Il sogno di un mondo fluttuante: le prose liriche di Mancinelli

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“Libretto di transito” di Franca Mancinelli ci mostra uno dei possibili esiti della scrittura di oggi: quello di una voce pudica ma risoluta che si costruisce per sottrazione, sia sul piano dell’auto-appercezione di sé sia nella resa formale della parola.

Franca Mancinelli è autrice di due libri di poesia, Mala kruna del 2007 e Pasta madre del 2013, ed è tra le voci più apprezzate del panorama contemporaneo della scrittura in versi, come dimostra il sostegno e la stima che le hanno tributato figure tanto diverse tra loro quanto Milo De Angelis, Franco Buffoni e Giovanna Rosadini, che l’ha inclusa nell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani 6 (2012).
Il Libretto di transito uscito in questi giorni per le edizioni Amos di Mestre, composto da una trentina di brevi prose liriche, riprende alcuni elementi caratteristici della precedente produzione dell’autrice marchigiana: l’attenzione per il corpo e la quotidianità liminare, l’affettuosa sollecitudine con cui si delineano mondi prossimi a sparire, una resa icastica dei fenomeni umani e naturali inquadrati da una specola appartata («quello che sono è una finestra», recita un suo verso). Lo sguardo è in effetti il motore della scrittura di Mancinelli, che assegna al fatto percettivo una decisa centralità. «Uno sguardo», ha scritto De Angelis, «tagliente, scrutatore. Può essere carico di tensione, ma non è mai sentimentale»; un impulso scopico che aspira alla composizione formale ben più che all’espressione del sé, svincolato dall’ansia di descrivere o raccontare e mai invasivo, anzi sempre trattenuto sul limitare dei corpi (con implicita esautorazione dei paradigmi impositivi del male gaze).

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In queste pagine la vita è colta all’essenza, osservata nel suo modellarsi plastico, secondo coordinate molto più mentali che emotive: vi sono presenze costanti (l’acqua, che libera dal peso del corpo, e il fraterno mondo vegetale), figure della coscienza (il treno, qui quasi mostro carducciano; le rondini-migranti, schegge d’una natura che vive solo di esodi), ineludibili questioni esistenziali (il segno-seme della scrittura, lo iato tra suono e senso del parlato, l’immensa eppur necessaria fatica di stabilire un contatto, istituire una prossimità relazionale).
Vi è, soprattutto – forse ancor più chiaramente che nelle raccolte di poesia – la riduzione all’essenziale di un vivere che si colloca all’intersezione di due piani esperienziali: il luogo e la presenza. Il luogo consiste sempre in uno spazio colmo o da colmare, segnato da una difficile coesistenza, talora da una dolorosa estraneità, tra il soggetto e il suo ambiente.
In molte di queste prose il lettore coglie, ma diremmo forse meglio intravede, stanze, giardini, ambienti abitati da cose che restano sostanzialmente inattingibili, trepidanti nel loro consistere muto, ma che proprio da ciò acquistano un valore durevole:

Le cose che hai scordato di portare con te. Lasciate negli scompartimenti dei treni, scivolate dai sedili degli autobus. A un tratto ti raggiungono premendo l’angolo duro della loro assenza, come attraversando una zona più limpida dello sguardo.

C’è nell’opera di Mancinelli, ha osservato ancora De Angelis, «un panismo inquieto e meditativo, mai dionisiaco»: è la struggente aspirazione, condivisa con figure di riferimento della generazione precedente (penso ad Antonella Anedda), al raggiungimento di un pur precario equilibrio tra io e paesaggio. Ma in questo Libretto di transito la cornice spaziale della scrittura di Mancinelli si arricchisce di una nuova dimensione, quella di un non-luogo di passaggio, la stazione ferroviaria, dove si sta quasi inavvertiti, e dove anzi paradossalmente la solitudine si fa più marcata e profonda. Un luogo anonimo, ma non per questo ostile, che invita alla riflessione.

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Il secondo piano d’esperienza di cui si è detto, la presenza, restituisce i tratti di una individualità che, se non aspira alla disincarnazione, perlomeno mira all’essenzialità, reggendosi su un fragile equilibrio tra staticità esteriore e tensione interiore. Due sono i modi attraverso cui generalmente il soggetto esperisce la realtà circostante: lo sguardo, il gesto.
Dello sguardo, si è detto; il gesto è per Mancinelli un modo di prendere le misure al mondo, senza alcuna concessione all’effusività, e tantomeno all’ascesi, ma con un’evidente apertura alla dimensione del sacro (nel senso di Tarkovskij: capacità dell’arte di rendere avvertibile l’infinito). Misurato, quasi zen, prensile senza risultare invasivo, il gesto può anche essere onirico, o simbolico, calando il soggetto in una dimensione metaforico-esistenziale che, in una quasi totale indeterminatezza temporale – o perlomeno d’un tempo non-occidentale – fa pensare a certa sapienza orientale:

La mattina alzandoci reggiamo una brocca sulla nuca. Oltre la casa si apre una piccola radura di foglie. Anche quando arriviamo alla sorgente, il ritorno è difficile tra gli incroci e i rovi. Ma ciò che conta è che la brocca posi di nuovo sulla nuca la mattina dopo. Per questo con gli occhi fissiamo l’orizzonte, teniamo la nostra postura.

L’esperienza si raccoglie, si raggruma, si isola nella resa formale di un possibile, forse sognato scenario di vita che evoca il mondo fluttuante di un Bashō.

In sintonia con altre voci maggiori della letteratura di questi ultimi anni, Mancinelli è autrice di cui si apprezza l’esatta pulizia dello scrittura, l’attenzione spasmodica, ma senza calligrafismi, alla giusta scelta lessicale, il ricorso misurato all’allusione metaletteraria, la cura con cui viene lavorata per sottrazione, ellitticamente scorciata, la sintassi. Un percorso di stilizzazione del reale, il suo, che risponde ad alcuni cruciali nodi etico-retorici del nostro tempo, e che per questo motivo merita di essere seguito con attenzione.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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