Il sessismo a scuola

Tempo di lettura stimato: 14 minuti
Nei sussidiari per la scuola primaria inizia la ghettizzazione per genere. Dal numero 21 de «La ricerca», “STEM. Roba da ragazze”.
Maria Salomea Skłodowska, nota come Marie Curie. Fisica, chimica e matematica polacca naturalizzata francese, fu premio Nobel per la fisica per i suoi studi sulle radiazioni e premio Nobel per la chimica per la sua scoperta del radio e del polonio. È stata l’unica donna tra i quattro vincitori di due Nobel, è la sola ad aver vinto il premio in due distinti campi scientifici (foto Wikicommons).

Da molti anni, a scadenze regolari, nel ristretto circolo di coloro che per motivi diversi si interessano ai problemi della formazione, si torna a riflettere sui risultati delle ricerche che confermano la tendenza della popolazione scolastica femminile a tenersi lontano dalle discipline scientifiche ormai abbreviate in STEM. Si riconosce che molti passi avanti si sono fatti negli ultimi cinquant’anni, che hanno visto crescere in modo costante i risultati di scolare e studentesse a tutti i livelli della formazione, l’avvenuto sorpasso sui maschi per quantità e qualità, l’apertura di campi per secoli chiusi. Ma si notano anche altri processi, come la quasi totale femminilizzazione degli insegnanti scolastici e la persistente tendenza delle ragazzine (ma in parte anche dei ragazzini) a scegliere canali di formazione secondaria fortemente ghettizzati e successivamente, come si diceva, a evitare le scienze e le tecniche. Accenno solo al problema generale della grande distanza tra formazione e mondo del lavoro, paradossalmente in crescita in Italia per diversi motivi, e alla mancanza di un impegno serio dello Stato sul piano dell’orientamento, allo studio e al lavoro1.

Alla base di tutto ciò c’è naturalmente un intero sistema culturale, dalle radici talmente antiche da essere percepite troppo comunemente come «naturali» e pertanto non solo giuste ma immodificabili: quello che normalmente si definisce come «cultura patriarcale» o tout court «patriarcato».

Studi scientifici accurati, già noti agli esperti dagli anni Cinquanta2, hanno tuttavia dimostrato non solo la potenza degli stereotipi ma senza ombra di dubbio che le bambine possono accedere senza problemi alle materie STEM, purché si prendano delle misure specifiche, o meglio si contrastino tutta una serie di fattori impedenti3.

Vorrei ricordare che proprio qui, in Italia, il 6 gennaio 1907, Maria Montessori inaugura a Roma, nel quartiere San Lorenzo, la sua Casa dei bambini, un asilo di infanzia che opererà sulla base di un metodo rivoluzionario che, tra le tante innovazioni, introduce alle basi della matematica tra le prime tappe della conoscenza. La scienziata femminista parte dalla convinzione che siano proprio quelli della prima infanzia gli anni decisivi per la formazione intellettuale, ed è per questo che volendo combattere le discriminazioni sociali, e la condanna all’esclusione, è proprio da lì che si deve partire. Non è un caso che il suo metodo sia ancora utilizzato (all’estero più che in Italia), ed è paradossalmente tipico delle scuole d’élite nei paesi più avanzati.

L’eredità preziosa che ci deriva da quella intuizione di oltre un secolo fa, ma ripresa successivamente in contributi d’avanguardia come quello di Elena Gianini Belotti4, è che si debba necessariamente intervenire nei primi anni di vita, perché più avanti sostanzialmente i giochi sono fatti: in particolare sul piano di quello che possiamo definire l’“ordine simbolico”, le sue regole e le sue gerarchie vengono introiettate a livelli profondi ben prima che il pensiero trovi le sue articolazioni. Un esempio semplice lo troviamo nel messaggio implicito dato dal fatto che tutte le insegnanti dei nidi e delle scuole d’infanzia sono donne.

La scuola elementare pubblica e obbligatoria, con l’apprendimento della lettura e della scrittura, lo studio della matematica, l’accesso alla storia e ad una prima sistemazione organica del pensiero e della cultura, costituisce naturalmente un passaggio fondamentale nel percorso educativo di tutti i bambini e le bambine.

Sono queste le considerazioni alla base di numerosi studi che, cominciati molto prima ma in particolare negli ultimi trent’anni, si sono concentrati sui sussidiari della scuola primaria, per analizzarne i contenuti in particolare dal punto di vista della trasmissione di modelli sessisti5.

Già Gallino aveva sottolineato la netta prevalenza di personaggi maschili sia nelle storie che nelle illustrazioni (74%) contro solo il 10% di storie con protagoniste femminili, grande varietà di ruoli maschili ma stretta segregazione femminile: la figura femminile è sempre subalterna rispetto all’uomo mentre l’universo maschile sembra completo in sé stesso. Se le donne ne escono svilite, gli uomini sono idealizzati e allo stesso tempo esclusi da qualsiasi professione di cura: né maestri né padri.

Oltre dieci anni dopo Pace è costretta a verificare la stessa situazione e lo fa dal punto di vista della Presidenza del Consiglio, esprimendo quindi la convinzione che la scuola non debba limitarsi a rispecchiare la società, ma ne anticipi le tendenze con proposte culturali più avanzate, e perciò definendo inaccettabile un materiale scolastico così fortemente intriso di stereotipi. Se il modello per i maschi è infatti quello del marito che esce per lavorare, la moglie è inchiodata ad una dimensione casalinga, o anche ad un prolungamento della sua “naturale disposizione” ad accudire gli altri (bidella, parrucchiera, infermiera…). L’auspicio formulato in conclusione è che si forniscano ipotesi di vita alternative, più rappresentative della molteplicità del reale: madri lavoratrici a tempo pieno, padri che si occupano della gestione della casa, genitori che si alternano nelle funzioni necessarie senza differenza, quantitativa ma anche qualitativa, così da predisporre i giovani lettori e lettrici al cambiamento e alla trasformazione dei ruoli.

Sono del resto gli anni nei quali l’Unione Europea mette al centro delle proprie politiche il problema del peso specifico della cultura nella trasmissione e nel consolidamento di concezioni e comportamenti sessisti e sottolinea il ruolo fondamentale dell’educazione scolastica per «incoraggiare l’abolizione degli stereotipi sessisti attraverso un’azione coordinata di campagne d’informazione, seminari, lezioni, dibattiti o semplici discussioni» (Risoluzione del Consiglio dei Ministri dell’Istruzione del 3 giugno 1985)6.

Per circa vent’anni quindi, all’interno di un quadro generale di cambiamento, in Europa è presente una larga acquisizione dell’importanza dei fattori culturali e linguistici nella socializzazione degli individui: nei documenti ufficiali e nelle risoluzioni la cultura viene indicata come il terreno privilegiato per acquisire la percezione del proprio ruolo nella comunità, più profondamente dei propri diritti di cittadinanza. È allora che anche in Italia, già interessata da un largo e importante movimento delle donne, si mette mano istituzionalmente ad alcune misure operative su questo piano.

Sebbene il problema linguistico sia stato posto a livello istituzionale già nel 1986, quando Alma Sabatini pubblicava le sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, sul piano del simbolico, e quindi del senso comune, pochissimo sembra essere cambiato. L’Italia, per varie ragioni, è restia ad accogliere e fare propri aspetti, come l’uso di un linguaggio politically correct, che in altri paesi Europei sono diventati ormai parte del patrimonio culturale e linguistico comune grazie a politiche antidiscriminatorie mirate. Ancora oggi, infatti, in Italia l’uso del maschile generico, l’uso dell’articolo per segnalare il genere davanti a cognomi di donne, l’esitazione nell’uso degli agentivi femminili, solo per citare i casi più comuni e lampanti, sono percepiti come naturali e a-problematici dalla maggior parte dei parlanti e delle parlanti, quando sono invece il risultato di complesse dinamiche socio-culturali.

L’uso massiccio dell’universale maschile che dietro una pretesa neutralità di fatto esclude le donne, o di un uso scorretto o confuso dei generi grammaticali quando si tratta di indicare professioni o titoli a cui le donne, per ragioni storiche e culturali, hanno avuto accesso più tardi rispetto agli uomini, sono solo alcuni dei segni della preoccupante presenza del sessismo nella lingua italiana. Cruciale importanza va naturalmente attribuita al ruolo educativo della scuola e dell’università con la possibilità reale di ripensare più consapevolmente il modo in cui si utilizza la lingua italiana. L’unico modo per modificare efficacemente il sistema linguistico, infatti, è agire sul sistema culturale promuovendo la consapevolezza di genere delle donne e degli uomini affinché mettano in atto un uso equo e non discriminatorio della lingua.

Eppure ancora nel 1997 il Comitato ONU per il monitoraggio sull’eliminazione delle forme di discriminazione nei confronti delle donne segnala l’Italia, per l’inadeguatezza delle misure prese per eliminare il sessismo nei libri di testo scolastici, con queste parole: «I testi scolastici comunicano una presunta conoscenza di genere neutro, che è in realtà caratterizzata dall’invisibilità delle donne. I testi della scuola primaria trasmettono stereotipi tradizionali e messaggi di ineguaglianza»7.

Proprio in quello stesso anno furono prese alcune iniziative sul piano istituzionale, delle quali la più rilevante è certamente il Progetto Polite (Pari Opportunità e Libri di Testo), che partiva l’anno seguente (per proseguire per tre anni), raccogliendo le sollecitazioni della Conferenza mondiale di Pechino (1995), e che porterà tra l’altro alla pubblicazione di due volumi Saperi e libertà: maschile e femminile nei libri, nella scuola, nella vita8, Vademecum I e II.

Il progetto, importante e ampio, prevedeva un codice di autoregolamentazione sottoscritto dai più importanti editori italiani: con esso si impegnavano a far osservare ai propri autori, pur nel necessario rispetto della libertà di ciascuno, che «donne e uomini, protagonisti della cultura, della storia, della politica e della scienza siano presenti sui libri di testo senza discriminazione di sesso.»

Quando trent’anni dopo Irene Biemmi inizia la sua riflessione sui libri di testo della scuola primaria (sussidiari di lettura editi, tra 1998 e il 2002, dalle principali case editrici italiane e in uso nelle quarte classi), prende spunto da Elena Gianini Belotti, che aveva già segnalato il problema e la sua gravità nel saggio Sessismo nei libri per bambini9. L’analisi rilevava che non solo in 7 manuali su 10 la presenza di protagonisti maschili si assesta ad un livello superiore al 60%, ma nei testi narrativi si registra una presenza ancora minore di protagoniste; tra i personaggi rappresentati in età adulta, inoltre, le donne sono in percentuale molte meno degli uomini. I libri sono quindi carenti di modelli femminili adulti nei quali bambini e bambine possano identificarsi o fantasticare in relazione alla costruzione del loro futuro e ai maschi vengono riservati i ruoli di maggior prestigio (tra i protagonisti ad esempio si contano 50 diverse professioni per gli uomini mentre solo 15 per le donne). Se le bambine sono rappresentate più frequentemente dei bambini in ambienti chiusi, in età adulta tale differenza si rafforza ulteriormente: ciò è connesso alla scarsità di presenze femminili nelle storie di avventura e di ricostruzione storica, cancellando così le donne dalla storia e dal cambiamento, per assimilarle alla natura. Anche dal punto di vista qualitativo, piuttosto che quantitativo, l’analisi di Biemmi mette in luce una notevole presenza di stereotipi sessisti, nonostante vi siano differenze tra le case editrici e alcune di esse cerchino almeno di incoraggiare un qualche esercizio critico sui testi o propongano talora alcuni modelli alternativi.

Corsini e Scierri, con il loro lavoro uscito l’anno precedente10, portano in effetti avanti la ricerca su elementi di indagine già individuati da Biemmi, ma nei testi pubblicati negli anni 2008-2010 e nel 2014, dalle principali 12 case editrici italiane, per valutare l’evoluzione subita dai libri di testo a distanza di un decennio abbondante. Per quanto riguarda il genere del protagonista, nelle edizioni del 2008-2010 nel 57,7% dei casi questo ruolo spetta ad un maschio, contro il 38,7% in cui viene scelta una protagonista femminile. Anche dal punto di vista dei ruoli svolti, se bambini e bambine sono presentati in numeri simili, gli adulti sono quasi solo uomini e nelle edizioni del 2014, inoltre le professioni più frequenti per le donne sono ancora: strega, principessa, maestra, mentre gli uomini ricoprono i più disparati incarichi.

Scierri conclude: «l’idea che emerge è che nonostante l’adesione di diverse case editrici al codice di autoregolamentazione Polite non vi sia stato un intervento attento e consapevole, mirato a una rappresentazione paritaria ed esente da stereotipi»11.

La stessa Biemmi torna l’anno dopo sulla gravità della situazione: «Nei libri di lettura per la scuola primaria attualmente in uso ritroviamo, in maniera acuita, tutte le questioni già sollevate diversi anni fa: i protagonisti maschili hanno una presenza schiacciante rispetto a quelli femminili (sono numericamente quasi il doppio) e la loro presenza aumenta ancor di più nel caso in cui la storia sia ambientata in spazi aperti, oppure nel passato o, ancora, nel caso dei racconti d’avventura; il mondo delle professioni è appannaggio degli uomini (nel campione di testi analizzati da Corsini e Scierri vengono conteggiate ben novantadue tipologie professionali per gli uomini e tredici per le donne, queste ultime riconducibili perlopiù ai lavori educativi e di cura); i bambini maschi hanno un’ampia possibilità di scelta dei giochi (videogame, costruzioni e altri giochi da montare, treno elettrico, biglie etc.) mentre per le bambine giocare con le bambole è ancora l’attività prevalente. E ancora, tra le attività preferite dei maschi troviamo “andare in bicicletta e suonare uno strumento musicale” mentre i passatempi prediletti dalle bambine risultano essere “raccontare storie e cucire/ricamare”»12.

Una tesi di laurea che ho discusso di recente (M.C. Vaccarini) alla Sapienza), metteva al centro proprio un aggiornamento di tale analisi sulla base di testi scolastici contemporanei. Le conclusioni dell’analisi appaiono davvero sconfortanti: «risulta evidente quanto i contenuti proposti siano, ancora oggi, inappropriati e sessisti. (…) Laddove si scelga di inserire una storia di tipo tradizionale, dunque particolarmente stereotipata, sarebbe opportuno trasformare quest’anacronistica visione di genere in un’occasione di riflessione per studenti e studentesse, magari tramite esercizi concepiti proprio per mettere in rilievo la problematicità e le conseguenze di questo tipo di approccio, senza dunque perdere di vista l’obiettivo complessivo di una meditata ricerca sul genere.

Spesso, infine, il lavoro fatto dall’editore sulla scelta del testo viene mortificato dalle immagini inserite, per cui anche un brano non sessista viene illustrato in modo talmente stereotipato da perdere buona parte della sua incisività. Anche le immagini vanno dunque considerate, in fase di edizione, per il loro potere».

Credo che sia difficile sopravvalutare l’importanza di risultati del genere, in specie se si fa una visita ad un qualsiasi negozio di giocattoli (tralasciando i rarissimi e raffinati luoghi pensati per i figli di una ristrettissima élite), per vedersi confermati puntualmente gli stessi problemi: due sezioni del tutto separate contengono da un lato tutti i mezzi della ricerca scientifica, informativa e d’avventura (inclusa la guerra) dall’altro una crescente ma ancora piccola sezione su gioielli, make-up ed abiti da principessa o da velina, si affianca a bambole, cucine, tavole da stiro e aspirapolvere, che certo non incoraggiano alla ricerca scientifica.

La ministra Bonetti ha recentemente espresso l’intenzione di tornare con decisione su tali temi e, nonostante lo scoraggiamento di tutti questi anni, confidiamo che questa sia la strada indispensabile, se certo non sufficiente, da percorrere.


NOTE

  1. I. Biemmi, Gabbie di genere. Retaggi sessisti e scelte formative, Rosenberg & Sellier, Torino 2017.
  2. M. Mead, R. Metraux (1957), Image of the scientist among high-school students, «Science», 126, 384–390. doi: 10.1126/science.126.3270.384
  3. L. Giuso, F. Monte, P. Sapienza, L. Zingales, Culture, Gender and Math, «Science», 30 maggio 2008, vol. 320 no. 5880, pp. 1164-1165.
  4. E. Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Feltrinelli, Milano 1973.
  5. T. Giani Gallino, Stereotipi sessuali nei libri di testo, in “Scuola e città”, n. 4, 1973; R. Pace, Immagini maschili e femminili nei testi per le elementari, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, 1986; I. Biemmi, Educazione sessista, stereotipi di genere nei libri delle elementari, Rosenberg & Sellier, Torino 2017. Su questi temi ho seguito diverse tesi di laurea, da ultimo quella di M.C. Vaccarini a cui mi rifaccio per alcuni dati più avanti.
  6. Citato in Biemmi, Sessi e sessismo nei testi scolastici, cit., pp. 75-6.
  7. Cit. in Biemmi, Sessi e sessismo nei testi scolastici, cit. p. 77.
  8. A cura di E. Serravalle, I-II, Milano, Associazione Italiana Editori, 2000-2001.
  9. Edizioni dalla parte delle bambine, Milano 1978.
  10. Differenza di genere nell’editoria scolastica, Nuova Cultura, Roma 2016.
  11. C. Corsini, I.D.M. Scierri, Differenze di genere nell’editoria scolastica, Indagine empirica sui sussidiari dei linguaggi per la scuola primaria, Nuova Cultura, Roma 2016, p. 170.
  12. Biemmi, Educazione sessista, cit. pag. 109.
Condividi:

Maria Serena Sapegno

insegna Letteratura Italiana e Studi di genere alla Sapienza di Roma. Da sempre impegnata nel femminismo, si occupa di Rinascimento, di scritture delle donne, di formazione insegnanti, di critica tematica.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it