La scomparsa del corpo di Dio

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In “Anatomia di Dio” di Stavrakopoulou (Bollati&Boringhieri) si riflette sulla rappresentazione corporea del Dio biblico subisca un lento smaterializzarsi per consegnare alla modernità l’idea di un Dio disincarnato.

1. La storia del cristianesimo ha come sua massima evidenza, come sua prova, l’assenza di un corpo; non è casuale che il più antico reperto testimoniale, il vangelo di Marco, si concluda – in origine – con una tomba vuota priva delle spoglie di Cristo e che nel vangelo di Giovanni, Pietro e Giovanni accorrano al sepolcro, arrivati alla tomba la trovino vuota e – proprio a causa di questo spazio e di questa assenza – «videro e credettero». Anche le apparizioni successive di Cristo sono un tentativo narrativo di dare maggiore forzar questa assenza (l’episodio di Emmaus e la tristezza nel cuore dei discepoli, è un valido esempio); infine questo spazio concretamente vuoto che Gesù lascia nel sepolcro, è lo spazio “vacuo” che porta Paolo, negli Atti degli Apostoli, a rivolgersi agli ateniesi nell’Areopago parlando di questo Dio ignoto, che infine è resuscitato dai morti.

Eppure, anche nelle parole di Paolo c’è una notazione potrebbe sfuggirci data la forza retorica con cui è condotta l’orazione, ma che è degna di nota: «non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana». Anche Paolo, per quanto annunci con certezza la venuta del Dio vero, lo descrive tramite una antifrasi, ovvero per evidenziando ciò che Dio non è; un processo narrativo simile a quello del redattore del vangelo di Marco, che annuncia il fatto che Gesù sia il messia tramite l’immagine di una tomba vuota.

2. La Bibbia, la storia che viene raccontata nei suoi libri, è se vogliamo una progressiva opera di scomparsa del corpo di Dio. Il Dio che cammina sulle acque primordiali, che passeggia nel giardino dell’Eden, che si inquieta e si agita chiedendo ad Adamo “Dove sei?” alla fine è letteralmente scomparso, lasciando spazio a un’idea incorporea e trascendente. È questa, di certo, qui semplificata, la tesi che è sottesa al libro di Francesca Stavrakopoulou, pubblicato da Bollati&Boringhieri, dal titolo Anatomia di Dio (trad. Leonardo Ambasciano).
Nel saggio, guardando ora alla filologia biblica ora all’antropologia religiosa, alla storia delle religioni, la biblista inglese ricostruisce il corpo di Dio, il corpo del Dio biblico così come si è sviluppato nei secoli e così come lentamente prende forma nel racconto dell’Antico Testamento. Per gli antichi abitanti della terra di Israele, Dio, o i “Dio” (anche il passaggio dal politeismo al monoteismo è descritto con molta cura e come un percorso profondamente avvincente dalla Stavrakopoulou), era dotato di un corpo, simile a quell’umano o, meglio, riprendendo il dettato biblico, l’uomo aveva un corpo a immagine e somiglianza di Dio: quindi, se quindi l’uomo aveva braccia, gambe, mani, testa, collo, busto, cosce e sesso, così Dio doveva avere in misura simile, ma non uguale (è per sempre un essere superiore!) le stesse parti del corpo. Molti sarebbero le immagini e le tematiche, sui cui varrebbe la pena confrontarsi, ma valgano i due esempi di seguito.

2.1 Il primo è legato ai piedi: l’autrice ci racconta (e ci mostra il libro è corredato da un ottimo apparato iconografico) l’immagine di un’impronta di piedi in un tempio, piedi troppo grandi e disposti in un modo tale che non possano essere scambiati per l’immagine dei piedi del pellegrino; questi sono – appunto – i piedi del Dio che sosta nel suo tempio e accoglie i visitatori; essi colpiscono perché ricordano appunto la descrizione della Genesi con Dio che si muove angosciato nella solitudine del cosmo, circondato dal nulla, con i piedi poggiati sulle acque. Ecco quegli stessi piedi, un ignoto scultore, li ha immaginati e scolpiti come se fossero un’orma, perché Dio è comunque una lacuna, uno luogo in cui è accaduto qualcosa, ma in cui l’uomo giunge sempre in ritardo, quando tutto è finito: ancora una volta quindi il corpo di Dio si dà nella sua assenza, nell’impronta che lascia il suo passaggio; il libro di Stavrakopoulou è un libro che narra il passaggio di Dio, il suo essere stato sulla terra in corpo, il suo essere stato percepito e immaginato dagli scrittori sacri come corpo e il suo progressivo spogliarsi e diminuire, come se la kenosi che Paolo annuncia nella lettera ai cristiani di Filippi, in cui Cristo rinuncia alla sua natura divina per umiliarsi nella forma umana e nella morte, fosse l’ultimo segnale di presenza corporea di Dio.

2.2 Il secondo esempio è legato al sesso di Dio. Perché se l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e l’uomo ha un sesso anche Dio deve averlo. L’autrice scrive: «Eppure, quando leggevo i vari libri che compongono la Bibbia, non riuscivo a trovarci questo ipotetico Dio senza corpo. Al contrario, quei testi antichi evocavano un’immagine sorprendentemente carnale di Dio come una divinità dalle sembianze umane […]. Un dio che era soprattutto un maschio». Negli anni la teologia femminista, lo conferma anche il saggio, ha studiato e approfondito questo problema del sesso di Dio, nel senso di genere, ma la soluzione, come Stavrakopoulou sostiene, è stata quella di contribuire ancora di più alla dis-incarnazione e perdita del corpo del Dio della Bibbia: Dio non ha sesso, non ha genere. Eppure la Bibbia è ricolma di immagini che parlano del sesso di Dio. Ad esempio Anatomia di Dio si sofferma sull’immagine dell’arco che è il modo con cui anticamente si rappresentava il pene di Dio e la sua potenza generatrice. Nei profeti, questa immagine del Dio sessuato diventa centrale; a essere espliciti sono poi gli atteggiamenti di Dio che seduttore e violento, come in Geremia, come in Ezechiele e Osea. Un Dio che violenta, stupra, che usa la sua prestanza fisica e la sua virilità per costringere ad esempio Geremia a profetizzare per lui. Nel libro omonimo leggiamo che il profeta è stato “sedotto” da Dio, il termine sedotto, però, è in questo caso una traduzione alquanto eufemistica dell’atto che Dio compie nei confronti del suo servo: il termine indica più un adescamento sessuale che una seduzione amorosa; in più, c’è una dose di violenza sessuale, di sopraffazione, che la traduzione volutamente dimentica. Dio è maschio, e usa il sesso, la violenza; è questa una immagine da cui non è possibile prescindere; sono le radici della nostra cultura, che spesso tendiamo a dimenticare o a relegare ad atteggiamenti primitivi, privilegiando la bontà divina e dimenticando che l’opera di Dio, che nella Bibbia è segnata da un perenne persistenza fisica di Dio nella storia, è anche violenza, sopruso sopraffazione; certo Dio ama il suo popolo, ma è anche violento.

3. Durante la lettura di Anatomia di Dio viene più volte da chiedersi che tipo di immagine abbiamo ora noi occidentali, colti, razionali, benestanti e moderni di Dio; è una interrogazione semplice e, nello stesso tempo, abissale. Almeno dal Seicento (la rottura profonda potrebbe essere dovuta da un attacco da due diversi fronti: da una parte Spinoza con la sua Etica e dall’altra da Cartesio con il suo Discorso sul metodo), l’Occidente ha fatto in modo che il Dio della Bibbia e il Dio dell’Occidente fossero due entità distinte; la seconda delle quali, come dice bene l’autrice, è «un essere ibrido post-biblico, un intelligenza artificiale incorporea pre-scientifica e assemblata nel corso di più di duemila anni a partire da rottami scelti all’interno delle correnti mistiche del giudaismo, della filosofia greca, della dottrina cristiana, dell’iconoclastia protestante e del colonialismo europeo». Un Dio che è tutto tranne che un corpo, che è tutto tranne che quello narrato dalla Bibbia; un Dio appunto che lentamente sparisce dall’orizzonte per diventare puro spirito, sostanza semplice (Dio è “substantia seu natura simplex/una natura o una sostanza semplice”), come se fosse destinato a non esserci.

La lettura di Anatomia di Dio diventa, quindi, il referto di una autopsia, e non è casuale che così si intitoli il finale del libro: in queste dense ultime pagine, Stavrakopoulou analizza il corpo di Dio, da lei ricostruito nel libro, come se fosse su di un tavolo autoptico in attesa che venga il becchino per la sepoltura definitiva. Nel leggere queste pagine rimaniamo colpiti, e ci ritornano alla mente quelle stupende di Dostoevskij ne L’idiota in particolare quelle in cui descrive il Cristo morto di Holbein come un quadro che potrebbe portare chiunque a perdere la fede.

4. Questo corpo di Dio che scompare ha, o così almeno pare a chi scrive, un contrappeso non indifferente nella costruzione filosofica dell’idea di corpo dell’uomo; come se l’affievolirsi del corpo di Dio, il suo perdere importanza, avesse prodotto, come reazione uguale e contraria, la centralità del corpo umano. È interessante, in questo percorso, la lettura de Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona (Neri Pozza) di Paolo Godani; in questo libro si tratteggia una sorta di storia del corpo dell’uomo, sottolineandone proprio la centralità che il cristianesimo dà rispetto alla cultura greca. Il corpo dell’uomo diventa centrale, perché riguarda il mistero dell’incarnazione di Cristo, con la sua morte e con la sua resurrezione: paradossalmente ciò che ha prodotto lo svuotamento del corpo del Dio biblico ha creato l’idea della centralità del corpo umano e della carne, della sua materialità: «È curioso, allora, non solo che i cristiani abbiano portato ai canachi non lo spirito, ma il corpo, bensì, ancora, che la coscienza di sé, l’io e la persona, di cui i cristiani si vantano come della loro più nobile conquista, coincida del tutto con la carne che vive nei limiti visibili del corpo».

La persona umana è il proprio corpo e la propria carne, e quindi, solo da questa prospettiva, si può leggere l’affermazione di Tertulliano: Caro cardo salutis est, “la carne è il cardine della salvezza”. La salvezza passa dalla carne, passa dal fatto che Dio si incarni, che Dio si disfaccia nella morte e che noi uomini teniamo in noi con l’eucarestia, che a nostra volta ci disfacciamo nel nostro morire in attesa della resurrezione.

5. Con Anatomia di Dio e con Il corpo e il cosmo, il corpo – appunto – torna essere un topos teologico, un luogo in cui in qualche modo si discute di Dio, ci si interroga su questa realtà ultima e finale delle cose terrestri. Infine, quindi, la riflessione di Stavrakopoulou si chiude con un’immagine vorrei riportare e che vorrei tentare di commentare, problematicamente:

L’idea cristiana di Dio come di un essere trascendente, invisibile e incorporeo non è che una rifrazione distorta, e non un riflesso, dell’immagine biblica di Dio. Il Dio reale della Bibbia […] aveva modellato gli esseri umani secondo le forme degli dèi a partire dall’argilla e aveva insufflato la vita attraverso le loro radici. Era un dio che piangeva, parlava, dormiva e che teneva il broncio. Un dio che provava emozioni, combatteva, amava e veniva sconfitto. […]. Un dio che rispecchiava il meglio e il peggio di noi. Un dio fatto a nostra immagine e somiglianza.

Il Dio dell’Occidente cristiano è svuotato, un Dio divenuto sempre più una funzione etica, una sorta di energia indistinta che fa girare il mondo. Forse per opporsi a tutto questo, potrebbe essere necessario leggere la Bibbia con gli stessi occhi dell’autrice e con – in più – la vecchia fede dell’israelita (Quinzio, Commento alla Bibbia)? Se insomma si tornasse a vedere nella Bibbia non solo un testo narrativo, ma anche un testo di fede? Cosa accadrebbe se ciò avvenisse? Se si chiedesse a Dio, al Dio incarnato, gigante e levantino della Bibbia, ragione delle sue promesse, soprattutto di quelle mancate?

6. C’è, nel Vangelo di Luca, un’immagine del Paradiso che rispetto a quelle di Dante suona piccola, quotidiana e banale. C’è da aggiungere che Dante più di altri è riuscito nell’impresa di descriverci un Dio che si scorpora, che si fa astrazione come un quadro di Kandinskij, tutto linee, cerchi e quadrati, ma Luca nel suo vangelo ci mostra una immagine del Paradiso, del sommo bene, diversa da quella di Dante, che a qualcuno potrebbe risultare metaforica o speciem narrativa, ma che seguendo Quinzio e il suo commento alla Bibbia potremmo di sforzarci di leggere come concreta e vera. «[Dio] si cingerà le sue vesti, li [gli uomini] farà mettere tavola e passerà a servirli»: così scrive Luca al capitolo 12, versetto 37. Certo, potremmo leggere questa piccola profezia, come una parabola, Luca stesso ce la presenta così, ma agli occhi del vecchio israelita abituato a vedere Dio come corpo, carne, come qualcosa di fisicamente reale questa promessa di salvezza suona come concreta. Verrà un tempo in cui i corpi dei morti torneranno in vita, in cui il corpo di Dio tornerà in vita e insieme uomini e Dio siederanno a tavola e mangeranno insieme.

È vero: questa immagine, questa fantasia, questo atto di fede è irrazionale, folle, degno di scherno – non è casuale che quando nel suo discorso all’Areopago Paolo accenna alla resurrezione dei morti, la gente lo prenda in giro e se ne vada –, ma è questo scandalo corporale che il libro di Stavrakopoulou, forse involontariamente, riporta in evidenza: lo scandalo di un corpo presente, ingombrante, enorme che via via scompare dall’arco della storia e che forse, chissà, la fede è sostanza di cose sperate non di “cose certe”, un giorno ricomparirà per imbandire una tavolata così da poter mangiare insieme, finalmente.

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Demetrio Paolin

vive e lavora Torino. Collabora con il «Corriere della sera». Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2016 è stato tra i 12 finalisti del premio Strega con il romanzo “Conforme alla gloria” (Voland). Il suo ultimo libro è “Anatomia di un profeta” (Voland).

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