L’«altro piano» di Carla Lonzi (e suor Gertrude)

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Una lettura della raccolta di saggi di Carla Lonzi, “Sputiamo su Hegel e altri scritti”, appena ripubblicati con la cura di Annarosa Buttarelli per La Tartaruga, Milano 2023.
La copertina del volume.

Chissà che cos’avrebbe pensato Carla Lonzi nel vedere la recensione a un suo libro firmata da un nome maschile. Negli anni Settanta, quando i gruppi femministi di autocoscienza e il cosiddetto pensiero della differenza avevano gettato le basi della liberazione delle donne, si sarebbe guardato con diffidenza a un simile tentativo. Lonzi ammonisce:

Il movimento femminista è pieno di intrusi politici e filantropici. Mettiamo in guardia gli osservatori maschili a fare di noi materia di studio. Ci è indifferente sia il consenso che la polemica. Gli suggeriamo che è più dignitoso per loro non intromettersi.

Oggi le cose, almeno a livello teorico, sono cambiate: il femminismo ha perlopiù diversificato le radici bianche e liberali delle prime ondate; si è affermata l’analisi dell’intersezionalità nell’oppressione, ovvero di tutti i suoi fattori storico-culturali (il sesso o genere e la classe, ma anche l’orientamento sessuale, le origini etniche, la neurodivergenza, le disabilità); i Queer Studies hanno messo in luce e contribuito a rendere meno impermeabili le barriere di genere innalzate per secoli dall’eteronormatività e dai suoi ruoli.

È dunque con gioia che anche i maschi dovrebbero far diventare «materia di studio» gli scritti di Carla Lonzi del 1970-72, finalmente ripubblicati in Italia con il titolo del saggio più significativo e forse noto: Sputiamo su Hegel (come in altri casi, siamo stati preceduti dalla Francia, il Paese d’elezione di un’altra illustre pensatrice della differenza, Luce Irigaray, con una traduzione ancora più efficace dell’originale, onomatopeica: Nous crachons sur Hegel). La curatrice italiana, Annarosa Buttarelli, ha scelto di non aggiungere apparati paratestuali (qualche nota avrebbe fatto comodo per approfondire i riferimenti bibliografici di Lonzi), consegnandoci un florilegio di testi da gustare direttamente.

Con la sua scrittura secca, incisiva, che procede quasi per strofe (possiamo dire post-moderna?), Lonzi mostra, grazie alla presa di «autocoscienza» maturata nei gruppi femministi, come tutta la cultura celebrata come degna, meritevole, universale, canonica, sia imbevuta di etichette, concetti e luoghi comuni che hanno giustificato ai più alti livelli intellettuali la subordinazione delle donne. Per dimostrarlo, Lonzi «sputa» sul pensiero di Hegel, di Marx, di Freud e sui movimenti politici e culturali da loro derivati, che hanno scandagliato tutto (la dinamica della servitù, la lotta di classe, l’inconscio e le nevrosi), tranne l’oppressione sessuale.

Contro Hegel in particolare, Lonzi rifiuta di considerare la figura della dialettica servo-padrone come uno strumento per comprendere ed eventualmente abolire l’inferiorizzazione delle donne. La donna non è il servo che avrebbe bisogno di un signore – il maschio – per sopravvivere, come in fondo il signore ha bisogno di lui.

La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti tra collettivi di uomini: essa non prevede la liberazione delle donne, il grande oppresso della civiltà patriarcale.

Questo punto del pensiero hegeliano, che avrebbe portato alla definizione della coscienza di classe e all’ipotesi marxista di una società post-capitalistica, di eguali, aveva animato le rivendicazioni dei movimenti operai, senza però dar voce alle attiviste proletarie, tanto che il femminismo di prima ondata ebbe il proprio baricentro nel liberalismo, non nel socialismo. Se pure ha un ruolo nella filosofia di Hegel, la donna deve sottostare a un «principio divino femminile», passivo, che la illude assicurandole lo scettro della matriarca nella famiglia, dove la sua soggettività non è ammessa o viene annullata, dove la «venerazione» è solo l’altra faccia della «soggezione».

Per questo Lonzi rifiuta l’integrazione all’interno del sistema «dialettico» e, insistendo sulla «differenza», suggerisce invece alle donne di «muoversi su un altro piano», non come oppositrici, come umane antitesi, come un servo ribelle, ma progettando una società diversa e diffidando di quelle forme di apparente emancipazione che il «padrone» di turno concede loro solo per confermare la propria superiorità.

È quando parla dei corpi delle donne che Lonzi ci offre la sua originalissima idea di liberazione, attraverso una metafora, quella della «colonizzazione», che storicamente ha avuto anche un significato letterale e che oggi, grazie al Black Feminism, possiamo declinare nel senso dell’intersezionalità. Nel saggio La donna clitoridea e la donna vaginale, il cui titolo nell’edizione originale campeggiava in copertina sotto Sputiamo su Hegel, Lonzi passa all’attacco, questa volta, di quegli autori, ovviamente maschi, che nel Novecento hanno pontificato sul sesso: oltre a Freud, Wilhelm Reich e i famigerati Rapporti Kinsey. Per secoli, a causa della mancata o lacunosa pedagogia sessuale, le donne sono state convinte a far coincidere l’intensità massima del loro piacere con il rapporto di coppia eterosessuale, possibilmente in funzione del concepimento di una creatura. I trattati erotici, Kama Sutra compreso, di fatto incoraggiano questo tipo di sessualità a tutto vantaggio dell’uomo, mentre la componente davvero orgasmica per la donna, quella clitoridea, viene trascurata, se non censurata (nei trattati scientifici settecenteschi lo sviluppo della clitoride era ritenuto il segno di sessualità non conformi). Ecco, nella clitoride, rigorosamente declinata al femminile e illustrata con disegni, Lonzi colloca non solo la sede di un piacere liberatorio e rimosso, ma il punto d’origine di quell’«altro piano» su cui invita a muoversi. La donna «clitoridea», infatti, è colei che si è liberata delle costrizioni patriarcali, a partire da quelle sessuali, e ha scoperto attraverso l’autocoscienza che il maschio, la coppia etero, la maternità non sono l’unica opzione. Citando i comportamenti di altri mammiferi, Lonzi riconosce nella sessualità il nucleo di quel personale-politico che è alle radici del femminismo degli anni Settanta e delle sue lotte.

C’è un tempo nella vita delle ragazze in cui l’«altro piano» sembra più accessibile:

Un momento da salvaguardare nell’emotività adolescenziale è quello della tenerezza verso le appartenenti al proprio sesso. Questa fase di turbamento nella sessualità femminile è importantissima sia perché lascia una sensibilità più acuta e solidale verso le donne, sia perché deposita sul fondo della coscienza una ipotesi non realizzata, ma non irrealizzabile di disponibilità. […] fin quando l’eterosessualità sarà un dogma, la donna resterà in qualche modo la complementare dell’uomo mentre essa può portare dall’adolescenza nel suo bagaglio di intuizioni uno slancio verso le donne su cui rimisurare all’occorrenza lo svolgimento delle relazioni eterosessuali.

Secondo Lonzi, l’adolescenza, con la convivenza delle ragazze a scuola (fino agli anni Sessanta in classi separate) e in collegio, è esposta a una non pianificata autocoscienza che potrebbe portarle, da adulte, a rifiutare il sistema egemonico, a svelarne la fallacia e a renderla nota. È il momento della «tenerezza», parola che ritroviamo in tanti romanzi di autrici dedicati alla vita collegiale femminile, da Amalia Guglielminetti (La rivincita del maschio) a Goliarda Sapienza (L’arte della gioia). Scoprire la «tenerezza» tra coetanee non significa soltanto aprirsi a un rapporto omosessuale, se desiderato, quanto maturare la «disponibilità» a scegliere strade diverse da quelle imposte. E a proposito di vita collegiale, potremmo esemplificare il saggio di Lonzi ricorrendo a due celebri “personagge” della nostra letteratura canonica, donne di carta, certo, ma non per questo poco plausibili sociologicamente: Lucia e suor Gertrude, dai Promessi sposi.

Francesco Gonin, Lucia protetta dall’angelo, 1840-42, incisione dal frontespizio dei Promessi sposi.

Lucia è la giovane ragazza pronta o, meglio, indotta a sposarsi fin dall’inizio del romanzo, emanante una «modesta bellezza» sfruttata dai maschi intorno e bisognosa della protezione umana e divina. Il suo è il rossore della verecondia e, se vogliamo, della repressione, cui alla fine, da brava innamorata, si sottometterà con la benedizione del narratore.

Gertrude è ancora più esplicitamente una personaggia dimezzata, ridotta a specchio dei desideri di un padre-padrone-padreterno che le infonde la vocazione per il chiostro come se fosse sgorgata dalla coscienza innocente di lei e che, al momento dell’ingresso ufficiale in monastero, incenerisce con lo sguardo la sua esitazione. Non è una donna liberata, ma è una donna che si è consegnata al delitto e al sesso proprio a causa della sua monacazione forzata.

Francesco Gonin, La monaca di Monza, 1840-42, incisione dal capiolo IX dei Promessi sposi.

Il suo è il rossore dell’adulta (ha 25 anni circa quando incontra Lucia) che ha nella sua fedina claustrale un elenco non piccolo di carichi pendenti, non ultimo una relazione sessuale al di fuori sia del matrimonio sia del voto di castità. «La sventurata rispose» e, trascinata sempre da un uomo al male, conferma la sua sottomissione; eppure, Gertrude fa balenare un’alternativa, in aggiunta alle tante che si è conquistata da «signora» (tra cui la toeletta, i capelli lunghi e due serve-segretarie).

Gertrude riserva a Lucia come alle educande e, forse, alla conversa assassinata una serie di sguardi e di intense «carezze» che già in passato sono state interpretate in senso lesbico e che diventano le tappe di un’iniziazione eterodossa per la sua più giovane e inesperta ospite:

la Signora spesso la chiamava in un suo parlatorio privato, avvolto di mezze luci, foderato di morbidi cuscini. La tratteneva a lungo, coprendole di lente carezze gli occhi, i capegli, le mani, indugiandosi a lodare e tastare la bellezza delle sue forme, poi facendole certi ambigui discorsi intorno alla non assoluta indispensabilità del sesso forte, e dandole infine da leggere certi libri clandestini d’iniziazione agli amori più perfetti, che lasciavano la bella montanara con gli occhi pieni di sogno e la fantasia fortemente colpita.

Così, senza discostarsi poi tanto dall’originale manzoniano, recita la parodia dei Promessi sposi (1929) di Guido da Verona. Al di là del sarcasmo e del tono discriminatorio di un testo che comunque osò sfidare la censura fascista, la figura di Gertrude si conferma donna fuori dagli schemi, «donna clitoridea» rispetto alla «vaginale» Lucia e che, in maniera ben più articolata e consapevole, Lonzi spera di veder moltiplicata nel presente. Dietro gli atti controcanonici di suor Gertrude intuiamo il sofferto e malriuscito tentativo di sottrarsi al «prodotto confezionato» per lei e su di lei dal patriarcato e di diventare una donna «diversa», come in seguito la Nora di Amalia Guglielminetti, che si vendicherà con la rivoltella di un maschio sopraffattore, o la Modesta di Goliarda Sapienza, che difenderà l’anarchia e la «tenerezza» dell’amore dalle inibizioni dell’amica socialista Joyce. Della donna «diversa» – scrive ancora Lonzi – «ogni uomo in cuor suo decreta la fine poiché, non arrivando a catalogarla, si sente irritato e impotente di fronte al fatto che la comprensione tra i sessi non è più così limpida. Aiutato in ciò dalla psicoanalisi, […] egli bolla ogni donna non identificata col ruolo attraverso un giudizio sulla sua salute psicosessuale». Di qui, nella letteratura come nella realtà, le monache ninfomani, le isteriche, le donne mascoline, le tribadi, che arricchiscono in negativo il campionario delle sante, delle vergini, delle madri, delle amate idealizzate.

Dopo secoli, le Lucia e le Gertrude continuano a essere educate secondo canoni prevaricatori e colonizzanti, che le trasformano in colpevoli persino quando la legge le ha indicate come vittime. E se non vogliamo che continuino a essere educati secondo canoni prevaricatori e colonizzanti, che poi insegneranno e perpetueranno, anche i don Rodrigo e i don Abbondio, gli Hegel e i Freud, dobbiamo muoverci, tutte e tutti, «su un altro piano». Un piano oggi solidissimo grazie ai sempre più plurali e autocoscienti Soggetti Imprevisti.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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