Lo strano caso del contabile Tirinnanzi e dello scrittore Manzoni

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Il nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri narra la vita dell’autore dei “Promessi Sposi” dando alle sue vicende una direzione alternativa. E se Alessandro Manzoni non fosse mai stato Alessandro Manzoni? Una scrittura divertente, precisa e una ricostruzione storica accurata provano a rispondere a questo paradosso.

 

Se dovessimo collocare il romanzo di Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso (Marsilio, Venezia 2022), negli ipotetici scaffali di una libreria, avremmo la possibilità, bizzarra, di poterlo mettere tra gli scaffali del romanzo
a) storico: Zaccuri ricostruisce con cura non solo la Milano di inizio Ottocento, ma anche la sua lingua;
b) gotico: il mesmerismo, gli spiriti, le possessioni sono al centro del testo;
c) ucronico: perché l’Ottocento storicamente esatto di cui abbiamo parlato è, però, un secolo alternativo, senza Napoleone e senza Alessandro Manzoni;
d) biografico: perché infine proprio nella sua assenza, o meglio proprio grazie a questa assenza, la figura dell’autore dei Promessi sposi si pone al centro della narrazione.
Questa breve elencazione, ovviamente, non esaurisce, ma mostra la complessità del romanzo di Zaccuri, di cui è necessario tratteggiare brevemente la trama. Poco a me stesso narra la vicenda di Giulia Beccaria, ormai anziana, che ospita presso casa sua il barone di Cerclefleury, un misterioso avventuriero francese seguace di Mesmer e delle sue teorie di guarigione; il nobile francese stringe amicizia con Evaristo Tirinnanzi, l’economo di casa Beccaria, un uomo della vita semplice e dimessa, che nasconde, però, un segreto che lo divora. Attorno a questi tre personaggi ruota la Milano ottocentesca dei circoli intellettuali, ma anche dei bassifondi in cui regna il losco Faggini.

Il romanzo si conclude con un colpo di scena finale: una doppia agnizione che più volte abbiamo immaginato, ma che ci giunge inaspettata. Come suggerisce il titolo del romanzo, nessuno dei tre protagonisti conosce veramente sé stesso, ognuno di loro ha un segreto, qualcosa di oscuro, di non definibile, che lo rende estraneo a sé e impenetrabile agli altri. Simbolo di questa condizione è il “doppio”[1] che vive nel corpo di Evaristo, un doppio che parla una lingua diversa, che racconta storie che riempiono uno scartafaccio, i cui lacerti sono quasi sempre riconducibili alle opere manzoniane, i Promessi Sposi in particolare.

Il doppelgänger che infesta le notti e i giorni del contabile di casa Beccaria altri non è che Alessandro Manzoni, o meglio la sua essenza demonica, che si configura come un altro che prende la parola, che possiede il povero contabile. L’esistenza fantastica di Manzoni, che aleggia per tutto il romanzo, si innerva nella struttura stessa del racconto, ad esempio nella terza persona narrativa usata da Zaccuri, così simile per attitudine e “carattere” al narratore delle vicende di Renzo e Lucia, oppure aleggia nelle riflessioni sulla lingua, o nelle tirate sul vero storico e sul romanzo. L’impressione è che Zaccuri non sia, neppure lui, immune da tale possessione, quasi da seduta spiritica (altro tema tipicamente caro agli scrittori del genere fantastico), e sia diventato un medium per riportarci la voce di Manzoni che racconta le sue vicende, usando le inquiete vicende di Tirinnanzi.

Riassumendo, abbiamo un romanzo con agnizioni, fantasmi, voci, possessioni, fenomeni al limite del paranormale, sedute spiritiche: un armamentario diverso e stravagante che proprio Manzoni, durante composizione, scrittura e riscrittura, ha con consapevolezza espunto dalla nostra tradizione narrativa. Con i Promessi Sposi, il fantastico o forse sarebbe meglio dire il “romanzesco”, che ha caratterizzato molte opere fondamentali del nostro canone (si pensi all’Orlando Furioso, al Morgante, all’Adone e, perché no?, alla Commedia dantesca) viene dichiarato non adatto al romanzo.

In Manzoni la tensione tra la verità – “il santo Vero” (del Carme in memoria di Carlo Imbonati) – e la storia si risolve nel verisimile; il verisimile non ammette – di statuto, verrebbe da dire – il fantastico, che continuamente viene respinto ogni volta che esso si ripropone nel testo, perché la presenza del fantastico, la sua menzogna, indebolirebbe ancora di più la già esile menzogna romanzesca a favore del vero storico. Da qui, da questa logica constatazione della narrazione come dato storico che espunge sempre di più il dato romanzesco – vedi il Discorso sopra il romanzo storico – nascerà quella “decisione” manzoniana di rifiuto del romanzo o meglio di scelta dell’anti-romanzo, che culmina nella Storia della colonna infame (vero termine di paragone di alcune delle nostre maggiori opere novecentesche italiane, vedi Se questo è un uomo e L’Affaire Moro).

L’esclusione del fantastico dal romanzo di Manzoni, però, non è neutra e pacifica, anzi. In almeno due casi dei Promessi sposi, esso – il fantasmatico, l’inquieto, l’onirico – ritorna; in un primo caso è nel penoso sonno di Don Abbondio dopo l’incontro con i bravi. Il povero curato nel suo letto è come visitato da immagini fantastiche orribili, piene di burroni, inseguimenti e foreste infestate, che sarebbero stati il perfetto panorama di un romanzo gotico. Nessuna di queste ipotesi sognate avviene nella realtà dei fatti narrati, certo qualche pallida vestigia la possiamo notare nel viaggio di Abbondio verso il castello dell’Innominato, ma essa è tenuta a bada e disinnescata con la descrizione comica, forse tra i momenti più gustosi dell’intero romanzo, che il narratore/autore ci fornisce del prelato.

L’altro momento in cui il fantastico potrebbe entrare in scena vede come protagonista Renzo e il suo soliloquio in riva all’Adda. Anche qui, la fantasia di Renzo è popolata di fantasmi e di inquietudini, oscure presenze che rendono in certo il cammino; in questo caso, l’autore smonta le fantasie del suo personaggio con un ricorso alla fede, vista in questo caso come luce che rischiara, come atteggiamento razionale e di speranza che si oppone alle oscurità della notte, e del flusso vorticante e inquieto della vita irrazionale, simboleggiata nel fiume.

L’intuizione narrativa di Poco a me stesso sta proprio nel prendere questo “rimosso” (non si legga qui la parola o il concetto in termini di psicanalisi, ma si semplice espunzione del dato testuale) e metterlo al centro del racconto, anzi, e paradossalmente di usare proprio tale tensione fantastica per riempire le pieghe della vita di Alessandro Manzoni. È strano il caso del nostro autore maggiore: riusciamo certamente a coglierlo e a descriverlo, mai osservandolo frontalmente, ma sempre da una angolazione sbilenca, quasi che la sua persona e anima e pensieri fossero rintracciabili solo in quel “cantuccio” nascosto da cui osservava il mondo.

Poco a me stesso si confronta non solo con il romanzo che fonda la narrativa italiana, ma anche con altri due testi “biografici” sul Manzoni, altri due libri che tramite lo strumento del romanzo, cercando raccontare l’autore dei Promessi Sposi; mi riferisco in particolare a La famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg e Natale 1833 di Mario Pomilio. Zaccuri con grande abilità coglie di questi due i dati essenziali; nel romanzo di Pomilio, di cui una citazione è posta in epigrafe della Giustificazione e congedo da parte di Zaccuri, a dominare è proprio l’ombra, la parte oscura e non completamente visibile dell’animo di Manzoni, a suggerire che sia l’ombra a definire i contorni del nostro essere “chiari”, che è solo la non-chiarezza, l’oscurità a produrre per contrapposizione l’immagine nitida di noi stessi. Dall’opera di Ginzburg l’autore prende l’idea dell’assenza, del vuoto a cui tutto gravita intorno; ne La famiglia Manzoni Alessandro è sempre presente, senza mai essere protagonista, eppure la sua assenza, o la decisione di non privilegiare il suo punto di vista, fa sì che egli domini l’intera narrazione.

Zaccuri opera, quindi, una sintesi[2] di queste due opere, grazie alla trovata narrativa, questa sì pienamente romanzesca, del personaggio di Tirinnanzi, con la finale agnizione e la presenza di quella voce “interiore”, che lentamente riconosciamo essere quella di Manzoni.  Poco a me stesso è quindi una perfetta macchina romanzesca, scritta con una lingua che ricrea la patina ottocentesca senza risultare pedante o calligrafica, ma quasi e miracolosamente riesca a renderla viva e attuale; è un’opera che ripropone il maniera forte una riflessione sullo statuto del romanzo e sullo statuto del fantastico nel nostro canone letterario e raggiunge tutto questo facendoci divertire e commuovere, che forse – infine – è il sugo della storia, il motivo per cui leggiamo/scriviamo letteratura.


Note

[1] Il tema del doppio è un tema classico della letteratura ottocentesca ed è fondamentale nel concetto di fantastico. Ecco perché, fin dal titolo di questo articolo, abbiamo voluto fare un ironico omaggio al romanzo di Stevenson.

[2] Una scelta diversa a questa operata da Zaccuri possiamo vederla nel testo Gli amici di Brusuglio (Perrone, Roma 2021) di Isabella Becherucci, testo uscito nelle stesse settimane di Poco a me stesso, che racconta Manzoni mettendolo come personaggio centrale della sua cerchia e della sua famiglia.

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Demetrio Paolin

vive e lavora Torino. Collabora con il «Corriere della sera». Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2016 è stato tra i 12 finalisti del premio Strega con il romanzo “Conforme alla gloria” (Voland). Il suo ultimo libro è “Anatomia di un profeta” (Voland).

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