Certo, quando diciamo “arte” non alludiamo al suo significato stretto. Vogliamo solo rendere conto della bellezza che contiene, di quante possibilità espressive racchiude. Al limite, all’arte nel senso lato di capacità, di fulgido saper fare – e allora può accompagnarsi quasi a tutto: c’è un’arte della gioia, ma anche un’arte della guerra, e persino, naturalmente, un’arte della manutenzione della motocicletta. Qui parlare di arte sembra più calzante, ma qualcosa ancora sfugge.
Imparare è essenzialmente fatica. Non sempre e non a ogni livello, non per tutti allo stesso modo, però di certo la fatica prima o poi arriva. Talvolta all’inizio, quando una disciplina ci è del tutto straniera e chiede una riconfigurazione generale. Se vogliamo imparare il cinese, per esempio. Altre volte è nella noia di una medietà che non si supera, che rigetta indietro a ogni tentativo di scartarla, di migliorare. È il momento della fragilità: si lascia perdere, perché le scoperte sembrano esaurite. Oppure può essere nel mantenere l’eccellenza, che è una dimensione estrema – quantomeno perché raggiungerla significa cominciare a interrogarsi sulla possibilità di perderla. E con questa inquietudine intensificare lo sforzo, tenere il punto, l’assiduità, l’esercizio. Ecco, l’esercizio…
Se quella di imparare non è un’arte – ma dell’arte può avere la bellezza, la concretezza, il senso –, forse allora la parola giusta è un’altra, è pratica. La pratica è un esercizio quotidiano, è traduzione nel corpo – nella vita concreta – della teoria. La pratica è consuetudine, perché tradurre la teoria nel corpo e nella vita, cioè incarnarla, non è un processo scontato, ma una vera e propria metamorfosi. Lo sanno bene i monaci: a cos’altro serve la loro pratica quotidiana se non a ribadire una conversione mai del tutto stabile, sicura, e proprio per questo, fintanto che è questo, viva?
Dall’agenda Loescher 2018-2019, ispirata quest’anno al mestiere di insegnare e a Teach Like a Champion.