Molti anni fa, in occasione di un ciclo di conferenze a Venezia, ho avuto l’opportunità di visitare San Lazzaro degli Armeni. Non conoscevo quell’isola e non sapevo nulla della sua storia. Però mi ricordo perfettamente l’apprensione nel percorrere la passerella gettata dall’imbarcazione e la sorpresa di scoprire un mondo inaspettato. Rimasi particolarmente affascinata dal laboratorio di restauro dei libri e mi colpirono le parole della nostra guida: era un’isola difficile da abitare, nemmeno i gesuiti avevano resistito tanto. Finché arrivarono gli armeni.
Le mie conoscenze sull’Armenia non sono progredite molto da allora: i libri di Antonia Arslan [qui il resoconto di un incontro dell’autrice in una Scuola Amica, N.d.R.], il genocidio degli armeni. Ma la curiosità è rimasta: quali sono i rapporti dell’Armenia con l’Italia, qual è l’arte che caratterizza principalmente il paese, e quali rischi corre, attualmente, il patrimonio culturale armeno? Lo abbiamo chiesto a Marco Ruffilli, uno degli organizzatori dell’annuale Seminario sulla Storia dell’Arte Armena e dell’Oriente Cristiano dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
D: Fin dall’antichità i rapporti fra Italia e Armenia sono sempre stati molto stretti. Ci sono luoghi in cui possiamo riconoscere più chiaramente questi legami?
R: Sì, ci sono molte tracce della presenza armena in Italia nel corso della storia. In alcuni di questi luoghi gli armeni sono stati parte integrante della civiltà italiana. Penso anzitutto a Venezia, dove i mercanti armeni furono lodati dalla Repubblica come un pilastro economico, specie in tempo di crisi, e dove nel 1512 venne stampato il primo libro in armeno. A Venezia, del resto, è attestata fin dal Duecento la presenza di una domus Arminorum, una casa degli armeni, e la loro piccola chiesa intitolata alla Santa Croce, vicino a Piazza San Marco, è tuttora officiata in rito armeno.
Più tardi, nel 1715, si stabilì a Venezia un ordine religioso, i monaci mechitaristi – dal nome del fondatore Mechitar di Sebaste – che creò sull’isola di San Lazzaro uno dei maggiori centri culturali d’Italia, con un’impressionante produzione di studi. Il giornale «Bazmavep», fondato dai mechitaristi veneziani alla metà dell’Ottocento, è ancora esistente, e San Lazzaro non è solo un’isola “fisica”, ma anche un’isola linguistica, perché vi si parla l’armeno come l’italiano.
La maggior concentrazione di manoscritti armeni fuori della Repubblica d’Armenia si trova proprio in quest’isoletta veneziana, dove perfino Lord Byron si fermò a studiare. Ci sono poi le due scuole ottocentesche di Padova e Venezia: in particolare il Collegio veneziano Moorat-Raphael, a Palazzo Zenobio, si distinse per aver formato generazioni intere di armeni fino a tempi recenti.
Molti altri luoghi sparsi nella Penisola richiamano il mondo armeno. A Napoli è celebre la chiesa di San Gregorio Armeno, nella via nota per i presepi. Secondo la tradizione, monache di regola basiliana portarono alcune reliquie di San Gregorio l’Illuminatore in Italia, come il cranio, tuttora custodito nella chiesa napoletana, e l’avambraccio donato alla cattedrale di Nardò, poi trafugato nel 1975 e sostituito con un’altra reliquia ossea del santo.
Lo stanziamento di una comunità armena a Matera è reso evidente da una chiesa che ancora porta il nome di Santa Maria de Armenis. Allo stesso modo, nella Perugia medievale è attestata una comunità, con la chiesa di San Matteo degli Armeni eretta nella seconda metà del Duecento. Il trasferimento in Occidente dal Tauro cilicio di monaci armeni incalzati dai Mamelucchi ha portato alla fondazione, nel Trecento, del monastero di Sant’Antonio di Spazzavento vicino a Pisa. Ma i luoghi da menzionare sarebbero ancora molti: ad Ancona per esempio, nell’Ottocento, un antico luogo di culto, più volte ricostruito e restaurato, viene assegnato alle monache armene di regola benedettina, assumendo il titolo di San Gregorio Illuminatore, il santo che convertì il re Tiridate III d’Armenia al cristianesimo, nel IV secolo.
Del resto, risalendo fino al III secolo d.C., lo stesso san Miniato, il protomartire di Firenze cui è intitolata la famosa basilica, era probabilmente armeno. Secondo una tradizione oggi accreditata dagli studi bioantropologici e paleopatologici del prof. Mirko Traversari e della sua équipe, lo era anche san Mercuriale di Forlì, di cui è stato ora ricostruito l’intero genoma mitocondriale.
A Livorno gli armeni, che esercitavano la stampa, ottennero nel Settecento il diritto di erigere una chiesa, la cui facciata è ancora visibile. Ma ci sarebbe moltissimo altro da ricordare sul piano storico, come i trattati commerciali siglati da Levon I di Cilicia con le Repubbliche di Venezia e Genova. Genova, dove la chiesa di San Bartolomeo degli Armeni fu fondata all’inizio del Trecento dai monaci in fuga dalla “Montagna Nera”. E anche una certa toponomastica italiana, per esempio in Calabria, evoca presenze armene. Ulteriori comunità e nuclei si formarono poi in Italia all’indomani del genocidio.
D: Dopo il genocidio dei primi decenni del Novecento i profughi cercarono dunque salvezza anche in Italia. Com’è distribuita la comunità armena nel nostro paese?
R: Ecco, nel 1915-1916 gli Armeni subirono questa immane tragedia del genocidio – in armeno Metz Yeghern “Grande Male” – da parte dell’ultima élite del morente Impero Ottomano. Quest’eliminazione sistematica della popolazione armena era stata preceduta, del resto, da altri estesi atti di violenza, come i massacri hamidiani. Comunità di sopravvissuti si crearono nel mondo – in Europa quella francese ne è il maggior esempio – e naturalmente anche in Italia. Oggi gli armeni nel nostro paese sono presenti nelle maggiori città, anzitutto Roma e Milano, dove sono organizzati in vere istituzioni comunitarie, ma anche nelle storiche Venezia e Padova e in molti altri centri minori e minimi. Ci sono a questo proposito alcune associazioni, la maggiore delle quali è l’Unione Armeni d’Italia. A Milano è presente la Hay Dun (“Casa Armena”), centro culturale che ospita conferenze, presentazioni di libri, concerti. E bisogna menzionare anche il vasto lavoro che svolge la sezione italiana della Armenian General Benevolent Union.
Storicamente, un caso molto interessante è quello di Bari, dove nel quartiere di San Pasquale nacque un piccolo villaggio armeno, il Nor Arax (Nuovo Arasse), dal nome del fiume simbolo dell’antica Armenia. Fin dal 1913 si trovava a Bari il poeta Hrand Nazariantz, che si prodigò per l’accoglienza dei profughi del Genocidio. Anche le suore armene dell’Immacolata Concezione di Roma si trasferirono nella nostra capitale per prendersi cura delle centinaia di orfane che Pio XI vi aveva ospitato. Vanno poi aggiunti gli armeni emigrati dal loro paese più di recente, per ragioni di studio, di lavoro o personali. Si tratta spesso di persone con ottimi titoli di studio, che parlano più lingue e che si inseriscono bene nel nuovo contesto.
D: Le comunità armene in Italia parlano ancora l’armeno?
R: Molti armeni della Diaspora italiana parlano l’armeno, nella sua variante occidentale, a vari gradi di conoscenza. Altri invece non la parlano più. Alcuni di quelli che non la conoscono sentono però, come in altri contesti diasporici, l’esigenza di studiarla per riappropriarsi di una componente della loro identità. Ci sono poi gli armeni immigrati dall’Armenia o dall’Iran, che parlano la variante orientale della lingua.
D: Come nasce questo suo interesse per l’Armenia e per l’arte armena?
R: Sono laureato in Lettere classiche, e studiando l’impero bizantino con la sua produzione artistica ho cominciato a guardare “a est” di Bisanzio, dove ho trovato l’Armenia e la sua civiltà. Ho studiato poi Lingue orientali a Venezia. Oggi è una mia dimensione, non potrei più separare gli studi da un senso di appartenenza.
[Continua]