Aula insegnanti. L’orologio segna le 9:22. Fa un ticchettio angosciante. Seduta al pc, ascolto i miei colleghi parlare in corridoio. Non capisco quello che dicono, le voci mi arrivano attutite e si mescolano. L’orologio mi incalza e mi infastidisce, forse perché mi ricorda il timer del test del concorso che ho provato a superare lunedì scorso. Questi giorni li ho passati tenendo a braccetto alternativamente delusione e rassegnazione, facendo del “mal comune mezzo gaudio” il mio mantra. Però è doloroso dover dire a tutti «No, non ce l’ho fatta. No, non sono passata». I giornali dicono che il 90% di noi è stato giudicato non idoneo all’insegnamento. Eppure la mattina dopo siamo di nuovo tutti qui, alle 7:55 precise, ad accogliere i ragazzi infreddoliti in cortile. A far cenno con la mano a quei due che si sono accorti della nostra presenza, a guardarli sistemarsi gli zaini sulle spalle, raccogliere le cartelline e la custodia azzurro-asilo del glockenspiel, e seguirci, fiduciosi.
E, mentre percorriamo quei pochi metri che separano l’ingresso della scuola dall’aula, li ascoltiamo chiacchierare, organizzarsi per uscire insieme.
Controllo l’ora, 9:40, ho ancora tempo. Oggi parleremo del nome, di come distinguerlo all’interno di una frase, delle sue caratteristiche. Già me li vedo, i ragazzi, sospirare mentre tirano fuori dalla cartella il volume di grammatica con gli angoli spiegazzati, farsi spazio nel banco invaso da pennarelli, penne colorate, post-it color evidenziatore, bigliettini accartocciati che si sono scambiati l’ora precedente, diario personalizzato da adesivi, etichette e ritagli. Me li vedo cercare affannosamente il foglio con gli esercizi per casa, facendo mente locale e sperando di non averlo lasciato sopra la scrivania.
Me li immagino e sorrido, perché sono belli nella loro confusione, nel loro turbinare di pensieri e di nuove consapevolezze. L’empatia, però, non te la insegna nessun volume in preparazione al concorso.