Nelle scorse settimane «La ricerca» online ha ospitato due riflessioni molto interessanti a proposito dell’uso scolastico de La Storia di Morante e dei Promessi sposi di Manzoni (ecco qui le due puntate: 1, 2), a firma di Elena Rausa. Siccome sono stato bonariamente chiamato in causa come colui che ha suscitato in parte tali riflessioni, all’interno di un gruppo di lettura che ha affrontato la lettura del romanzo morantiano, provo anche io in questa sede a dar loro un seguito, a mo’ di risposta.
Mi sembra opportuno fare un’affermazione preliminare: stimo Elena Rausa come scrittrice e come docente, e in questo intervento la sua natura mischiata è fondamentale per comprenderne la ricchezza. Inoltre Elena è una cara amica, e intendo queste righe di risposta in primo luogo come una conversazione con lei; in più, mi sarebbe piaciuto e piacerebbe tuttora che questa divenisse una bella e lunga chiacchierata, con l’auspicio che altri, se vogliono, si uniscano alle nostre due voci.
Vengo quindi al tema della discussione degli articoli, e cercherò di essere stringato, ma non sarà facilissimo.
Antefatto
La riflessione di Elena nasce da una provocazione, boutade, nata su Facebook all’interno di una girandola di commenti sotto un mio status legato appunto alla condivisione di riflessioni sul romanzo di Morante. Questo antefatto chiarisce e mette in luce un dato fondamentale che potrebbe fornire una precisa risposta anche al discorso sollevato da Paolo Di Paolo all’interno di un suo articolo, nel quale lamentava la mancanza di conversazione e discussione approfondita sui libri; mi verrebbe da risponderli che in realtà, forse in disparte, qualcuno continua a coltivare tale forma di discorso letterario, che però avviene al di fuori dei canali più certificati, leggasi la carta stampata, ma in nuove zone di cultura, i gruppi di lettura, certe riviste on line. Ritornando alla discussione su Facebook, il succo della riflessione di Elena, se lo volessimo racchiudere in uno slogan, potrebbe essere così risolto «+ Morante – Manzoni». Come avete visto leggendo le belle riflessioni riportate dalla rivista, il mio riassunto è di certo brutale, ma non lontano da ciò che Elena ha brillantemente sostenuto.
Cosa c’è in gioco
È chiaro che dietro a queste riflessioni ci sono una serie di interessanti ricadute, non solo a livello critico letterario, ma anche scolastico, e con una certa regolarità si leggono infatti riflessioni o ragionamenti in cui i Promessi Sposi sono messi in discussione. Nel caso di Elena, però, c’era una controproposta, per quanto ironica, forte, sensata, e quindi mi pare giusto dibatterne. Elenco quelli che mi sembrano i punti che Elena solleva.
1) La ridefinizione del canone scolastico (che è cosa leggermente diversa dal canone più generalmente inteso) della letteratura italiana. Da questo punto di vista stiamo vivendo un momento molto interessante, vi sono diverse e fondamentali riflessioni che vanno in tal senso: non mi dilungo, ma penso a certe contro-storie della letteratura – ad esempio quella di Sanguineti, o il lavoro riportato anche qui su «La ricerca» di Johnny L. Bertolio – che mettono al centro autrici, soprattutto, che non hanno avuto ragione e voce nelle antologie scolastiche. È un tema che deve essere dibattuto, perché ad esempio apre una lunga riflessione legata ai “tempi di insegnamento”, ovvero alle ore concrete e reali (tolte le verifiche, le interrogazioni, l’educazione civica, le ore di orientamento ecc. ecc.) che ogni docente ha per poter produrre un discorso più articolato, giocoforza producendo delle scelte, rispetto alla storia della letteratura. L’allargamento del canone potrebbe, però, significare un cambio del modo di pensare l’insegnamento dell’italiano nella secondaria di secondo grado, ad esempio facendo iniziare lo studio della storia della letteratura già dalla seconda, delegando alla prima classe lo studio di elementi di narratologia, retorica che oggi si spalmano in due anni. Questo significherebbe a mio avviso avere un tempo più ampio a disposizione per produrre una riflessione e uno studio incisivo della nostra letteratura.
2) Gli alunni. Mi pare che lampante nel discorso di Elena ci siano loro: e dovremmo dire che la scuola, al di là di alcune verniciature di facciata, è rimasta identica a sé stessa negli anni. Noi dobbiamo prendere atto, e Elena mi pare proprio lo metta al cuore del suo ragionamento, che i nostri alunni non sono per nulla simili a giovani, e ancor meno a quelli di cinquanta o cento anni fa. Elena ci invita a guardare in faccia il cambiamento antropologico in atto, che è profondo.
3) Epopea nazionale. L’ultimo tema messo in campo da Elena sta, secondo me, nel chiedersi se i Promessi sposi siano ancora lo specchio in cui possiamo osservarci e scoprirci con una giusta cautela somiglianti ai vari protagonisti del romanzo, e se tale libro sia ancora la nostra carta di identità in quanto nazione: c’è quindi un tema politico profondo nell’intervento di Elena.
Nel discorso, quindi, non dobbiamo mai dimenticare questi aspetti, che attengono a tre sfere ben precise: letterario, antropologico e politico.
Manzoni o Morante?
La risposta potrebbe essere: e perché non entrambi? Certo l’analisi dei due romanzi mette in evidenza, come fa Elena, vicinanze e distanze tra le due opere. Se dovessi suggerire il luogo in cui i due romanzi segnano la distanza maggiore, direi che sta nella riflessione sul tempo e sul tempo «ultimo» dell’Apocalisse. Provo a spiegarmi: nei Promessi sposi l’idea che il mondo finisca è percepita come lontana, Manzoni è paradossalmente più terrestre, più preoccupato (mi verrebbe da dire con una postura prettamente illuministica) di questo mondo. È in questo mondo che il male accade, avviene, è in questo mondo che Lucia come Giobbe viene sottoposta a un esperimento, a una scommessa, è in questo mondo che Renzo acquisisce la sua consapevolezza, la quale sta tutta nel garbuglio della lingua, per dire ciò che gli è accaduto (Renzo è il narratore dei Promessi sposi, lo è tramite procura, ma lo è senza ombra di dubbio), renderlo dicibile tramite un’avventura linguistica. Ecco il «sugo della storia», fortunata quanto geniale trovata manzoniana, e ora chiediamoci: qual è il sugo de La Storia?
Mi verrebbe da dire, anche qui applicando una profonda semplificazione, che La Storia è una tragedia, infatti non è casuale come i protagonisti muoiano tutti: Nino, Useppe, Davide, Ida. L’unico a sopravvivere è il narratore, che come un novello Orazio, consapevole che ci sono più cose in cielo e in terra e nella Storia di quante ne possa contenere la sua narrazione (l’inaffidabilità del narratore è forse dovuta a questa sproporzione tra ciò che viene narrato e l’enormità della Storia e delle storie?), rimane vivo per raccontare. È vero, come nota Elena, che i poveracci di Morante sono più simili ai personaggi veristi (ricordiamo l’amara ironia di Verga che battezza Provvidenza la nave che naufragando porterà sciagura a Padron N’Toni e famiglia), ma come ha evidenziato Garboli è proprio Leopardi il nume di questo libro. Morante, quando parla de La Storia, ne discute come opera di poesia, e solo in seconda battuta come romanzo: mi pare un elemento da sottolineare nella sua importanza (anche rispetto all’abbandono della poesia e di un certo tipo di poesia da parte di Manzoni. Le parabole esistenziali di Nino, Useppe, Davide e Ida attengono più alla lirica che al romanzo: dal punto di vista narrativo i loro personaggi sono dati, non crescono, non cambiano, non si modificano, essi sono già eternati, sono già nel tempo a-storico della poesia. Il romanzo è la narrazione delle vicende dell’uomo nel tempo, ma l’impressione è che Morante la sposti fuori. Il tempo de La Storia è il tempo della bomba atomica, il tempo del post, il tempo che viene dopo che la storia è passata. Non è neanche il tempo delle macerie (quello è il tempo di Céline e/o di Beckett, è quello presagito da Kafka) ma il tempo di quando il mondo sarà concluso: è il tempo del Gallo Silvestre.
Modernità manzoniana e arcaicità morantiana
Morante recupera quindi una idea più antica, quasi tragica (penso a certi passi de Il mondo salvato dai ragazzini), e in un certo senso arcaica e fuori tempo della narrazione. Paradossalmente tra i due il più moderno è Manzoni, che pone i maggiori problemi etici, morali. È vero, come dice Elena, che La Storia pone al centro lo scandalo – parola del vocabolario cristiano che Manzoni usa con parsimonia – dell’unde malum, ma è appunto un male che pare didascalico nella sua rappresentazione. Manzoni produce una narrazione del male che, lo concedo, è più difficile da spiegare e far vivere in aula. Nei Promessi sposi Manzoni mostra il male agente, che accade, mostra don Rodrigo, la peste, la carestia che lentamente si muovono all’interno delle pagine come un veleno. Pensate solo alle prime avvisaglie della carestia nel capitolo V (il discorso alla tavola di don Rodrigo) e nel capitolo VI (la descrizione della tavola del povero Tonio) e come questo ci condurrà alle mirabili pagine della seconda parte del romanzo. Pensiamo alla centralità, per comprendere il romanzo, della Storia della Colonna infame (apro una parentesi: ma è mai possibile che in alcune edizioni scolastiche non ci sia, non venga pubblicata e messa a disposizione questa parte del “romanzo”?), che non ha paragoni rispetto all’architettura de La Storia, pagine che in qualche modo problematizzano l’intero impianto del romanzo, mostrando un autore che mette in discussione sé stesso fino a negare la propria arte.
Una petizione di sfiducia
Vorrei a questo punto esprimere un timore, che è indice della mia sfiducia antropologica; in questi anni mi sono reso conto che per i miei alunni il Risorgimento come la Seconda guerra mondiale sono eventi che percepiscono lontanissimi da loro presente. Prendo, come esempio, la lotta partigiana: ciò che per me, e per molti della mia generazione, è ancora ricordo e memoria, anche se non diretta, è per loro nell’ombra del passato remoto. Per i nostri ragazzi la peste del Seicento o i discorsi sull’asse Roma-Berlino, gli scempi dei lanzichenecchi e i bombardamenti a San Lorenzo avvengono nella stessa remota distanza temporale: loro vedono questi accadimenti come perduti nelle nebbie di qualcosa di lontanissimo. Il problema, quindi, secondo me, è appunto la distanza che loro sentono rispetto a queste narrazioni: è un problema di percezione. In questo caso il ragionamento di Elena mi trova concorde: come docenti dobbiamo riuscire a comunicare che «questa è l’acqua», «questa è la montagna», mostrare il ragionamento, mostrare la capacità di immedesimarsi, capacità di comprendere che loro sono nella storia, loro sono la Storia: ho l’impressione che spesso non si rendano conto di essere loro stessi dentro un flusso di accadimenti, che sono già storia e che non sono diversi dalle proteste della Milano nel Seicento o la rabbia anarchica di Davide Segre. In un certo senso, il problema non è leggere Morante o leggere Manzoni, ma produrre un tempo nella scuola in cui la lettura di entrambi diventi un momento di consapevolezza e di comprensione.
Manzoni → Morante
Infine, continuo a pensare ai Promessi sposi come a uno dei più grandi romanzi dell’Ottocento europeo: sono l’avventura del nostro farsi linguaggio, sono lo specchio nel bene o male di ciò che siamo. Credo che sia un romanzo da leggere, ma in più credo che leggendolo con la dovuta attenzione ci permetterebbe di cogliere tutta la grandezza, la sghemba bellezza, presente ne La Storia. Alla fine credo che sia abbastanza chiaro da che «cantuccio» parlo: sono un vecchio storico della letteratura, e ho fissa in capo questa ferma convinzione che sia necessario leggere i libri secondo un certo ordine e secondo questo ordine si vedrà che lo spirito del tempo, della storia, dell’uomo si mostra e mostrandosi si/ci chiarisce.