Il lavoro della scuola, il lavoro nella scuola

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Il lavoro della scuola è un percorso che porta alla conoscenza di sé, alla conoscenza del mondo e al sapersi pensare nel mondo: per diventare grandi, per prepararsi al lavoro.
Il personale di un agenzia di servizi, 1980

La scienza continua ad aprire a un mondo di illimitate possibilità, mettendo in moto le energie di chi deve abitare la storia. Questa continua creazione, che si svincola dal destino, è opera di un lavoro di persone in grado di pensare al mondo come a una forma in cambiamento: un mondo per sé e un mondo dove vivere. Si tratta di una straordinaria rivoluzione permanente, che oggi è schiacciata sull’applicazione, l’utilizzo e la praticabilità degli aspetti tecnico-organizzativi e commerciali, e che ripiega il più ampio concetto di innovazione a pratiche limitate al quotidiano. In linea con questa visione ristretta di futuro è la ricerca di soluzioni che ci facciano sentire adeguatamente protetti, attraverso la promessa di una realtà senza problemi. Una ricerca di soluzioni in cui è impegnata anche la scuola, per individuare modalità, procedure, compromessi, per arrivare a un’offerta formativa garanzia di uno sbocco di lavoro per le nostre ragazze e ragazzi, un’offerta che supporti la convinzione che una scuola realmente efficiente deve portare “risultati” in quella specifica direzione.

Ma come realizziamo questa scuola? In che modo possiamo pensarci, noi orientatori e insegnanti, e far sì che la comprensione dei termini della questione ci consenta di superare nello stesso tempo la paura di non farcela e la rassegnazione di non esserne in grado?

Per orientarci in queste domande possiamo riflettere su due fondamentali parole, che ci permettono di ri-percorrere la strada di senso prima di chiudere al loro univoco e ormai indifferenziato significato. Parlo innanzitutto della parola “lavoro” che, oltre alla sua radice latina labor (fatica), ha una radice più antica nel sanscrito labh, che in senso letterale significa afferrare, ma in senso figurato vuol dire orientare la volontà, il desiderio, l’intento, oppure intraprendere, ottenere. Oggi una parte del significato della parola in esame è quasi del tutto trascurato nei percorsi di istruzione, formazione e orientamento, e spesso intendiamo per “lavoro” il “posto di lavoro”, ovvero lo svolgimento di una attività all’interno di un contesto produttivo in cambio di una retribuzione.

Ammettendo di dare ad entrambe le parole lo stesso significato, perché allora nella nostra lingua, quando i ragazzi non arrivano al “lavoro”, non diciamo mai che sono dis-lavorati? Non lo diciamo perché le parole ci guidano e tra lavoro e occupazione (“posto di lavoro”) ci sono ragionamenti importanti che ci permettono di costruire un dialogo tra formazione e mercato del lavoro. I differenti significati permettono l’articolazione del nostro pensiero che rende possibile la comprensione, la condivisione, le scelte e le decisioni. Il “posto di lavoro” è concreto: si tratta di svolgere determinate attività incardinate in un ruolo e in una posizione, implicando uno scambio, ovvero il “passaggio” dalla persona alla risorsa umana. Ad esempio, non si è solo ingegneri, ma anche responsabili di un settore produttivo o della direzione di un team, quindi oltre alle competenze tecniche devo mettere a disposizione dell’organizzazione visione d’insieme, capacità di analisi, comunicazione, mediazione ecc. Il “posto di lavoro” rende evidente il professionista, ovvero la persona che svolge quel lavoro; noi non diciamo «la mia casa è stata costruita dall’architettura» o «mi ha curato la medicina» e, quando diciamo «mi ha curato il mio medico», l’aggettivo possessivo racchiude i molteplici aspetti che fanno di quella persona un bravo medico, o meglio il medico che abbiamo scelto, e comprendiamo che l’essere non viene dopo il fare, e che questi due verbi trovano la loro sintesi proprio nella personale traduzione delle conoscenze in competenze per arrivare alla performance. Il lavoro è quindi un concetto ampio che guarda alla persona, alla sua crescita, maturità, responsabilità.

Scuola per parrucchieri, 1952

L’attenzione al passaggio

La relazione tra queste due parole ci fa comprendere che esiste un passaggio – da immaginare e costruire – che porta dal “lavoro” al “posto di lavoro”: questo “passaggio” non si realizza magicamente a 18 anni e un giorno, dopo l’esame di maturità o dopo la laurea, ma si costruisce con il tempo. Affinché si possa agire la professionalità (il medico, il mio medico, il capo reparto, il capo reparto dell’azienda X…) occorre che la persona, nel suo percorso di crescita, faccia esperienza di conoscenze fondamentali, la prima delle quali è la conoscenza del proprio sé, la seconda è la conoscenza del mondo (compreso quello del lavoro), infine la terza è il sapersi pensare nel mondo, elaborare una visione che poi diviene progetto.

Se ripartiamo dalle parole, possiamo accogliere la parola “lavoro” nel suo significato orientativo, per condividerla con la scuola, negli anni fondamentali della crescita, per continuare a definire il percorso che ci ri-conduce alla naturale energia che anima l’essere giovani, che sarà abbastanza forte da non precludere nessuna conquista. Non sono in gioco potenze misteriose e incalcolabili, ma un processo di continua fiducia nei nostri ragazzi, la certezza che ogni percorso di crescita prevede difficoltà, smarrimenti, dubbi, che non cesseranno mai di esistere in quanto parte dell’essere (umano), in grado di affrontare le sue scelte prendendosi il rischio dell’errore. Senza il nostro esserci, il mondo (del lavoro) non ci vede, non sono chiari i nostri desideri, ambizioni, scelte, rimaniamo sospesi senza tempo, senza una direzione che muove dal passato verso il nostro futuro per arrivare fin dentro le aziende che attendono gli innovatori.

L’obiettivo non è soltanto il conseguimento di un diploma e una laurea, ma il diventare “grandi”, il permettere alla conoscenza di trasformare le nostre vite per prenderci la responsabilità delle nostre decisioni con l’impegno di dover rendere visibile la nostra unicità, la nostra “bellezza”: non una semplice somma di compiti e di risultati, ma la faticosa e fragile espressione della nostra identità: quella che non si disperde o si clona nel grande mondo della rete, ma che si crea nella relazione in presenza tutti i giorni nelle nostre scuole.

Nella reciprocità della relazione, la conoscenza si fa esperienza, ripercorrendo ricorsivamente tre parole introdotte dal “con” che indica l’unione, la collaborazione, la compagnia, e sono dell’insegnante come dell’allievo: considerare, comprendere, conquistare. Considerare sé stessi e considerare chi abbiamo davanti, comprendere nel suo significato di fare propria la conoscenza e la conoscenza dei propri allievi, conquistare la loro attenzione e, per i ragazzi, la consapevolezza delle proprie azioni e scelte.

Al “posto di lavoro” si arriva, dunque, dopo aver compreso le proprie possibilità (l’equilibrio tra me, i miei desideri, i miei valori e il mondo), e appreso a presentarsi in quanto consapevoli del proprio percorso e con capacità combinatorie al massimo delle proprie possibilità: ci si arriva da persone consapevoli dell’attività della memoria (diversa da un archivio dati) e, per questo, in grado di elaborare e rielaborare le proprie risorse in funzione delle molteplici combinazioni dei saperi che hanno imparato a gestire (perché conquistati), per fornire risposte sempre competenti. La scuola è presente in questo “passaggio”, alla fine del quale, varcata la soglia dell’azienda, avremo davanti a noi un professionista, ovvero la persona in grado di realizzare performance in un ambiente organizzato e in continuo mutamento, perché le aziende pagano la capacità di raggiungere risultati tangibili. E non dobbiamo andare molto lontano per vedere un professionista in azione, perché è tale la persona (professore, maestro, educatore) che, entrando ogni giorno in aula, possa organizzare consapevolmente le proprie risorse per raggiungere il suo obiettivo e far si che il lavoro della scuola prosegua nonostante tutto. In definitiva, la parola “lavoro”, se intesa nel senso proposto dell’Enciclopedia Treccani, di energia (azione) finalizzata alla produzione di un bene, potrà assumere in concreto questo significato solo a conclusione di un lungo “passaggio”, e su questo non sono previste scorciatoie o rimedi salvifici.

Sulla base di queste riflessioni, possiamo dire che a finire, come è avvenuto in altre epoche storiche, non è il “lavoro”, ma i “posti di lavoro”. Il lavoro finisce se viene meno il lavoro della scuola, nella sua accezione più ampia di pensare il futuro, avere una visione. Il lavoro della scuola non è destinato al sistema economico e tecnologico perché lo crea nella sua continuità spazio-temporale, per poter immaginare e agire il divenire, al di là di ogni possibile crisi. La condizione per continuare ad avere posti di lavoro risiede nel doppio impegno delle giovani generazioni, quello del creare il mondo e quello di abitarlo. Più la scienza e la tecnologia mostrano la loro straordinaria potenza, più c’è bisogno di integrare tutto questo in un contesto sociale ampio, progettando e costruendo le condizioni affinché la stessa scienza possa continuare a svilupparsi come fattore fondamentale del progetto di sviluppo futuro. L’attenzione alle competenze, che è stata fondamentale per realizzare l’incontro domanda e offerta di lavoro negli anni prima dell’ultima crisi, coglie i nostri ragazzi impreparati sulle qualità umane: la ricerca di senso, l’immaginazione, la relazione empatica, l’etica e tanto altro non sono facilmente valutabili, ma ci permettono di fare la differenza in un mondo dove si impongono nuovi temi e nuovi spazi e il credere (in un mondo nuovo) deve ri-trovare la strada dell’intelligere e del discernere, in altre parole del comprendere per compiere scelte sociali ed economiche. Un mondo dove l’orientamento diventa ambientale, prima che tecnico operativo. Non a caso il premio Nobel Amartya Sen, nel suo capability approach, introduce la riflessione sulle capacità umane o meglio sulle «capacità-azioni» e sottolinea come le risorse individuali non siano un bagaglio dato, ma possono evolvere in base a tutte le esperienze della nostra vita e sulla base di condizioni esterne favorevoli, introducendo il legame tra capacità e opportunità. Sen dice che «La capacità di una persona riflette le combinazioni alternative dei vari funzionamenti che la persona può acquisire»1, dove il “può” sta per il “non è impedito”, e questo dipende da condizioni favorevoli e dalla straordinaria diversità umana.

Se appiattiamo il significato della parola “lavoro” su “posto di lavoro” barattando il valore dei percorsi di crescita con infinite liste di competenze, accresceremo solo l’ansia del “posto di lavoro”, con la conseguenza di svuotare in toto il lavoro della scuola e il percorso della conoscenza. Come è accaduto che l’obiettivo di crescita di uomini e donne sia diventato il bisogno di adattarsi a un compito (prima scolastico e poi in un posto di lavoro), smarrendo ogni passione per l’oltre, per l’operare in comune verso una ricerca della felicità, tema ormai uscito dai percorsi di crescita dei nostri ragazzi? Parole inglesi quali performance o productivity stanno entrando nei sistemi scolastici per fornire indicazioni a breve termine e di facile ma anche prevedibile valutazione, e l’eccellenza si costruisce quale somma di risultati certificabili. Allo stesso tempo, diciamo anche che il mercato del lavoro sta cambiando velocemente, e che non sappiamo quale sarà il 65% dei futuri posti di lavoro; nell’incertezza, aumenta l’ansia e la corsa a trovare rimedi.

Ci siamo innamorati delle soluzioni facili, delle risposte immediate, della velocità, e abbiamo trascurato la complessità del “passaggio”, dello scambio tra economia e società, questo ci sta portando ad una crescita delle aziende che si svincola dalla crescita occupazionale e assistiamo ad un impoverimento delle qualità/capacità umane che possono ancora spostare in avanti la conoscenza ma soprattutto fornire un senso e una direzione a quello che definiamo innovazione e nuova occupazione. Rincorriamo i “posti di lavoro” trascurando l’orientamento, l’elemento essenziale dell’employability: la capacità dei ragazzi di leggere sé stessi e il contesto in questo mondo, di leggere la complessità.

La richiesta di un orientamento maturo si basa su tutti i saperi compreso quelli che abbiamo relegato in fondo alle possibili scelte educative dei nostri ragazzi (lettere, filosofia, storia…), per tracciare un percorso di crescita che attribuisca dignità e libertà ai nostri ragazzi, e oggi questo impegno è direttamente proporzionale allo sviluppo tecnologico e al diffondersi di una cultura del digitale. Siamo a un cambio d’epoca, come scrive Paolo Benanti nel suo ultimo libro Digital Age2, che ri-chiede fortemente l’interdipendenza tra scienza e dimensione valoriale, tra pensare alle innovazioni in sé e creare un ordine che le contiene per alimentarle e giustificarle. Il mondo (digitale) ci ri-propone concetti ai quali avevamo dato una collocazione e una spiegazione, concetti che oggi ri-chiedono una nuova riflessione: sono lo spazio e il tempo, il privato e il pubblico, il vicino e il lontano, l’autoctono e lo straniero, la coscienza e l’automa, il navigare, il viaggiare e il restare fermi, e la metafisica riprende il volo nella sua costante ricerca di un universo possibile. Noi pensavamo “verticale”, loro, i ragazzi, devono pensare “orizzontale”; noi siamo stati cresciuti alla competitività (e la perpetuiamo nei nostri figli) perché ci confrontavamo tra umani, loro devono essere cresciuti alla collaborazione, trasversale tra umani e tra umani e macchine (se ci mettiamo al servizio delle macchine o ci proponiamo in alternativa la partita è sicuramente persa); noi sceglievamo tra elementi certi, la loro visione orizzontale invece allarga fisicamente lo sforzo dei loro sensi, e quindi le capacità di elaborazione cognitiva si espandono di conseguenza, in un continuo divenire, nella modificabilità della realtà. Se non li supportiamo sulla comprensione, sul senso, sui significati, sulla complessità della visione orizzontale ci perdiamo la positività di questa nuova cultura, e anche in questo caso siamo spacciati. La connessione permette lo scambio libero di idee, il confronto, l’ampliamento delle nostre prospettive, l’esplorazione dei limiti conosciuti: il genio in questo modo vola alto, e si può diffondere con minori discriminazioni (studi, aree geografiche, sesso…); inoltre consente di riconsiderare il concetto di distanza, e non solo per evitare un virus, ma per andare oltre le nostre conoscenze. L’allargamento della nostra visione ci restituisce autonomia e sovranità, e questo renderà possibile evitare l’aggrovigliamento che si traduce in un’ossessione da interazioni costanti e continue. Tra la connessione e l’aggrovigliamento c’è il lavoro della scuola che permette ai ragazzi di muoversi e di agire in un mondo di dati per trovare continue relazioni e significati: persone in grado di con-dividere sapendo chi sono e che cosa cercano, persone in grado di sposare il limite per consentire, come affermava Karl Jasper, «all’esistenza di divenire di volta in volta consapevole di sé»3. Il mercato del lavoro vuole vedere la persona nel suo insieme, il suo essere attraverso la sua storia, che lo ha condotto proprio a quel colloquio, questo insieme che è la rappresentazione della nostra meravigliosa unicità ci rende sempre speciali (condizione insita dell’essere umani e ancora non programmabili) e per questo non facilmente sostituibili: ecco perché l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è così complesso.

Corso di falegnameria, 1960

I nostri ragazzi: gli innovatori

I ragazzi oggi sono frammentati, o forse è meglio dire segmentati, da attività, progetti, informazioni, e devono saper e poter ricostruire l’insieme, la loro identità che prende forma e vita nella definizione del “passaggio”, un cammino continuo che permette di ampliare sempre più gli orizzonti dell’innovazione. Non parlo qui di un esercito di scienziati, ma della capacità di ciascuno di pensare e di avere una visione nei più piccoli gesti quotidiani, quelli che prevedono una capacità di collegare saperi tra loro anche apparentemente separati, per vivere il mondo (digitale). Walter Isaacson, dopo essersi impegnato nella ricostruzione bibliografica di alcuni personaggi che hanno contribuito a cambiare la nostra vita negli ultimi anni, nell’ultimo capitolo del suo libro Gli innovatori, dice che tutto dipenderà dalla formazione, o meglio dalle capacità di pensare in modo trasversale, e di appassionarsi al design e all’ingegneria, all’arte e alla scienza: «il futuro verrà da persone capaci di collegare la bellezza all’ingegneria, la poesia ai processori»4. In altre parole, arriverà dagli eredi spirituali di Ada Lovelace, creatori capaci di fiorire nell’incontro dell’arte con la scienza e dotati di uno stupore che li apre alla bellezza di entrambi. Questa visione innovativa diventa rivoluzionaria nel momento in cui assume per la sua diffusione e per il suo utilizzo una dimensione culturale, quando se ne capisce il valore e le possibilità di creare prosperità. È la cultura dei confini (fisici e scientifici), del tempo, dello spazio, dell’intelligenza, della comprensione, della relazione: una nuova geografia che deve entrare nelle scuole, per ri-stabilire il legame tra la nostra esistenza e quella del mondo, altrimenti rischiamo di perderci il nucleo centrale della rivoluzione digitale e le sue prospettive future, riducendo il tutto all’uso individuale di supporti digitali che comportano un aggrovigliamento senza senso e una delega della nostra intelligenza.

Italo Calvino apre una delle lezioni americane5 con una citazione di Dante nel Purgatorio (XVII, 25) che dice «Poi piovve dentro a l’alta fantasia»: dobbiamo continuare a permettete che la pioggia bagni i nostri ragazzi e soprattutto che loro sentano la pioggia: aprire grandi ombrelli per proteggerli serve nel breve periodo, ma non li prepara al mondo (del lavoro). Nel confronto con le macchine, se tutto diventa una ricerca di risposte usciamo già perdenti, se la strada delle ipotesi, dei dubbi, delle domande si chiude davanti alle rassicuranti indicazioni degli algoritmi allora il lavoro della scuola non serve, ma con esso finiranno anche i “posti di lavoro”, perché si ferma il tempo e con esso il futuro.

Per lavorare su questo non ci sono soluzioni facili e rassicuranti, non è solo un problema di gap di competenze, ma di curiosità, attenzione, saggezza, partecipazione: creare il “passaggio” significa sviluppare un orientamento maturo che considera alcuni aspetti fondamentali: l’espressione della volontà, ovvero la percezione intima del proprio io come persona cosciente, per definire le identità e agire la volontà come forza che abilita le scelte individuali; l’espansione dell’esplorazione, non più e non solo imprenditori di sé stessi ma ricercatori, persone in grado di accogliere una riflessione analitica sul mondo per superare positivamente miti, stereotipi, credenze e costruire memoria; la consapevolezza delle scelte, per definire un personale orientamento e una maturità attraverso la quale restituisco al mondo il mio contributo; la padronanza della capacità combinatoria, il riconoscimento e l’acquisizione del metodo attraverso il quale si compongono e si scompongono i singoli saperi, partendo dal funzionamento della nostra memoria che, come dicono i neuroscienziati, è la nostra essenza.

Questo percorso richiede impegno e la definizione di una traiettoria temporale, un periodo di tempo necessario per compiere dei passi; non prevede soprattutto che ci si possa accontentare o rinunciare: se non rinunciamo noi, loro non avranno motivo per farlo. Per realizzare questi percorsi non è mai troppo tardi, ma bisogna evitare quella assurda estraneità che ci allontana dalla realtà, dalla capacità di pensare e di pensarci portandoci verso uno scoraggiamento aprioristico che sviluppa una cultura dominante negativa, dove la parola “lavoro” viene appiattita sul “posto di lavoro” senza un punto di inizio, un poi, un durante, senza la ricchezza della persona che resta in attesa non avendo appreso a occuparsi di sé stessa nel mondo, e in questo dis-orientamento il valore umano, le sue qualità, differenza, fragilità, finitezza, immaginazione, irrequietezza, rischiano di diventare il suo limite.

La scuola sa costruire percorsi e lo può fare, uscendo dall’ansia e dalla segmentazione degli interventi, possiamo guardare alla persona nel rispetto dei tempi e delle modalità espressive di ciascuno. Se non ri-torniamo a riflettere sulle parole, sul “passaggio”, non solo ci continueremo a trovare in una crisi occupazionale che penalizza anche le fasce giovanili, ma rinunceremo alla definizione di un mondo nuovo, quello pensato dai nostri ragazzi, che con buona probabilità sarà migliore di quello che abitiamo oggi.


NOTE

  1. A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000, p. 79. Dello stesso autore si veda anche Il tenore di vita. Tra benessere e libertà, a cura di L. Piatti, Marsilio, Venezia 1993; Diritti personali e capacità, in id., Risorse, valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
  2. P. Benanti, Digital Age. Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società, Edizioni San Paolo, Milano 2020.
  3. K. Jaspers, Filosofia. Chiarificazione dell’esistenza, a cura di U. Galimberti, Mursia, Milano 1978.
  4. W. Isaacson, Gli Innovatori. Storia di chi ha preceduto e accompagnato Steve Jobs nella rivoluzione digitale, trad. it. S. Crimi, L. Fusari, L. Vanni, Mondadori, Milano 2014.
  5. I. Calvino, Visibilità, in Lezioni americane, Mondadori, Milano 2016.
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Paola Parente

è esperta di processi di orientamento alle scelte (scuola, università, mercato del lavoro) e valorizzazione delle risorse umane in azienda.

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