L’equità generazionale

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La filosofia politica ha affrontato solo negli ultimi decenni il problema della giustizia fra le generazioni. E non senza forti dubbi, come risulta dalla lettura di Una teoria della giustizia di John Rawls, il filosofo moderno che ha ridato vitalità alle teorie del contratto sociale.

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Dobbiamo prendere in considerazione la questione della giustizia fra generazioni, afferma John Rawls, aggiungendo però subito dopo che: “Essa sottopone qualunque teoria etica a prove severe se non addirittura impossibili”. La confessione di questa speciale difficoltà non è senza importanza se si pensa che il testo di Rawls, Una teoria della giustizia, ha rivoluzionato la filosofia politica moderna, rinnovando la grande tradizione contrattualista che dopo il grande exploit del XVII secolo (Hobbes, Hume, ecc.) sembrava sonnecchiare senza grandi novità ormai da secoli. Il tratto più originale della sua teoria, la ben nota idea del “velo di ignoranza”, è in fondo abbastanza semplice: per verificare se una legge è giusta cerchiamo di immaginare se la adotterebbero i fondatori di un patto sociale posti nella condizione di conoscere solo in minima parte la propria specifica condizione. L’assunzione di questa pratica mentale dovrebbe rendere inefficace ogni particolarismo che invece caratterizza le opzioni degli individui reali, ben consapevoli dei propri interessi.

Se, ad esempio, i legislatori non sapessero quale fede professano sarebbero probabilmente favorevoli a una società in cui anche le sette più piccole potrebbero godere di rispetto e libertà, perché nulla esclude che potrebbero personalmente appartenervi. Il ragionamento trova ovviamente un campo d’applicazione privilegiato nelle questioni di equità economica distributiva. Se i fondatori ignorassero d’essere ricchi o poveri, borghesi o proletari, maschi o femmine, giovani o anziani, cittadini o immigrati, chiari o scuri di pelle, quali principi economici adotterebbero? In questa condizione di salutare incertezza, secondo Rawls, finirebbero con l’accordarsi su un principio, che egli chiama “di differenza”: le ineguaglianze economiche sono ammissibili quando si tramutano in un beneficio anche per i meno avvantaggiati.

È giusto insomma che i ricchi aumentino ancor di più i loro averi soltanto se ciò non si traduce in un ulteriore impoverimento dei meno abbienti ma al contrario in un loro, se pur relativo, vantaggio. Solo in questo modo, secondo Rawls, i legislatori “ignoranti” potrebbero garantirsi il massimo della tutela sociale, non sapendo a quale classe o gruppo sociale la lotteria della realtà finirà con il destinarli. Il velo di ignoranza e il principio di differenza sono i due principali strumenti che Rawls usa, come esperimenti mentali, per affrontare in modo innovativo una grande quantità di questioni politiche e sociali, con ricadute di notevole efficacia pragmatica. Molte politiche contemporanee tese al sostegno delle minoranze (quali le positive actions) derivano in ultima analisi dalle speculazioni di questo tranquillo professore di Harward morto nel 2002. Vediamo ora perché in questo contesto l’equità distributiva fra generazioni diventa problematica.

La questione, secondo Rawls, si pone a proposito del risparmio: “Ciascuna generazione deve non soltanto conservare le acquisizioni di cultura e civiltà, e mantenere intatte le istituzioni giuste già esistenti, ma deve anche accantonare, in ciascun periodo di tempo, un ammontare opportuno di capitale reale. Questo risparmio può assumere varie forme, dall’investimento netto in macchinari e altri mezzi di produzione all’investimento nell’apprendimento e nell’istruzione”. Che un giusto risparmio sia necessario è evidente, secondo Rawls; il problema è capire sulla base di quali considerazioni razionali i fondatori del contratto potrebbero essere indotti a sancirlo. Il principio di differenza, infatti, non può applicarsi in questo caso, in cui la diversa dimensione temporale in cui si dispongono le varie generazioni e l’ovvio fluire del tempo in una sola direzione rendono impraticabile ogni rapporto di reciprocità. “Nel seguire un principio di giusto risparmio, ogni generazione lascia un contributo a quanti vengono dopo e lo riceve dai predecessori.

Non c’è modo per le generazioni successive di aiutare i meno fortunati delle generazioni precedenti. Così il principio di differenza non vale alla luce della giustizia fra generazioni e il problema del risparmio deve essere trattato in altro modo”. Detto in altri termini, fra coloro che vengono prima e quelli che li seguono nel tempo non può essere stipulato un patto razionale di reciproco vantaggio per la semplice ragione che una vera reciprocità è in questo caso impossibile:

“È semplicemente un fatto di natura che le generazioni siano disseminate nel tempo e che i benefici economici effettivi vadano solo in una direzione”. Se si ha la sfortuna di nascere in una generazione impoverita da quella precedente non vi è alcun principio di reciprocità cui appellarsi: l’unica possibilità è risparmiare per quella seguente, se si vuole, senza nulla ricevere in cambio. Rawls insiste sugli effetti imprevedibili di questa asimmetria generazionale citando “quanti hanno pensato che il fato diverso di differenti generazioni sia ingiusto”. Ricorda Aleksandr Herzen, un intellettuale russo dell’Ottocento, secondo il quale: “Lo sviluppo umano rappresenta una sorta di iniquità cronologica, poiché quelli che vivono dopo traggono profitto dal lavoro dei loro predecessori senza pagare alcun prezzo”.

Ricorda anche come Kant, in Idea per una storia universale, ritenga “sconcertante che le generazioni precedenti sopportino un peso solo per il bene di quelle successive e che solo le seconde abbiano l’opportunità di stabilirsi all’interno di un edificio completato”. Si potrebbe pensare che il principio di un giusto risparmio generazionale possa essere fondato sull’altro pilastro della dottrina rawlsiana, ossia il momento fondativo del contratto sotto il velo di ignoranza. Ma anche in questo caso le difficoltà sembrano insormontabili: “Quando le parti (ossia i partecipanti al contratto sociale fondativo) considerano questo problema, non sanno a quale generazione appartengono, o, ciò che è all’incirca lo stesso, non sanno in quale stadio di civiltà si trova la società. Così non hanno modo di sapere se la società sia povera o relativamente benestante, in larga parte dedita all’agricoltura oppure già industrializzata, e via di seguito. Il velo di ignoranza è completo da questo punto di vista”.

“Ma dato che”, continua Rawls, “abbiamo supposto una situazione contrattuale fondativa basata sul presente, le parti sanno di essere contemporanee: e così, se non modifichiamo le assunzioni iniziali, non c’è nessuna ragione per loro per accettare un qualsiasi principio di risparmio. Le generazioni precedenti potrebbero aver risparmiato o non averlo fatto; non c’è nulla che le parti possono fare per influenzare un esito del genere”. Quello del risparmio generazionale è il solo caso in cui si inceppa il meccanismo del velo d’ignoranza, tanto da indurre Rawls ad aggiungere un vincolo aggiuntivo alla posizione originaria. “Per ottenere un risultato ragionevole, assumiamo in primo luogo che le parti rappresentino linee di famiglia, che siano preoccupate per i loro più immediati discendenti, e in secondo luogo che il principio adottato sia tale che le parti vorrebbero che tutte le generazioni precedenti lo avessero adottato.

Questi vincoli servono ad assicurare che ogni generazione badi anche alle altre”. La soluzione ad hoc escogitata è quindi che gli stipulatori del contratto originario (le parti) non siano semplici individui ma rappresentino “linee di famiglia”, ovvero progettino una vita in cui sia compresa la genitorialità e siano  “preoccupati per i loro immediati discendenti”, il che significa i figli e al massimo i nipoti. La clausola così introdotta sembra cosa da poco, ma non lo è affatto nel quadro della costruzione rawlsiana e presenta alcune evidenti difficoltà.

La prima è che non tutti i progetti di vita prevedono la genitorialità, che può non verificarsi per motivi biologici (sterilità), religiosi (celibato) o culturali, se si preferisce una esistenza da single. La seconda è che restringe l’area dell’impegno al futuro immediato, le prossime due generazioni, escludendo quindi un vincolo altrettanto forte per le seguenti. Sembra riprodursi così in senso temporale il celebre paradosso etico connesso alla dimensione spaziale, secondo il quale sentiamo obblighi morali fortissimi per le persone che ci stanno più vicino (famiglia e figli), ma via via digradanti per quelli più lontani (concittadini, connazionali) sino a ridursi a poca cosa per gli esseri umani che abitano in paesi esotici.

L’insufficienza di questo approccio etico diventa evidente se si tiene presente come oggi l’evoluzione tecnologica e le sue capacità distruttive rendano necessario un principio di responsibilità verso un futuro anche molto lontano (si leggano le pagine dedicate ad Hans Jonas su questa rivista). E infine fondare i doveri verso le future generazioni sulla speciale benevolenza che i genitori sentono per i figli sembra introdurre una quota di sentimentalismo estranea alla costruzione rawlsiana, pur rimanendo comunque del tutto insufficiente come momento fondativo di una responsabilità adeguata ai tempi.

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Ubaldo Nicola

Direttore del cartaceo de La ricerca e coautore dei manuali Loescher Filosofia: “Dialogo e cittadinanza”, “Il nuovo pensiero plurale”, “Passeggiate filosofiche”, “Pensare la Costituzione”.

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