Antonia Arslan racconta agli studenti il genocidio degli Armeni

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«28 marzo 2017. Che bell’incontro, con tanti ragazzi curiosi e un’atmosfera vivace e intelligente. Mi ha fatto piacere condividere con tutti voi questa storia intensa e necessaria degli armeni, ed essere ascoltata con tanta passione». Antonia Arslan
La scrittrice Antonia Arslan in un bel ritratto di Silvia Aquilesi – antoniarlsan.it

Questo il saluto che ha lasciato alla comunità del Liceo “A. Banfi” di Vimercate scuola amica della Ricerca) la notissima scrittrice, che ha parlato martedì 28 marzo a una folta platea di studenti del triennio e di docenti: tutti catturati e ammirati dalla capacità di raccontare la Storia e le storie di quanti l’hanno vissuta e sofferta, e dalla precisione e ricchezza delle conoscenze di questa studiosa di letteratura che a un certo punto della sua personale vicenda umana e della sua carriera accademica si è scoperta depositaria di un passato che era “necessario” raccontare. Lo ha fatto, riscuotendo un enorme successo con La masseria delle allodole (Rizzoli, Milano 2004, tradotto in ventidue paesi e trasformato in film da Paolo e Vittorio Taviani), e continua a farlo. Ma non è per la fortuna, pur grande, dei sui libri che continua a scrivere: è stato a tutti molto evidente, quella mattina al Banfi.

Uno dei bei libri di Arslan, Il libro di Mush (Skira, Milano 2012), si chiude dicendo che le fiabe d’Armenia cominciano sempre con una frase augurale, che dispone tutti all’ascolto: “C’era e non c’era una volta…”. Il racconto di Arslan, che si è snodato lungo il filo delle numerose domande che ragazzi e docenti le hanno posto, è iniziato illustrando la storia millenaria del popolo armeno (indoeuropeo, costituitosi in regno forte che raggiunse l’apice della sua potenza nel I sec. a.C. e fu anche in competizione, e talora in alleanza, con Roma, divenendone per un breve periodo provincia), la sua collocazione geografica ai piedi dell’Ararat, la sua precoce conversione al Cristianesimo. Ci ha detto della sua antica capitale Ani, chiamata “la città delle mille e una chiesa”, crocevia tra Oriente e Occidente, situata lungo la via della seta. Ci ha spiegato che “armeni” è il nome con cui i greci e poi i romani indicarono il popolo che chiamava (e chiama ancora) se stesso “hayer”.

Poi le domande hanno riguardato il genocidio e le sue ragioni: si calcola che circa un milione e trecentomila armeni sia stato sterminato tra la primavera del 1915 e quella del 1916. Un crimine perpetrato dal governo ottomano nell’intento di fare della Turchia un paese di soli turchi, eliminando tutte le comunità diverse per identità etnica, culturale e religiosa (terminato con gli armeni, ci si è rivolti al popolo curdo, infatti). Un crimine pianificato nei dettagli e compiuto mentre infuriava la Prima Guerra Mondiale e gli occhi della comunità internazionale (che nei suoi rappresentanti diplomatici presso la “Sublime Porta” pur vedevano quanto stava accadendo) guardavano volutamente altrove.

Gli armeni dell’est, quelli più vicini al confine russo, furono uccisi subito prevalentemente per fucilazione, iniziando dagli uomini per poi eliminare anche le donne e i bambini, salvo quelli che furono “salvati” per essere turchizzati e islamizzati. Gli armeni delle province centrali e occidentali dell’Anatolia furono sterminati attraverso una deportazione forzata lungo territori desertici. Destinazione finale, da pochissimi raggiunta: Aleppo. Le testimonianze millenarie della cultura armena furono sistematicamente distrutte. Come è noto, questo, che è stato il primo genocidio del XX secolo, e che Arslan sostiene essere assimilabile alla Shoah, è tuttora negato dal governo turco. Ciononostante tutti in Turchia sanno, e alcuni studiosi turchi stanno conducendo ricerche su questa tragica storia – dall’estero ovviamente…

– Che cosa l’ha spinta a scrivere questa storia? – ha chiesto una studentessa in uno dei momenti più toccanti di questo straordinario incontro. Arslan ci ha dunque raccontato di suo nonno Yerwant, chirurgo di prestigio, che ancora bambino era venuto a vivere e studiare in Italia, a Venezia, dove la comunità armena aveva antiche radici. Yerwant in quella primavera del 1915 stava per recarsi in visita con la propria famiglia dai suoi fratelli in Anatolia: tutto era pronto, anche la macchina di lusso stava per essere imbarcata, la data fissata era il 31 maggio. L’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio provocò la chiusura delle frontiere, e così Yerwant scampò a sicura morte, e parecchi anni dopo poté diventare nonno di Antonia. Che con il nonno aveva un legame forte, saldatosi particolarmente in occasione di una malattia della bambina che nessun medico (eppure erano tanti i medici nella famiglia Arslan!) riusciva a guarire. Allora il vecchio patriarca prese in carico il difficile caso, e decise la terapia: trentasei iniezioni di penicillina. Per far digerire alla piccola tutte quelle punture dovette pagarla… 50 lire a iniezione. E qui la bambina lo stupì: voleva non 50, ma 100 lire a puntura! Dopo lunghe trattative ci si accordò sulla cifra di 75 lire. Non vi è dubbio che il nonno ammirò il temperamento di quella piccola, e quando la portò in convalescenza sulle alpi bellunesi decise di affidarle il penoso fardello della storia tragica della sua famiglia, distrutta dalla follia genocidiaria. Gliela raccontò sotto un pergolato di glicine.

Poi il nonno morì, Antonia crebbe, intraprese una bella carriera accademica come professoressa di Letteratura italiana moderna e contemporanea, e forse dimenticò la storia sentita sotto il glicine. Finché non le capitò di tradurre, con l’aiuto di conoscitori della lingua armena, la poesia di Daniel Varujan Il canto del pane. Le parole di quel testo e il suono di quella lingua, famigliare e ignota al contempo, le risvegliarono la memoria. E sentì che doveva scrivere, per riscattare dall’oblio le vite distrutte degli armeni di Anatolia. Per questo dicevo che è stato chiaro a tutti noi mentre l’ascoltavamo che il suo lavoro di scrittura nasce da un profondo impegno etico.

Molto ci sarebbe ancora da raccontare di quel bell’incontro. Mi limito a menzionare l’ultima fatica di Arslan, la Lettera a una ragazza in Turchia (Rizzoli, Milano 2016), di cui anche si è parlato con l’autrice. Nella seconda delle storie raccontatevi leggiamo della breve e intensa avventura dei suoi bisnonni, in particolare di Iskuhi (la mamma di nonno Yerwant, morta di parto a soli diciannove anni), tanto giovane ma tanto matura nella volontà di costruire opere che servissero al bene del suo popolo, soprattutto scuole, aperte a tutti: ricchi e poveri, maschi e femmine (e siamo a metà del 1800, nel profondo dell’Anatolia orientale!). Opere educative della cui realizzazione il marito si fece poi continuatore. Una passione civile che è passata certamente in eredità alla nostra ospite.

Dal 2001, anno di pubblicazione de La masseria delle allodole, si sono moltiplicati gli studi e le pubblicazioni sul genocidio armeno, e la Arslan dirige una collana per Guerini e Associati dedicata a questo tema. Molto del merito per l’interesse e l’approfondimento di conoscenza della tragica vicenda del popolo armeno è certamente da attribuire al dono che ha voluto fare a tutti della sua storia, e delle storie dei suoi.

Non c’è migliore chiosa di quella con cui abbiamo terminato quelle due intensissime ore di conversazione, citando ancora Il libro di Mush, che termina così, al modo di tutte le narrazioni armene: “Cadano tre mele dal cielo: la prima per chi ha raccontato questa storia, la seconda per chi l’ha ascoltata, la terza per il mondo intero”. A raccogliere quelle belle e dolorose mele ci siamo anche noi del “Banfi”.

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Claudia Desalvo

Docente di Storia e filosofia – Liceo “A. Banfi”, Vimercate (MB).

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