: la magia esiste, ma ce l’hanno i bianchi. E indovinate contro chi la usano.
Peraltro la stessa magia, l’incantesimo che difende una casa dalle forze del male, nulla può contro una concretissima folla di bravi vicini bianchi, che per preservare la purezza immacolata del loro quartiere non esitano a dare fuoco a una casa con tutti i suoi abitanti – una famiglia afroamericana che ci si era appena trasferita dopo averla legittimamente acquistata. Fantasy? Realtà: storie del genere si trovano per esempio in abbondanza in Al calore di soli lontani di Isabel Wilkerson, saggio sulla grande migrazione dal Sud al Nord degli Usa.
Tra l’altro, libri come quello di LaValle, e soprattutto come questo di Ruff, trovano collocazione perfetta nell’ambito del grande momento che sta vivendo la black culture negli ultimi anni, in tutte le arti e le espressioni della cultura popolare, dalla musica alla letteratura, dallo sport alla moda. Gli afroamericani sono al centro della scena, e finalmente non per subire una narrazione, ma per raccontare, e raccontarsi.
In particolare, il filone è quello dell’horror d’autore che è salito alla ribalta dal film Get Out! (2017) di Jordan Peele in poi, passando per il successivo Us, ancora firmato da quello che ormai è una specie di guru attorno al quale si catalizzano le energie creative del weird afroamericano, ma che allunga i suoi tentacoli anche lateralmente: per esempio nei video di Donald Glover aka Childish Gambino come This is America, in episodi narrativamente marginali ma strepitosi della serie Atlanta come quello intitolato Teddy Perkins (sempre Glover), in una perla di film come Sorry to Bother You di Boots Riley (2018). Un ottimo recap, con inquadramento storico delle tre ondate di horror black, si trova nel pezzo di Francesco Abazia su Link idee per la TV il cui solo titolo è un programma: Di chi ha paura l’uomo nero?.
Perciò è uno sbocco più che naturale per Lovecraft Country diventare una serie, prodotta da Peele per la regia di Misha Green, uscita ad agosto 2020 su HBO e da fine ottobre in onda su Sky. Innanzitutto perché il libro, che segue senza dubbio una vicenda unica, è strutturato in episodi ognuno dei quali ha per protagonista un membro diverso della famiglia: non è il classico libro furbamente pensato per l’adattamento televisivo, perché serie TV lo era nel progetto originario; Ruff ha raccontato di aver ripiegato sul romanzo dopo una serie di rifiuti subiti dalla sceneggiatura. E poi, ovviamente, per il contenuto consonante: sempre Ruff ha detto di essere stato piacevolmente sorpreso dalla chiamata di Peele e Green, 3 o 4 anni fa, ma di aver avuto l’agnizione, il momento a-ha!, solo dopo l’uscita di Get Out.
Tutto naturale, tutto quasi ovvio, se non per un piccolo particolare: Matt Ruff è bianco. Il che pone un altro problema.
3. Lovecraft world
Anzi vari problemi. Aver dato per scontato che Ruff fosse afroamericano – un pensiero che potrebbe essere rivelatore di un certo razzismo inconscio, tipo “i neri hanno la musica nel sangue” – può essere un equivoco solo mio (non lo è, come ho scoperto). Resta il fatto che un libro bandiera del black horror è stato scritto da un bianco: sarà mica un caso di appropriazione culturale? E poi, ulteriore torsione, il fatto che il romanzo sia stato trasformato in serie da due campioni della black culture, va letto come una legittimazione, o come una ri-appropriazione? Bel casino.
Ma forse no: forse sono tutte elucubrazioni, sovrastrutture, pippe. Innanzitutto, più che di appropriazione culturale, si dovrebbe casomai parlare di white gaze, o ancora meglio di whitesplaining: come il maschio che spiega quant’è difficile essere donna… a una donna, qui siamo davanti a un bianco che si fa portavoce della condizione dei neri in America, una condizione che lui non ha mai vissuto. Il rischio è chiaro: perpetuare il privilegio nei fatti, proprio mentre a parole si lavora per scardinarlo. Ruff, nella peggiore delle interpretazioni, potrebbe rivestire i panni del bianco buono – come il villain del libro, Caleb Braithwhite, che non disdegna l’aiuto né la compagnia intima dei neri, ma solo per conquistare il dominio, non sulle altre razze bensì sul mondo intero – l’alleato che si fa bello con le discriminazioni degli altri.
Curiosamente, questo sembra essere più uno scrupolo degli stessi bianchi, come ha raccontato Ruff nella succitata intervista: «È divertente, quando parlavo alle persone di quello che stavo facendo, c’era molta preoccupazione, espressa in particolare dai miei amici bianchi. Dicevano: “Oh accidenti, non so se sarai in grado di farcela”. Ma uno dei motivi per cui amo scrivere è raccontare storie di persone con background diversi dal mio, che hanno visioni del mondo diverse dalle mie. Non sto cercando di dire che non è mai stata dura, ma non l’ho trovato più impegnativo o difficile del solito. È quello che faccio: mettermi nella testa di qualcun altro». Il mestiere di scrivere, insomma.
Intenzioni limpide, ma esecuzione riuscita? Lasciamo giudicare gli stessi intellettuali neri. Come Scott Woods: «In quanto nero e amante dell’horror, ero preoccupato che lui, scrittore bianco, avrebbe gestito male i protagonisti neri del libro. In quanto nero e basta, giravo ogni pagina chiedendomi quando sarebbe caduto in fallo. La buona notizia: il libro tratta i personaggi con competenza, riguardo e generosità ancora maggiori rispetto alla serie».
Il tema, troppo grande per essere approfondito qui, travalica la stessa enorme questione del razzismo, per porre l’interrogativo di sempre: è consentito scrivere solo di ciò che si sa, o meglio di ciò che si è? Solo i neri possono scrivere di discriminazione razziale, solo le donne di femminismo? Solo i romanzieri neri possono mettere in azione personaggi neri, solo le scrittrici protagoniste donne? È chiaro che, estremizzando, si negherebbe legittimità a qualsiasi genere letterario che non sia l’autobiografia (ma lì partono poi altri problemi, Carrère docet) e Madame Bovary non sarebbe un capolavoro ma un clamoroso caso di mansplaining. D’altro canto, non basta appellarsi ai poteri mimetici dello scrittore: bisogna studiare per mettersi nei panni di altri; e guarda caso, è proprio quello che Matt Ruff ha fatto per decenni.
La legittimazione definitiva, ovviamente, viene dalla serie. La showrunner, co-autrice e co-produttrice Misha Green ha detto in un’intervista al «New York Times»: «Quando ho letto il romanzo di Matt, mi sono detta: “Oh, grazie a Dio è ben fatto”. Ma ecco il punto: quello che mi stupisce è quando uno scrittore non riesce a mettersi nei panni di una persona di colore. Dovrebbe essere la norma: molte persone di colore devono mettersi nei panni dei bianchi. Le donne devono mettersi nei panni degli uomini. È triste dover dire: “Grazie per aver fatto delle ricerche e per aver effettivamente visto le persone come persone”.» E conclude: «Noi usiamo il suo libro come un trampolino, rivendichiamo l’operazione di riciclo e ne traiamo un spettacolo televisivo per neri».
Come è stata condotta l’operazione di riutilizzo? Non è questo il luogo per analizzare le differenze tra libro e serie, come giochino fine a sé stesso. Ma alcuni punti di distacco possono aiutarci nella nostra indagine: dove è intervenuta Misha Green, e perché? La serie ha l’ambizione di allargare e approfondire il discorso: lo scarto maggiore con il libro sta nella sua caratteristica di essere intersezionale. Posto che nel romanzo spunta anche la tematica femminista (anche se sempre subordinata a quella razziale: emblematico che la prima delusione di Hippolyta, aspirante astronoma, sia quando si vede scavalcata non da un’adulta o da un maschio, ma da un’altra bambina in tutto e per tutto come lei, solo bianca), nella serie c’è un caleidoscopio di categorie oppresse, un’antologia della diversity. Non si arriva ai livelli didascalici di un Sense8 (la serie-manifesto delle sorelle Wachowski), ma possiamo percepire l’intenzione, la decisione a tavolino: uno dei personaggi è gay, un altro per effetto della magia cambia sesso, un personaggio che nel libro non c’è ed è asiatico, e non manca un riferimento al peccato originario dell’America, ancora prima della deportazione e dello schiavismo, ovvero il genocidio dei nativi. Alcuni spunti sono meglio riusciti di altri (bello ad esempio l’omaggio allo sciamanesimo coreano: tutta un’altra mitologia, tutt’altri mostri), ma in generale l’affresco è molto più ampio.
Un’altra cosa che Matt Ruff si è guardato bene dal fare, proprio per quanto dicevamo all’inizio, è far morire alcuni protagonisti: al contrario, nella serie succede senza pietà, ma in effetti solo dei neri potevano permettersi di farlo (come solo da autori neri poteva venire un sincero omaggio all’afrofuturismo). Anche se, come fa notare ancora Scott Woods, non è che Lovecraft Country sia l’apoteosi del 100% black power: «Ci sono ancora molti bianchi che ci lavorano in posizioni chiave [l’altro co-produttore è J.J. Abrams, N.d.A.]. Ci sono 9 registi in 10 episodi, la maggior parte dei quali non sono neri. Il pubblico principale per qualsiasi programma della HBO è prevalentemente bianco».
Mancano nel libro, e ci sono nella serie, love story e conflitti familiari: e questo è importante perché manifesta l’intenzione di narrare una storia a tutto tondo. La comprensibile ambizione è quella di andare oltre la rivendicazione razziale, la rivincita contro le discriminazioni. (Come è accaduto per Us, il cui scopo era fare un passo in avanti rispetto a Get out, e raccontare un orrore universale.)
Ma proprio da una revenge story si origina una delle sorprese più belle della serie. Tra i tanti libri che i protagonisti leggono, a un certo punto viene nominato Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Sembra totalmente fuori contesto rispetto all’orrore cosmico lovecraftiano: romanzo ottocentesco, d’appendice, d’avventura. Eppure, è una storia di oppressione e vendetta, in cui un ragazzo nero può identificarsi. Ma c’è dell’altro: a un certo punto un personaggio dice ad Atticus qualcosa tipo, vado a memoria, ma come faceva Dumas a sapere una cosa del genere? E lui: forse perché era nero! E noi, tutti a googlare: ebbene sì, Alexandre Dumas era figlio di un generale napoleonico mulatto, perché nato da una schiava haitiana di origini africane e da un marchese francese. Lei era detta femme du mas, donna della masseria, e quando il generale in polemica con il padre rifiutò il titolo nobiliare, abbandonò anche il cognome e si volle chiamare, in omaggio alla mamma, Dumas. Onesto: quanti di noi la sapevano? Eppure sta in bella mostra su Wikipedia.
Se state pensando vabbè, ma non si può definire nero un francese che è sempre vissuto in Europa, solo per quel quarto di discendenza africana, sappiate che con percentuali molto minori, in America si viene considerati neri, e tormentati di conseguenza. Insomma, Dumas è bianco perché è uno scrittore europeo, George Floyd è nero perché è un poveraccio americano: ce la giriamo a seconda di come ci conviene, o meglio di come conviene a chi ha il potere.
E questo, alla fine, è il miglior souvenir dalla terra di Lovecraft.
P.S. Che poi tutto questo sproloquio, questa mia perplessità sulla legittimazione di un autore bianco da parte di autori neri, che cos’è, invidia? O peggio, white gaze al quadrato? Mi salva forse solo il fatto di essere italiano, e quindi negroide, come gli americani classificavano i miei antenati che sbarcavano a Ellis Island. E una frase, detta da un personaggio di Sorry to Bother You, credo davanti a un piatto di spaghetti, quando un amico lo rimprovera di mangiare cibo da bianchi. Al che lui: «What? Italians ain’t white».