L’altra faccia della luna

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Di Charlie Hebdo e di chi siamo noi, dell’insegnamento e dei nostri orizzonti, delle banlieues che non sono solo francesi e delle coscienze lavate a colpi di hashtag.

Non è stato semplice, nei giorni immediatamente seguenti alla strage del 7 gennaio a Parigi, riflettere insieme a degli adolescenti sull’accaduto. Cercando di non urtare sensibilità, ma al tempo stesso provando a portarli a ragionare sulla complessità di un fenomeno e di quest’avvenimento specifico – la carneficina nella sede del settimanale francese “Charlie Hebdo” – che investe aspetti non immediatamente percettibili, soprattutto dai ragazzi. Fermo restando che l’evento in sé, inutile dirlo, scatena indignazione e la più ferma esecrazione.

© Patrick Zachmann - Magnum Photos
© Patrick Zachmann – Magnum Photos

L’occasione di portare la discussione a un livello più ampio rispetto all’evidente contrizione per ciò che è accaduto; rispetto all’ovvietà dello stigma e dell’indignazione; della riprovazione espressa attraverso l’accoglimento globale di quello che è diventato uno slogan collettivo (Je suis Charlie), ma che, in quanto tale, rischia di appiattire tutta la realtà su un’unica dimensione – uno slogan che, peraltro, ci tenta a porci da una parte della barricata e ci esenta dalla riflessione più profonda e relativa a una prospettiva che deve, o dovrebbe, riguardarci tutti –, è stata la lettera aperta di 4 insegnanti francesi: Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys e Damien Boussard.
Che indica una strada più scomoda e meno rassicurante di quella di emendarci la coscienza assumendo la posizione “giusta”, incontrovertibile, degli innocenti, degli offesi, dei probi, degli etici.

Gli insegnanti, come scrive Claudia Vago (che ha tradotto il testo insieme a Roberto Ciccarelli, che ha diffuso in rete la lettera) sono docenti a Seine-Saint-Denis, la periferia di Parigi. Le banlieues, così chiamiamo ormai da tempo alcuni quartieri. Significherebbe periferia, sobborgo. Oggi significa ghetto. Il dipartimento 93, quello della Seine-Saint L’occasione per andare oltre gli slogan ce l’ha offerta la lettera aperta di quattro docenti a Seine-Saint-Denis, nella banlieue parigina. Denis, ha la maggiore percentuale d’immigrati e un tasso di disoccupazione tra i giovani di 15-24 anni tra i più alti d’Europa. Transitarci per trascorrere una giornata di lavoro credo sia difficile. Viverci stabilmente, immagino, molto di più. Quella realtà così lontana dalla percezione di molti di noi, eppure esistente; lontana dai nostri quotidiani orizzonti visivi ed emotivi, eppure vivente; quella realtà, dicevo, non è un brutto presepe che i media ogni tanto ci ripropongono per farci indignare, arrabbiare, impietosire, richiudendolo poi dentro uno scatolone, pronto per la prossima occasione. Quella realtà c’è sempre, anche quando siamo distratti dalle nostre, spesso lontane. E non è molto lontana da tante che ci circondano, più vicine geograficamente, spesso contigue e non distanti dagli scenari che abbracciamo tutti i giorni con lo sguardo.

Per questo motivo la lettera di Catherine, Isabelle, Valéry e Damien colpisce ancora di più; essa richiama all’ordine e alla sobrietà. Richiama, mi sembra, all’onestà. Ci ricorda che non basta – non solo – postare sulle bacheche dei social, attraversare le città manifestando, indossare magliette con sopra scritto: Je suis Charlie.

«Noi siamo Charlie. Ma siamo anche i genitori dei tre assassini.
Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo.

Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, o molto ovviamente al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché avremmo i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo un dato acquisito che La libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… È tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar ha già spiegato loro. Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc.: noi siamo responsabili di questa situazione.

Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia. Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri. Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?

Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù s’insegna solo attraverso l’esempio.

Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera,uguale, più fraterna.

«Nous sommes Charlie», possiamo appuntarci sul bavero. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys e Damien Boussard»

Sottoscrivo parola per parola. Condivido il punto di vista e la complessità della posizione, che diffida dall’adottare facili soluzioni. Lo stigma nei confronti di un’azione disumana e vergognosa è indubbio e unanime; la difesa della libertà di espressione interpella le coscienze sui limiti di questo principio, ci esorta a indagare sull’altra faccia della luna. Un mio studente mi ha chiesto: “Prof, come Prof, come avremmo preso noi una vignetta che associasse Anna Frank e le saponette? L’avremmo considerata semplice, legittima satira? – mi ha chiesto un mio studente. avremmo preso noi una vignetta che associasse Anna Frank e le saponette? L’avremmo considerata semplice, legittima satira?”. È una domanda che mi ha intimamente turbata e alla quale non sono riuscita a dare ancora una risposta definitiva, pur nelle tante argomentazioni che mi sono venute in mente e alla bocca, quando mi è stata posta. La Shoah, che ci accingiamo a commemorare in questi giorni, è un luogo sacro e inviolabile della nostra identità di cittadini italiani ed europei. Della nostra identità umana. La nostra sensibilità non tollera alcun tipo d’ironia su questa tematica.

L’altra faccia della luna, è indubbio, è ciò che viene messo in luce anche dalle parole dei docenti francesi, che rifuggono le facili e comode soluzioni e ci interrogano globalmente sulle nostre responsabilità di occidentali. Responsabilità di maestri, intellettuali, cittadini; la responsabilità non solo francese, ma omogeneamente spalmata su tutti i paesi occidentali. Su chi, tutti noi o quasi, accettano, implicitamente o meno, che lo Stato, la maggior parte degli Stati, releghino in una condizione di minorità altri cittadini, colpevoli di avere origini altrove. Di essere nati dalla parte meno fortunata del mondo. Solo questa prospettiva può salvarci dall’automatica e semplicistica soluzione del Bene e del Male, dei Buoni e dei Cattivi; che – a ben guardare – è la stessa che ha mosso le modalità di destinazione e organizzazione di luoghi per “accogliere” l’altro.  Solo questa prospettiva può aiutarci, aggiungo, a tentare di comprendere.

Giammai a giustificare, simpatizzare, occhieggiare: la violenza non ha diritto di cittadinanza in questo discorso.

Seine-Saint Denis è Tor Sapienza a Roma, è Via Padova a Milano. Ma non dobbiamo dimenticare che Seine-Saint Denis non è solo un quartiere di Parigi. Seine-Saint Denis è ovunque l’Occidente abbia aperto le porte di casa senza garantire effettivamente pari opportunità ai nuovi venuti. Seine-Saint Denis è Tor Sapienza a Roma; è Via Padova a Milano; è tanti luoghi disseminati per il nostro Paese e fuori da esso, dove decidiamo  o accettiamo che altri debbano vivere nelle condizioni in cui noi non tollereremmo mai di vivere. E questo produce conseguenze. La lettera dei docenti francesi ci induce a riflettere su di esse e sulla nostra falsa coscienza occidentale.

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