D: Nel testo definitivo de La buona scuola sono stati mantenuti gli scatti di anzianità, e ci si è limitati introdurre dei “premi” per riconoscere il merito dei docenti (articolo 11): come commenterebbe questa scelta?
R: Il tema è controverso e non solo nel mondo della scuola: che cosa deve essere oggetto di remunerazione nel lavoro di un individuo, in generale? Ci sono le competenze, le abilità, le capacità di risolvere i problemi e poi bisogna riconoscere qual è il ruolo dell’esperienza accumulata: più il mondo accelera meno l’esperienza ha un valore di per sé, anche se comunque continua a essere un aspetto importante.
Con il suo milione di dipendenti e i suoi 10 milioni di utenti, la scuola è probabilmente la più grande organizzazione italiana. La scuola affronta la questione, molto generale, con questo movimento di andata e ritorno rispetto all’abolizione degli scatti di anzianità. Data l’impossibilità di affrontare in questa sede il problema generale (quale ruolo deve avere l’anzianità nella progressione salariale), questa fuga in avanti del progetto della Buona scuola e poi il ritorno indietro agli scatti di merito aggiuntivi, che peraltro nell’ultimo disegno di legge sembrerebbero attribuiti dal dirigente scolastico, è una buona dimostrazione della difficoltà di cambiare quella grande organizzazione che è la scuola italiana.
Con il suo milione di dipendenti, con i suoi 10 milioni di utenti, e dunque con un numero ancora più alto di persone collegate in qualche modo al sistema scolastico, è probabilmente la più grande organizzazione italiana. È governata in modo ancora molto centralistico ed è quindi per certi versi monolitica, nonostante l’autonomia. Ogni cambiamento di questo monolite si rivela nei fatti più difficile di quanto non prevedano a tavolino coloro che si impegnano in disegni di riforma, come si è visto in molti casi.
Il tentativo di abolizione degli scatti di anzianità, giusto o sbagliato che fosse, è un buon esempio di quanto sia difficile introdurre un cambiamento significativo in una struttura molto complessa, e soprattutto molto grande.
D: Ritiene che in Italia sia auspicabile e/o realizzabile un sistema che preveda una carriera strutturata all’interno della professione docente, con passaggi permanenti basati su merito e impegno?
R: Come Fondazione Agnelli riteniamo che sia un cambiamento importante e auspicabile, anche perché accompagnerebbe sensatamente la più grande trasformazione intervenuta nella scuola italiana: fino al ’99 era sostanzialmente un centro di erogazione di un servizio nazionale, uniforme su tutto il territorio; diventata scuola dell’autonomia, si è trasformata in una comunità intelligente, che interpreta non più i programmi ma i curricoli e ha un’offerta formativa differenziata sul territorio.
In conseguenza di questo, si richiede oggi anche un cambiamento del profilo dell’insegnante: se prima il docente era sostanzialmente un erogatore di lezioni frontali tutte uguali, basate sulla necessità di seguire il programma, adesso si richiede alla scuola di essere un’organizzazione complessa, intelligente, che riflette sui propri risultati ed è in grado di offrire alla propria utenza un’offerta formativa originale e dinamica.
In questa situazione, il profilo professionale del docente è più complesso e non è solo contraddistinto da una grande abilità didattica; è richiesta anche una grossa capacità relazionale, di farsi carico del miglioramento dell’istituzione scolastica, e anche una capacità organizzativa. È chiaro che la professionalità docente si sta articolando e modificando, così come la responsabilità del dirigente scolastico tende a crescere enormemente, ed è importante che la scuola si doti di figure che assumano delle responsabilità, tanto sul piano didattico quanto sul quello organizzativo.
Una professione che si strutturi anche come una crescita e non solo come un lento trascorrere di compleanni può essere più stimolante anche per i giovani intraprendenti. D’altra parte, se si pensa ai collaboratori del preside e alle funzioni strumentali, ci si accorge che nelle scuole c’è già un’organizzazione, che però non configura una vera e propria carriera, mancando il requisito della portabilità di questa responsabilità aggiuntiva, nel momento in cui ci si muove da una scuola all’altra.
La cosa che sottolineiamo come Fondazione Agnelli è che la strutturazione della carriera è importante non solo perché risponde alle esigenze della vita quotidiana della scuola autonoma, ma anche perché manderebbe un segnale molto importante a coloro che non sono docenti e che potrebbero avere intenzione di diventarlo se vi vedessero una professione più attraente, da tanti punti di vista: del prestigio, del reddito, della responsabilità.
Una professione che si strutturi anche come una crescita e non solo come un lento trascorrere di compleanni può essere più stimolante anche per i giovani intraprendenti, eventualmente anche con la possibilità, una volta diventati docenti esperti, di assumere le posizioni dirigenziali della scuola, che sono sia la dirigenza scolastica sia la dirigenza tecnica di un eventuale ispettorato ancora tutto da ridefinire.
La risposta alla domanda iniziale quindi è senz’altro affermativa.
D: A Fahrenheit lei ha dichiarato che la valutazione deve essere fatta sulla scuola e sulla squadra dei docenti, non sul singolo docente, per ragioni metodologiche: può spiegarci quali?
R: Qui andiamo un po’ sul tecnico: se siamo d’accordo su una premessa, e cioè che la valutazione nella scuola non possa prescindere dalla qualità degli apprendimenti degli studenti, allora dobbiamo riconoscere che la valutazione basata sulla qualità degli apprendimenti è fallace se non applica una prospettiva di valore aggiunto, o meglio se non si ragiona sui guadagni cognitivi.
Gli apprendimenti infatti sono senz’altro migliori nella scuola che si trova al centro della grande città, o dove si iscrivono le figlie del dottore, mentre in periferia è probabile che gli apprendimenti siano molto meno buoni perché ci sono figli di immigrati o comunque situazioni svantaggiate. La scuola periferica non ha nessuna colpa di questo; semmai bisogna provare, attraverso tecniche statistiche, a verificare se il “trattamento” della scuola è stato positivo o negativo rispetto al trattamento medio.
La valutazione deve tenere conto degli apprendimenti, e gli apprendimenti sono una cosa diversa dai risultati delle prove INVALSI. Si usa allora una tecnica che si chiama “valore aggiunto” che però tende a rilevare differenze statisticamente significative a condizione che le osservazioni siano numerose. In una scuola di trecento allievi si riesce a misurare il livello degli apprendimenti in modo più affidabile rispetto a quanto non si faccia in una singola classe, perché in questo caso il margine di errore statistico è molto più ampio, e c’è il rischio che lo strumento utilizzato non riesca a discriminare correttamente.
Questo era quello che avevo in mente quando a Fahrenheit ho parlato di ragioni metodologiche. Le cose importanti sono comunque che: 1) la valutazione deve tenere conto degli apprendimenti; 2) gli apprendimenti sono una cosa diversa dai risultati delle prove INVALSI. Questi ultimi sono un’approssimazione ma, dati gli strumenti che abbiamo a disposizione al momento, sono la migliore approssimazione degli apprendimenti, perché ci consentono di standardizzare, ossia di fare le stesse domande nello stesso modo su tutto il territorio nazionale, con gli stessi criteri di valutazione.
Non ci basiamo quindi solo sulla valutazione da parte del singolo docente di quella classe, ma abbiamo risultati confrontabili. Non è poi il valore assoluto delle risposte giuste a permettere di dare un giudizio sulla scuola, bensì la differenza tra punteggio in entrata e punteggio in uscita, tenuto conto delle differenze di contesto e di stato sociale dei ragazzi.
Una volta fatte queste premesse, si può dire quindi che esiste la possibilità di valutare la scuola, mentre valutare la singola classe e l’insegnante è tecnicamente molto più difficile.
D: Perché in Italia la valutazione ha sempre incontrato una resistenza così forte da parte dei docenti?
R: In parte perché a nessuno piace essere giudicato sul proprio lavoro, e questa è una reazione umana.
In Italia c’è poi un’aggravante: non sono mai stati esplicitati con chiarezza né i criteri né le finalità della presunta valutazione.
Noi abbiamo un istituto INVALSI che elabora e somministra le prove in modo talvolta anche un po’ invasivo rispetto alla normale attività delle scuole; non si è mai chiarito molto bene che cosa si voglia fare, motivo per cui all’inizio le scuole si sono molto spaventate, a turno i docenti si sono compattati contro.
Non c’è chiarezza né sui criteri né sulla finalità della valutazione, è inevitabile che la diffidenza naturale di cui parlavo prima venga accresciuta. Si genera così un’ostilità preventiva, che non fa bene alla capacità di un sistema di valutazione di generare miglioramento.
D: Nel rapporto sulla valutazione (2014) affermate che senza valutazione “esterna” non c’è vera valutazione; secondo voi il Sistema nazionale di valutazione in atto si concentra sufficientemente su questo aspetto? I risultati forniti saranno realmente affidabili/utili?
R: Si può affermare un po’ salomonicamente che nella guerra tra Oriazi e Curiazi, ossia tra sostenitori dell’autovalutazione da un lato e della valutazione esterna dall’altro in realtà non ha ragione nessuno, perché le due dimensioni della valutazione della scuola devono sapere convivere.
L’autovalutazione da sola è ovviamente un esercizio del tutto autoreferenziale, che generalmente scivola verso l’autocompiacimento, o meglio verso una conclusione che è lo specchio della condizione psicologica delle persone che vi partecipano: se sono più depresse, scivolerà verso una condizione di autocommiserazione, se sono più ottimiste saranno invece portate a considerare la propria scuola di appartenenza la migliore del mondo.
Anche la valutazione esterna, tuttavia, se fatta solo con una logica ispettiva di premi e punizioni, non ha la capacità di generare quel cambiamento che la scuola ama chiamare “miglioramento”, perché alla fin fine, se quello che ci interessa è la crescita dei ragazzi, questa non la si può determinare per decreto, o con una pagella alla scuola; bisogna che anche a partire da quella pagella che la scuola riceve si generi un processo intelligente di riflessione sui propri punti di forza e di debolezza, che si traduce in azioni quotidiane, nelle classi, con gli studenti e nei collegi dei docenti. Questo è molto vicino a quello che i sostenitori dell’autovalutazione chiamano per l’appunto “autovalutazione”.
Quindi l’equilibrio difficile da trovare è un circuito virtuoso tra comunità intelligenti che sanno riflettere su sé stesse, e hanno il coraggio di cambiare, e un sistema che, senza essere troppo invasivo, permetta a queste riflessioni isolate di non essere autocompiacimento, ma porti a uno scambio e stimoli al cambiamento laddove questi sono più necessari. Questo è l’equilibrio difficile da trovare; il Sistema nazionale di Valutazione, che nasce con il DPR 80 – e che oggi sembra essere messo in crisi dall’esistenza di un disegno di legge sulla Buona scuola che lo considera quasi transitorio –, ha deciso per il primo anno scolastico, quello in corso, di puntare tutto sull’autovalutazione.
Purtroppo sappiamo che questa scelta è stata fatta per mancanza di risorse interne: l’autovalutazione non costa niente, la valutazione esterna invece costa, soprattutto nel momento in cui prevede delle visite ispettive; uno dei problemi in Italia è che non abbiamo né un organico di ispettori, o meglio dirigenti tecnici, né osservatori delle scuole in grado di sopportare un carico di lavoro distribuito su 8500 istituzioni scolastiche più il sistema delle paritarie.
Il sistema di valutazione infatti è nazionale, quindi chi ha il riconoscimento della parità deve sottostare alle stesse regole di valutazione delle scuole statali. Ora, con le poche decine di dirigenti tecnici che abbiamo a disposizione, e una manciata di osservatori, peraltro formati in modo molto occasionale, non si riesce a fare questo. Infatti è previsto un sistema di estrazione a sorte del 3% più un altro 7% di scuole: 10%, ossia una scuola ha una probabilità di essere visitata una volta ogni 10 anni.
Questo non è esattamente il tipo di valutazione esterna tale da poter ingenerare un miglioramento, tenendo poi presente che i docenti cambiano scuola in media più rapidamente rispetto ai 10 anni, quindi vi è anche un effetto di deresponsabilizzazione sul lungo periodo.
Quindi, non voglio dire che il DPR 80 sia partito con il piede sbagliato, ma è partito nella direzione più facile. La fertilizzazione reciproca tra autovalutazione e valutazione esterna è tutta rinviata al secondo anno, in cui dovrebbero iniziare le visite ispettive.
D: Quale uso ritiene sarà fatto dei dati raccolti dal Sistema di Valutazione nazionale?
R: Attualmente nelle scuole si discute molto su come scrivere il RAV (Rapporto di autovalutazione); la nostra preoccupazione è che il dibattito, l’impegno, la fatica degli attori della scuola si concentri sulla scrittura del RAV e nessuno si ponga il problema della lettura del RAV.
Noi avremo dei rapporti di autovalutazione, se fatti bene, molto complessi, anche perché, tra l’altro, le istituzioni scolastiche sono diventate molto grosse a seguito del dimensionamento e sovente hanno al loro interno anime diverse: gli istituti comprensivi mettono insieme infanzia, primaria e medie, gli istituti superiori possono avere al loro interno un classico, uno scientifico, un tecnico o un professionale, e un rapporto di autovalutazione serio non può non tener conto dei diversi problemi che possono nascere ai diversi ordini e gradi; ad esempio, nel momento in cui si parla di orientamento è chiaro che è diverso se viene fatto al Classico o al Professionale. Ma ci può essere appunto l’istituto che contiene diverse anime, e un rapporto di valutazione dovrebbe essere in grado di distinguere queste anime.
L’autovalutazione non nasce quest’anno per volere del ministero e dell’INVALSI, ma esiste da tempo. Quindi i dati arriveranno da un grosso numero di scuole: chi leggerà, confronterà, valuterà la congruenza dei piani di miglioramento che nascono all’interno dei rapporti di autovalutazione? È un impegno enorme, che richiede professionalità e anche molte persone che ci sappiano lavorare. Questo al momento suscita qualche timore. Non basterà la pubblicazione su un portale, perché l’informazione per essere realmente preziosa ha bisogno di essere interpretata, elaborata, e questo è un problema non da poco.
Per rispondere alla domanda iniziale quindi: è sempre bene che i dati siano raccolti, però deve poi esserci un momento di sintesi regionale, nazionale e al momento siamo curiosi di vedere come sarà svolta.
Aggiungo un’ultima considerazione: l’enfasi posta quest’anno sull’autovalutazione apre due ordini di problemi: il primo è che l’autovalutazione non nasce quest’anno per volere del ministero e dell’INVALSI, ma esiste da tempo. Uno schema come quello proposto dal Rapporto di autovalutazione e dai vari questionari rischia di essere soffocante per le migliori esperienze di autovalutazione che già esistono e che sovente sono in rete. In Piemonte abbiamo ad esempio la rete delle scuole AVIMES.
Queste scuole si trovano di fronte a due set di strumenti autovalutativi. I propri, magari messi a punto in anni di attività, adattati alle caratteristiche specifiche di quelle scuole, e un set che viene loro proposto dall’INVALSI e che in qualche modo entra in competizione. Paradossalmente, le esperienze migliori di autovalutazione sono in questo momento minacciate dall’esistenza di un set pensato a tavolino, testato, ma che è una media dei possibili approcci autovalutativi, ed è perciò lo stesso da Ragusa a Ivrea. Questo può generare conflitti o difficoltà.
Il secondo problema è poi che ci sono delle scuole che sono fortemente indolenti e non hanno mai fatto autovalutazione, perché la hanno sempre ritenuta un’inopportuna perdita di tempo. Quanto queste scuole potranno realmente essere attivate da una proposta come quella fatta dal ministero e dall’INVALSI? Lo dico un po’ come battuta, ma in un convegno ho sentito dire che si sta creando un sottobosco di consulenti che per cento euro compilano il RAV delle scuole. Chiaramente le scuole che si fanno idealmente compilare il RAV da un consulente non sono in grado di partecipare proficuamente al circuito virtuoso un po’ ingenuamente immaginato dal DPR 80.
D: Lei ha detto che la valutazione delle scuole ha un fine, quello della crescita dei ragazzi, è corretto?
R: La valutazione delle scuole ha un fine che non può essere diverso dal fine ultimo dell’esistenza del sistema scolastico o di istruzione nazionale. La valutazione non può produrre degli obiettivi diversi da quelli che sono statuiti, condivisi, normati per il sistema.
Di più: ogni idea di scuola implica un tipo di valutazione. Quindi alla domanda: «qual è l’obiettivo della valutazione oggi in Italia?» possiamo rispondere solo se abbiamo chiaro verso dove vogliamo far tendere la scuola italiana. C’è chi dice che l’unica cosa che conta sono gli apprendimenti, chi dice il benessere dei ragazzi, chi dice preparare dei lavoratori tosti per le sfide del XXI secolo.
Ogni idea di scuola implica un tipo di valutazione. Per noi la scuola non può che avere una molteplicità di obiettivi: si pensi a quanto importante è l’inclusione dei ragazzi con disabilità, che non è tuttavia allineabile all’obiettivo dei migliori apprendimenti. Una volta però che si sia deciso a livello di collettività qual è l’obiettivo della scuola, e solo a quel punto, si può passare a una riflessione tecnica sulle migliori strumentazioni valutative in grado di orientare e sospingere la scuola nella direzione auspicata. Le prove INVALSI, che insistono su apprendimenti in italiano e matematica, sono coerenti con l’idea che tra le competenze di base indispensabili per un cittadino e un lavoratore di domani vi siano la capacità di padroneggiare la lingua italiana e la capacità di logica anche matematica.
Da questo punto di vista quindi lo strumento di valutazione è coerente con l’idea di scuola che si ha.
D: Che idea di scuola ha chi analizza il successo universitario per valutare le scuole superiori?
R: Noi viviamo in un sistema in cui la formazione iniziale degli individui, l’unica che al momento funziona in Italia, è artificialmente spezzata in due: una cosa si chiama “scuola”, l’altra “università”. Forse questo era sensato quando solo il 10% della popolazione finiva l’università.
Ora che auspicabilmente il 50% circa dei ragazzi completa gli studi (anche in termini di raggiungimento di una laurea triennale), questa divisione artificiale andrebbe superata, sebbene per quanto riguarda sia lo status sociale dei docenti sia il grado di proattività richiesto agli studenti, le differenze siano ancora moltissime. Vedere quante scuole superiori sono in grado di garantire il successo dei diplomati da secondaria a terziaria ci sembra il modo migliore di cercare di rimuovere quella barriera artificiale.
Che ci sia continuità in questa costruzione di una carriera e di una base solida per il resto della vita è l’idea che sta a monte di una forma di valutazione/orientamento che guarda al passaggio da scuola a università come un passaggio sempre più frequente e auspicabilmente fluido.
D: Lei sa, vero, che in assenza di un sistema di valutazione ponderato vince la valutazione che si fa “dal parrucchiere” (cioè basata sulla chiacchiera e sul passaparola)?
R: Questa è una delle cose che andiamo ripetendo nelle nostre conferenze: attenzione perché la scelta di una classe o di una scuola, in assenza di un sistema di valutazione serio e trasparente, se ieri si faceva con il modello della parrucchiera, oggi si fa con il modello Tripadvisor: l’effetto è moltiplicato per cento nell’epoca di internet. Le scuole e la loro nomea sono finite nel frullatore. Grazie alla potenza dei social network e di internet in generale la gestione dell’immagine delle scuole rischia di sfuggire agli stessi attori scolastici (dirigente e corpo docente). Basta un gruppo di pressione a far diventare di colpo la scuola “buona” o “cattiva”.
Questo è un ulteriore motivo per desiderare un sistema serio e affidabile di valutazione nazionale.