Il “teacher”
 sotto esame

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Come si affronta all’estero, 
in particolare negli Stati Uniti, 
il problema della valutazione 
degli insegnanti. Dal dossier del numero #8 de La ricerca.
Glenn Ford professore in “Il seme della violenza”, 1955, diretto da Richard Brooks.

Dedichiamo il Dossier del n. 8 de La ricerca ad approfondire l’attuale dibattito sulla valutazione meritocratica degli insegnanti in corso negli Stati Uniti per due buoni motivi. Il primo sta nella ricchezza della sperimentazione. Di fatto, vuoi per il regime di relativa autonomia con cui i singoli Stati organizzano la scuola, vuoi per il ragguardevole numero di esperimenti pilota, oggi gli Stati Uniti appaiono una fucina di esperienze diverse e spesso fra loro discordanti. Se nella maggior parte delle città i professori godono di aumenti di stipendio solo per scatti di anzianità, in molte si tiene conto dei risultati ottenuti dai loro allievi negli esami finali e in altre ancora sono attivi programmi innovativi, fondati sull’idea che per smuovere i docenti dal torpore siano necessari incentivi forti, sia positivi sia negativi. Il più articolato fra questi, non a caso denominato IMPACT, prevede una complessa valutazione basata su un gran numero di parametri, dalla quale conseguono da una parte forti aumenti di stipendio per i professori migliori, ma dall’altra il licenziamento immediato per quelli risultati insufficienti o incapaci di migliorarsi, cioè “appena sufficienti” per due anni consecutivi.

In alcuni stati sono attivi programmi innovativi, fondati sull’idea che per smuovere i docenti dal torpore siano necessari incentivi forti, sia positivi sia negativi. Il secondo motivo di interesse della situazione americana sta nella spinta operata da “Race to the Top”, la riforma dell’educazione fortemente voluta dal presidente Obama. Tale programma, infatti, cerca di indirizzare le realtà scolastiche locali nello stesso senso in cui pare dirigersi la Buona scuola italiana, ossia verso una moderata differenziazione stipendiale fra i professori sulla base di una valutazione in cui, oltre ai test finali degli allievi, ha un forte peso anche il giudizio del preside, nell’idea che la leva demiurgica di una scuola efficiente risieda nella sua capacità di leadership.

Gli Stati Uniti sono quindi, oggi e per noi, una situazione interessante. Ma non va però dimenticato che, almeno per quanto riguarda il sistema pubblico elementare e secondario, le scuole americane non raggiungono affatto il “top” mondiale, come pure vorrebbe il presidente Obama.

Da “Il seme della violenza”, 1955, diretto da Richard Brooks.

Cosa accade in Finlandia, a Shangai e in Canada

Se poi prendiamo in considerazione i Paesi veramente eccellenti in campo scolastico e accademicamente sempre più competitivi, come la Finlandia, il Canada e Shanghai, le sorprese non mancano.

La Finlandia esige che tutti gli insegnanti ottengano una laurea magistrale in educazione. Inoltre, tutti i programmi includono un impegnativo corso di pedagogia. Questi Paesi, infatti, non possiedono alcun sistema di differenziazione stipendiale dei professori fondato sulla rilevazione dei risultati e/o su giudizi valutativi del loro operato. Là dove erano in atto, sono stati abbandonati optando per una strategia diversa, sintetizzabile nell’idea di rendere la professione insegnante molto più difficile di quanto si sempre stata nel passato. Si è scoperto che si ottengono risultati migliori obbligando i docenti a dedicare molto tempo nel prepararsi a entrare in aula. Da una parte, acquisiscono così una significativa autonomia didattica, dall’altra, soprattutto, l’orgoglio professionale derivato dal superare prove difficili e continue si è rivelato una motivazione al maggior impegno persino superiore agli aumenti di stipendio differenziati.

La Finlandia, per esempio, esige che tutti gli insegnanti ottengano una laurea magistrale in educazione. Inoltre, tutti i programmi includono un impegnativo corso di pedagogia: chi sale in cattedra deve aver scritto una tesi su un tema di politica educativa o di pratica didattica. Soprattutto, ogni insegnante trascorre tutto il primo anno della professione imparando da un mentore esperto.

Shanghai ha un approccio un po’ diverso: gli aspiranti insegnanti frequentano il 90% dei corsi universitari delle materie che poi insegneranno e sono tenuti a portare a termine gli stessi programmi universitari degli studenti che conseguono un dottorato di ricerca in matematica o in scienze. Come in Finlandia, tuttavia, i novelli insegnanti di Shanghai trascorrono il primo anno di lavoro sotto la supervisione di un tutor, ossia di un docente esperto che viene alleggerito di alcune mansioni didattiche in modo da poter dedicare parecchio tempo alla formazione dei nuovi insegnanti.

Ciò che soprattutto sta a cuore ai professori, almeno a quelli finlandesi, non è guadagnare di più dei colleghi scansafatiche, ma percepire di svolgere una professione prestigiosa. Seguendo questo approccio, la Finlandia è stata in grado di abolire l’accountability basata sui risultati dei test, scoprendo che le persone che mettono molto impegno nel prepararsi sono poi ben attrezzate a sviluppare autonomamente programmi di studio e autovalutazioni. Ciò che soprattutto sta a cuore ai professori, almeno a quelli finlandesi, non è guadagnare di più dei colleghi scansafatiche, ma percepire di svolgere una professione prestigiosa. E il modo più efficace per aumentare il prestigio di questa professione non è renderlo più facile, ma più difficile, in modo che sempre più giovani intelligenti siano attratti dal rigore dei programmi educativi.

Queste politiche, infine, si sono dimostrate vincenti anche per un altro aspetto del problema educativo spesso occultato dalle discussioni ideologiche: l’importanza cioè di una buona distribuzione sul territorio dei professori eccellenti, in modo che accettino di lavorare nelle situazioni più problematiche facendosene carico.
È uno sforzo aggiuntivo compiuto solo da insegnanti fortemente motivati, certamente ben pagati, ma soprattutto orgogliosi di una professionalità duramente acquisita.

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Francesca Nicola

Dottoressa in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.

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