La rivincita di ser Brunetto

Tempo di lettura stimato: 12 minuti
Dante incontra Brunetto Latini nel settimo cerchio dell’Inferno: che cosa lo ha spinto a condannare in maniera tanto impietosa il suo antico maestro?

Quando si arriva a leggere (se lo si legge) il canto XV dell’Inferno, si prova un senso di straniamento. Dopo aver descritto gli argini del settimo cerchio e averli paragonati a quelli delle città fiamminghe e venete, Dante, facendo il nome del peccatore anziché del peccato – contrariamente al detto –, incontra l’uomo che considerava al pari di un padre. Un’anima, da una posizione più bassa, dove sta scontando la pena della pioggia di fuoco, tira il pellegrino per il lembo della veste, per la giacchetta, ed esclama: «Qual maraviglia!» (v. 24).

È buio pesto, il dannato è sfigurato e Dante deve fissarlo ben bene prima di riconoscerlo, accarezzarlo e prorompere in una domanda retorica che, visto il luogo, ha il sapore dell’outing: «Siete voi qui, ser Brunetto?» (v. 30). Sì, è proprio «qui», sotto Dante, che nella sua consueta, meravigliosa arroganza, spodesta tutti coloro che aveva amato, dal suo «primo amico» Guido Cavalcanti a, ora, «la cara e buona imagine paterna» del suo maestro (v. 83).
In una Firenze che, a parte le scuole elementari religiose e l’avviamento alla mercatura, non poteva vantare un’università per futuri letterati, Brunetto, «ser» in quanto notaio, magistrato, uomo di mondo, gli aveva dato accesso a un’immensa cultura ed esperienza (era stato tra l’altro in Spagna, dove era entrato in contatto con i testi della tradizione araba).
Esule, di parte guelfa, priore, proprio come Dante, Brunetto (che non aveva una vera scuola) è stato anche un modello letterario, avendo scritto gli enciclopedici Livres dou Tresor, in francese, che qualche studioso ha ritenuto il vero peccato «contro natura» qui punito, il non aver cioè assecondato la lingua materna, il fiorentino.

I commenti antichi sono invece concordi nel definire il peccato di Brunetto con quell’espressione che, da pratica «contro natura» (in quanto non generativa e accessibile sia a uomini sia a donne), aveva finito per identificare l’orientamento sessuale: «sodomia» (dalla città biblica di Sodoma, citata nel canto XI).
Si trattava di una casistica variegata di peccatori, all’interno della sfera della lussuria, che il chiosatore Giovanni Boccaccio, con piglio parascientifico, riconduce a quattro tipologie:

Commettesi adunque questo peccato (1) quando due d’un medesimo sesso a ciò si convengono, sì come due uomini, e similmente (2) quando due femine; il che sovente avviene, e, secondo che alcuni vogliono, esse primieramente peccarono in questo vizio e da lor poi divenne agli uomini. Commettesi ancora (3) quando l’uomo e la femina, eziandio la propia moglie col marito, meno che onestamente e secondo la ordinaria regola della natura e ancora delle leggi canoniche, si congiungono insieme. Commettesi ancora (4) quando con alcuno animal bruto o l’uomo o la femina si pone; la qual cosa non solamente a Dio, ma ancora agli scellerati uomini è abominevolissima. E però dobbiam credere che, secondo che in questo più e men gravemente si pecca, così i peccatori dalla divina giustizia essere più e men gravemente puniti e distintamente» (Esposizione litterale, canto XV).

La «distinzione» di questi innominabili peccatori in vari gruppi è in effetti rappresentata da Dante sia nell’Inferno sia sulla cima del Purgatorio (canto XXVI), dove tra gli esempi portati c’è da un lato quello di Sodoma e Gomorra (i casi 1-2-3 di Boccaccio), dall’altro quello di Pasifae invaghitasi di un toro (caso 4, la zooerastia).
Insomma, nella mentalità dell’epoca tutto rientrava in un perimetro di perversione che negava la funzione procreativa del sesso. E tanto per cambiare, secondo il (filogino?) Boccaccio, furono le donne a peccare per prime, a erudire gli uomini, ovvero è stata una sorta di Eva lesbica a insegnare al suo Adamo i piaceri dell’amore gay («esse primieramente peccarono in questo vizio e da lor poi divenne agli uomini»).

Dietro questa condanna c’erano non trascurabili conseguenze politiche e giuridiche, oltre che la censura sociale: collegi appositi di magistrati vigilavano sulla «onestà», ovvero sulla moralità sessuale della cittadinanza, e denunce per «sodomia» giungevano spesso sui banchi dei tribunali, a carico di uomini e di donne – li hanno studiati Guido Ruggiero per Venezia e Umberto Grassi per Lucca –, anche se risultava difficile e imbarazzante dimostrarne la fondatezza e portare le prove (vi fu invischiato, nella Firenze del Quattrocento, Leonardo da Vinci con molti altri).
I predicatori come Girolamo Savonarola e Bernardino da Siena tuonavano contro quella che Curzio Malaparte avrebbe definito «l’internazionale degli invertiti», la famigerata lobby gay di tante propagande, che aveva eletto Firenze, la Toscana, l’Italia a propria sede.

Il caso di ser Brunetto è eclatante perché, se non fosse per la Commedia, non ne sapremmo nulla. Brunetto aveva tre figli e l’unico testo da cui forse si intuisce un affaire omosessuale è la canzonetta «S’eo son distretto inamoratamente», indirizzata al poeta Bondie Dietaiuti. In essa Brunetto lamenta di aver ricevuto una ferita d’amore che soltanto lo stesso feritore sarà in grado, con la sua affettuosa presenza, di sanare; per questo, si dice disposto a tornare dall’amato come il cervo colpito torna dal cacciatore per morire davanti a lui.

Nel canto XV dell’Inferno, ser Brunetto dialoga con il pellegrino, alla presenza di Virgilio, isolandosi dalla «greggia» o «masnada» degli altri peccatori, tutti chierici e letterati «di gran fama» (v. 107). La scena che si compone a questo punto nel girone infernale è stata immortalata dal miniatore del manoscritto Yates Thompson 36 (dal nome, anzi cognomi del suo ultimo possessore, la cui moglie, Elisabeth Murray Smith, lo donò poi al British Museum, oggi British Library di Londra).
Dopo vari tentativi di identificazione, l’artista è presentato preferibilmente come Maestro della Commedia Yates Thompson: costui dipinse le miniature per il codice dell’intera Commedia allestito, negli anni Quaranta del Quattrocento, per la biblioteca napoletana di Alfonso V d’Aragona.

Maestro della Commedia Yates Thompson, Virgilio, Dante, Brunetto Latini e un gruppo di chiercuti (Inferno XV), miniatura del manoscritto Yates Thompson 36, foglio 27r (Londra, The British Library).

Nella miniatura, gli episodi del canto sono distribuiti in tre sezioni: a sinistra un dannato tira Dante «per lo lembo», accanto a Virgilio; al centro Brunetto e Dante dialogano; a destra Virgilio con le mani in alto inorridisce davanti a un nutrito gruppo di chiercuti. A parte qualche forzatura (il paesaggio non corrisponde esattamente a quello descritto da Dante, che qui procede allo stesso livello dei dannati), colpisce della miniatura la figura a sinistra: chi è il baldo giovane che tocca Dante, atletico, biondo, ricciuto (e non chiercuto)? Sicuramente non Brunetto, nemmeno un Brunetto iunior, che, dopo pochi secondi, si trasformerebbe in un Brunetto senior, quello che Dante conobbe e frequentò, essendo più giovane di lui di ben 45 anni.
Un’ipotesi sarebbe postulare un errore del miniatore, ingannato forse da qualche indicazione a lui indirizzata oppure da una lettura veloce del verso 23 («fui conosciuto da un, che mi prese», attribuito a un dannato qualsiasi, anziché già a ser Brunetto, successivamente identificato come tale). A prescindere dalla genesi della svista (il canto non nomina in apertura un altro dannato così ben caratterizzato), la scena che si crea nella metà sinistra della miniatura presenta un gruppo di sei illustrissimi dalle intriganti simmetrie: due volte Dante, due volte Virgilio, due volte un «sodomita» (Brunetto e l’innominato). Possiamo però dividere il gruppo per due, anziché per tre: avremo così da un lato i due Virgilio e un unico ser Brunetto, straordinariamente somiglianti nel loro ruolo di maestri e autori, dall’altro i due Dante e il giovane misterioso, che si guardano, imberbi, con quella intensità resa necessaria dal buio.
Tale divisione di ruoli, in un girone così fatalmente compromettente per letterati come Brunetto ma anche come Dante e Virgilio, rispecchia quell’immagine del rapporto omosessuale maschile che risale alla pederastia greca (da non confondere, come ancora qualche improvvido/a fa, con parole ben più deprecabili). Secondo i dialoghi platonici, la coppia era formata dall’amante, più maturo e raffigurato barbuto, e dall’amato, più giovane e glabro. Ritroviamo questo modello nel Simposio di Platone, con l’elogio di Socrate da parte di Alcibiade, o nel gruppo dei Tirannicidi Armodio e Aristogitone, coinvolti nell’assassinio di Ipparco, sempre ad Atene, per questioni d’amore prima che di scienza politica.


I tirannicidi, copia romana (II sec. d.C.) dell’originale greco di Crizio e Nesiote (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).

È lo stesso rapporto riflesso nel mito di Ganimede, al netto ovviamente della violenza del ratto divino: Zeus si invaghisce del giovane pastore e lo rapisce in forma di aquila per condurlo in volo sull’Olimpo. Il mito, fissato da Michelangelo Buonarroti in un disegno per Tommaso Cavalieri (altro che amore neoplatonico!), era noto a Dante, tanto che il poeta lo cita, riferendolo a sé stesso, nel canto IX del Purgatorio (vv. 19-24).

Dunque Dante si ritrova, suo malgrado, coinvolto in un peccato che, denunciato, si ritorceva sia contro l’accusato sia contro l’accusatore, come ha acutamente rilevato Tommaso Giartosio. Costringere ser Brunetto all’outing metteva Dante sul suo stesso piano, come si vede nella miniatura, in cui il bel biondo non solo lo attira nel proprio girone, a temperature da sauna, ma lo fissa come in uno specchio.
Il giovane dal «cotto aspetto», su cui, più che sugli altri, piove fuoco al posto dello Spirito Santo, sembra il ritratto rovesciato di Dante, il suo Dorian Gray, che il poeta-artista deve decidersi a nascondere in soffitta per non rimanere anche lui «bruciato». Un commentatore, del resto, l’Anonimo fiorentino, definisce ser Brunetto non maestro, ma «singulare amico dell’Auttore», insinuando un rapporto che dal discepolato poteva sconfinare, quanto meno secondo la vox populi vox Dei, in altri territori. E Dante infatti rimuove il suo antico maestro, relegandolo tra i pederasti a cui la fama popolare associava chiercuti e letterati.

Non è un caso che, quando per la prima volta compare in letteratura la parola «umanista», ciò avviene in un contesto di pura omofobia, e nello stesso metro della Commedia, le terzine: testimone la sesta satira di Ludovico Ariosto, indirizzata a Pietro Bembo (vv. 25-33), due letterati che evidentemente si sentivano tra quei «pochi» immuni da ogni «vizio» per poterne ridere:

Senza quel vizio son pochi umanisti
che fe’ a Dio forza, non che persüase,
di far Gomorra e i suoi vicini tristi:

mandò fuoco da ciel, ch’uomini e case
tutto consumpse; et ebbe tempo a pena
Lot a fugir, ma la moglier rimase.

Ride il volgo, se sente un ch’abbia vena
di poesia, e poi dice: – È gran periglio
a dormir seco e volgierli la schiena. –

Oggi sappiamo che la pederastia non era la sola forma di sessualità praticata dagli uomini gay del Rinascimento, come testimonia una ricca serie di capitoli burleschi dedicati a uova, pesche, anguille, che dietro gustose simbologie esaltavano gruppi, situazioni, orientamenti non conformi (si vedano Il primo e Il secondo libro dell’opere burlesche di M. Francesco Berni, di M. Gio. Della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, dei Molza, del Dolce, e del Firenzuola, 1548 e 1555). Prima che il concilio di Trento e l’Indice dei libri proibiti (pubblicato per la prima volta nel 1559) riducessero drasticamente gli spazi di libertà degli scrittori, era possibile imbattersi in opere come i Sonetti (1555, parte prima) di Benedetto Varchi per l’amato Lorenzo Lenzi, per l’occasione ribattezzato con il senhal di Lauro. Questo canzoniere, pubblicato con nome e cognome dell’autore, era uscito a Firenze con dedica a Francesco de’ Medici (figlio dell’allora duca Cosimo I) e a Venezia con dedica a Giovanni Della Casa (alto prelato), segno che nessuna di queste illustri personalità si sentiva offesa dall’omaggio.

A ser Brunetto invece andò peggio e, anche se ci dimentichiamo la sua collocazione, anche se Dante tradisce l’affetto e la gratitudine per lui, anche se lo saluta come colui «che vince, non colui che perde» (v. 124), è difficile condividere la sua scelta di mandarlo all’Inferno.

Che Dante sentisse il peso del proprio possibile coinvolgimento lo si vede bene, nella miniatura, in quell’intrico di piedi che si viene a creare al centro: sono piedi che procedono parallelamente quelli di Brunetto e Dante e che vengono sfiorati dal piede sinistro, mosso in direzione opposta, del biondo innominato. Un contatto da «brividi», molto intimo e denso di sottintesi, riproposto recentemente sulla copertina di «Vanity Fair»: Mahmood e Blanco vi sono ritratti nudi, al pari del giovane miniato, e con i piedi che si sfiorano (un’immagine peraltro censurata da alcuni algoritmi).

Dalla copertina di «Vanity Fair» del 23/2/2022, foto di Luigi & Iango, particolare dei piedi di Mahmood e Blanco.

E a proposito di piedi ci consola (e commuove) salutare ser Brunetto mentre, come il cervo nella sua poesia per Bondie Dietaiuti, corre da solo incontro alla punizione-morte. Il Brunetto maratoneta è rievocato dal poeta russo Osip Mandel’štam, grande ammiratore di Dante e dantista:

Vi ricordate dei podisti in gara
presso Verona, ogni anno,
che devono per giunta srotolare
verdi tagli di panno;
e fra tutti sarà quello il più lesto,
sarà quello di certo,
che fuggirà via da un canto dantesco,
a disputare in cerchio.

In questi versi, ser Brunetto – suggerisce il curatore italiano delle poesie, Remo Faccani – si presenta come un giovane, proprio come il biondo misterioso, che nella corsa ha ormai superato e vinto l’ex allievo e la sua morale bacchettona.


Per approfondire

Yates Thompson 36: la Commedia di Alfonso, «Dante e l’arte» 8 (2021)

G. Ruggiero, The Boundaries of Eros: Sex Crime and Sexuality in Renaissance Venice, Oxford University Press, Oxford 1985

T. Giartosio, Perché non possiamo non dirci. Letteratura omosessualità mondo, Feltrinelli, Milano 2004

O. Mandel’štam, Ottanta poesie, a cura di R. Faccani, Einaudi, Torino 2009

U. Grassi, Bathhouses and Riverbanks: Sodomy in a Renaissance Republic, Crrs, Toronto 2021

Condividi:

Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it