Così scrive Guido Viale nel suo autobiografico A casa, una storia importante (L’Ancora del Mediterraneo, 2001) laddove tenta di illustrare ai lettori una fase precaria, flessibile, ovvero bastarda della sua vita. In quel periodo il personaggio Viale sta facendo il traduttore a cottimo: è un lavoratore di nuova generazione, a metà strada tra il bracciante e il libero professionista, coi difetti dell’uno e dell’altro, e manca di una precisa definizione, di un’etichetta, di una identità.
Il bracciantato intellettuale
Bianciardi è stato forse il primo scrittore italiano a perder tempo intorno alla questione. Con zelo e precisione si è documentato, ha studiato, ha tradotto libri come Mille modi per aumentare le vendite o L’arte di sviluppare la propria personalità scoprendo e utilizzando il proprio segreto potere emotivo, ha sperimentato soluzioni di vita nuove per l’intellettuale italiano, massificato anch’egli, bracciante tra i braccianti e non più professore o direttore. Poi, solo dopo aver provato l’effetto di una tale rivoluzione, solo dopo averne osservato sintomi e risultati, si è messo a raccontare il cosiddetto ‘miracolo italiano’ e a ragionare sulle sue origini e conseguenze.
Luciano Bianciardi trascorreva i mesi a tradurre, lassù a Milano, dal 1954 al 1964, dove si era trasferito da Grosseto per partecipare alle fasi iniziali dell’impresa editoriale di Giangiacomo Feltrinelli, e poi a Rapallo, fino al 1970, infine di nuovo a Milano, fino alla morte, sopravvenuta l’anno successivo. La domenica, solo la domenica e durante le rarissime vacanze, trovava il tempo per raccontare la propria vita quotidiana, per lo più ingombrata dalle migliaia e migliaia di parole altrui da tradurre al solo scopo di sopravvivere fino alla fine del mese, fino al libro successivo.
Si legge nella Vita agra:
Uno dei miei punti di forza – lo ripetevo sempre ad Anna – doveva essere la puntualità nelle consegne. Altro punto, non rifiutare mai nessun lavoro. Il lavoro e la salute sono sempre i benvenuti, e chi li disprezza e li guasta è un mentecatto. Terzo punto, non andare mai a letto prima di aver finito un certo numero di cartelle a macchina. Venti cartelle ogni giorno, compresa la domenica. Venti cartelle di duemila battute. Tutti i giorni, perché poi bisogna calcolarci anche il tempo per rileggere, tre o quattro giorni al mese in tutto, e un giorno va perduto per fare il giro delle consegne, alla fine del mese.
Sono perciò venticinque giorni a cartelle piene, cinquecento cartelle mensili complessive, che a quattrocento lire l’una danno duecentomila lire mensili. Sessanta vanno a Mara, trenta al padrone di casa, dieci fra luce gas e telefono (e d’inverno anche di più, perché bisogna tenere acceso anche tutto il giorno, mentre d’estate si consuma meno luce, ma bisogna lavarsi più spesso, e allora quello che hai risparmiato di lampadine ti va per lo scaldabagno), venti di rate fra mobili vestiti e libri (si potrebbe anche non leggere, ma i vocabolari li devi comprare), quindici fra sigarette, caffè, giornali e qualche cinema, cinque fra pane e latte, e ti restano sessantamila mensili per il companatico e gli imprevisti.
Il compendio è dei più efficaci, e i tre ‘punti di forza’ rendono perfettamente conto del ruolo fondamentale e ingombrante delle ‘pubbliche relazioni’ che il lavoratore a cottimo – altrimenti detto, con eufemismi pseudo-nobilitanti, ‘collaboratore’ o ‘libero professionista’ – deve intrattenere con gli editori e con gli uomini dell’apparato amministrativo. A queste relazioni, ai rapporti di lavoro con gli editori ma soprattutto con gli addetti al tafanamento (parola di origine toscana usata da Collodi in Pinocchio per designare coloro che danno fastidio come i tafani), al soldo degli editori per rendere insopportabile la vita dei lavoratori, alle segretariette secche, ai revisori, ai redattori – e con loro a sé stesso, autoironicamente – e, più in generale, a tutte le nascenti professioni quartarie, verso le quali esercita fin da un articolo del 1959 la sua satira autolesionista, Bianciardi dedica le pagine più divertenti e amare dell’Integrazione e della Vita agra. Quartari sono il pubblicitario («costui non produce, non trasforma, non scambia, ma stimola, aiuta, consiglia»), l’industrial designer («che fa pronubo alle nozze fra industria ed arte»), il public relation man (il quale «teorizza invece le strette di mano e le pacche sulle spalle»), il tecnico dell’imballaggio, l’arredatore, il vetrinista, il grafico, il ricercatore di mercato e addirittura il ricercatore motivazionale: «Come tutte le professioni, anche queste di tipo quartario sono difficili: bisogna imparare il gergo, farsi credere indispensabili e trovare qualcuno che lo creda. La fatica pare che non sia poca».
Quartario è anche il traduttore, aggiungiamo noi, in quanto addetto dell’industria culturale, costretto anch’egli ad imparare il gergo degli iniziati, a sottoporsi alle regole rigide dell’editing e soprattutto a dimostrare costantemente di essere un ingranaggio necessario al funzionamento della macchina, insostituibile. Scrive Bianciardi sul «Contemporaneo», nel 1955:
Perché qui le acque si mischiano e si confondono. L’intellettuale diventa un pezzo dell’apparato burocratico commerciale, diventa un ragioniere.
Fate il conto di quanti scrittori, giornalisti, pittori, fotografi, lavorano per la pubblicità di qualcosa. Quella pubblicità, guardate bene, che insegna che si ha successo nella vita, e negli affari, usando quel lucido da scarpe e quel rasoio elettrico, comparendo bene, presentandosi bene. Appunto perché questa non è la Milano che produce, ma quella che vende e baratta, e in questa società si vende e si baratta proprio presentandosi col volto ben rasato, le scarpe lucide…
E il concetto è ribadito nei romanzi, nel Lavoro culturale:
E Milano? Milano era lontana, su, oltre il Po, vicino alla Svizzera, una città di fabbriche, di grandi imprese, di traffici. Gli intellettuali lassù sparivano dietro a un grosso nome, e diventavano funzionari di un’industria, tecnici della pubblicità, delle human relations, dell’editoria, del giornalismo. Cessavano di esistere come clan, come corporazione, come grande famiglia; non erano più il sale della terra, i cani da guardia della società, i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima.
E poi nella Vita agra:
Ma il fatto è che il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende.
Nei nostri mestieri è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un PRM? Costoro non producono nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire, sei il marito della Billa non si oppone, addirittura quartari. Non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura.
[…] non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su […].
Il metodo del successo consiste in larga misura nel sollevamento della polvere. È come certe ali al gioco del calcio, in serie C, che ai margini del campo, vicino alla bandierina, dribblano se medesimi sei, sette volte, e mandano in visibilio il pubblico sprovveduto. Il gol non viene, ma intanto l’ala ha svolto, come suol dirsi, larga mole di lavoro.
Passando a una pagina di Aprire il fuoco, del 1969, quando ormai la satira antiintellettuali e antiquartari si è definitivamente esaurita ed è perduto ogni interesse a raccontare le miserie degli addetti alla cultura, si veda come il protagonista, un traduttore ovviamente, esule volontario a Rapallo ma costretto a raggiungere Milano per consegnare e ritirare i lavori, sia angosciato da quei pochi rapporti di lavoro al punto di liquidarli in poche battute:
Perciò io faccio soltanto le visite indispensabili al mio quotidiano campare, al mio lesso striminzito e stopposo che mastico amaramente ogni giorno. Ho la valigia piena del mio diuturno battonaggio, carte su carte di ribaltatura […]. È roba che pesa, dentro la valigia, e non soltanto per la massa delle sudate carte, ma anche perché c’è dentro l’alienazione quotidiana, la frustrazione, il passaporto per Mombello, l’abbelinamento, l’imbischirimento, la rimozione, il transfert, il campo traslatorio, la sindrome, la nausea mediana, l’appercezione deviata, la deformazione professionale, la minchioneria altrui che m’imminchiona. Arrivo di soppiatto, mollo il malloppo, chiedo la grana. Pochi, maledetti e subito. Niente firme, sono pericolose. Se firmo, c’è pronto il duca Delabarbona a metterci l’ugna sopra.
Trascorrendo il tempo, peggiorando progressivamente e cronicizzandosi l’isolamento e il disincanto bianciardiani, i colleghi, i superiori, i creditori, insomma l’articolata fauna che era abituato, fin dai tempi grossetani, a ritrarre in divertenti e penetranti figurine, scompare per lasciare spazio agli eroi della sua epopea risorgimentale e a pochi contemporanei, flatus voci, puri nomi appena evocati. Il traduttore non è più un quartario impiegato nell’industria culturale e tende a divenire un manovale, un lavoratore manuale a cottimo, saldamente inserito nel sistema, conosciuto come buon lavoratore e disinteressato a quei rapporti che tanto valore hanno nel momento dell’inserimento nel cosiddetto mondo del lavoro o, successivamente, per fare carriera.
«Terzo punto, non andare mai a letto prima di aver finito un certo numero di cartelle a macchina». Abbiamo detto della capacità di lavorare duramente di Bianciardi, alla quale fanno seguito una lunga serie di disagi, fatiche, e incubi a non finire, che contribuiscono a rendere questo mestiere più da manovale che da artigiano:
… si è detto finora di lavoro artigianale, e va invece ricordato che tradurre è oltretutto una fatica fisica e psicologica da sterratore. E senza neanche i motor scrapers del mio giovane amico ingegnere. I ‘movimenti di terra’ il traduttore li fa con la vanga e la barella, come i terrazzieri delle mie parti quando lavorano al fossone. La barella è una targa di legno con quattro manichi; quando è carica di mota, un quintale, un quintale e mezzo, uno alza davanti e uno didietro, e poi van su a scaricare in cima all’argine.
Ed è proprio quest’ultimo aspetto quello – quello di un Bianciardi “oggetto della modernità” (Coppola-Piccinini) – che sembra suscitare ancora oggi l’interesse dei nostri contemporanei, che scrivono biografie (Corrias, Vita agra di un anarchico, ma anche John Foot, Biografia di Milano), film (Addio a Kansas City, Bianciardi!), romanzi (Milano, la città di nessuno di Alessandro Zaccuri e Come ho perso la guerra di Filippo Bologna). È il personaggio-scrittore che vive in presa diretta, che, da un certo punto in avanti, all’incirca dal 1962-1963, vive davanti alla macchina da scrivere e, di tanto in tanto, nei salotti e negli studi televisivi. Un uomo vero (come Truman Burbank) divenuto personaggio quasi suo malgrado. Con grande giovamento della letteratura, a costo della sua stessa vita.
La puntata precedente:
La periferia permanente di Luciano Bianciardi #1
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La periferia permanente di Luciano Bianciardi #3