1. Nell’economia di Se questo è un uomo (SQU), il capitolo Il canto di Ulisse pone una serie di interrogativi: Quale valore testimoniale dà, questo capitolo, al resto del racconto? Perché è così “gremito di letteratura”? Perché Levi sente la necessità di rendere così evidente il suo debito nei confronti di Dante? Per tentare rispondere a queste domande, vorrei provare a leggere “da vicino” il capitolo, isolandone i temi e le particolarità, frase per frase, sottolineando – fin da subito – una preliminare discrasia nella ricezione del testo: il lettore associa il capitolo alla particolare lectio di Inf. XXVI, che Primo Levi tiene a Pikolo; essa, però, è solo una parte del testo.
Prima di iniziare, tre brevi annotazioni generali sulla struttura del capolavoro leviano:
- SQU è stato oggetto di una profonda revisione da parte di Primo Levi negli anni tra la prima e la seconda edizione. All’interno di questo “cantiere” Il canto di Ulisse non ha subito mutamenti.
- Il montaggio e la scrittura dei capitoli in SQU non sono sempre consequenziali (ci sono capitoli che vengono scritti prima, però vengono disposti nell’ordine del testo successivamente o viceversa).
- Oltre la successione dei capitoli, anche quella gli eventi narrati negli stessi non è sempre diacronica: la struttura del racconto e la struttura del testo non sono coincidenti.
Date queste premesse, è importante fare attenzione anche ai capitoli che precedono (Esame di Chimica) e seguono (I fatti dell’estate) Il canto di Ulisse, perché l’analisi acquisti maggiore coerenza.
2. Esame di chimica è uno dei momenti cruciali dell’opera leviana, perché è narrata una delle possibili, se non la principale, cause della salvezza di Levi. A dominare le pagine ovviamente è il dialogo tra il protagonista e il dottor Pannwitz, nel quale si può mettere in evidenza come – per alcune clausole, ad esempio l’uso dell’avverbio “formidabilmente” che ricorda “orribilmente” di Inf. V, 4 – ci sia la volontà di Levi di far riconoscere Minosse in Pannwitz. L’essenza infera del capitolo si delinea meglio con l’entrata in scena di Alex, il Kapo, presente in entrambi i capitoli, Esame di chimica e Il Canto di Ulisse.
Alex è violento e brutale. Le parole di Levi tendono a mostrarcelo mentre sale e scende, tra scale e gradini: «Venne Alex nella cantina [basso] del Cloromagnesio»; «Ecco noi (…) seguire Alex su per la scaletta [alto]»; «Alex è nervoso passeggia su e giù [alto e basso]»; «Per le scale [alto], Alex mi guarda torvo». Nella Commedia, a partire da Inf. XVIII, incontriamo un ambiente in cui Alex potrebbe muoversi senza problemi, Malebolge. Nei versi di Dante, il luogo rappresenta un pozzo «largo e profondo», con passaggi simili ai camminamenti dei castelli medioevali e tanto di scale, mura, argini e fossi. In tutta questa parte della Commedia Dante e Virgilio sono alle prese con discese e salite, burroni e scalate impervie. È ravvisabile, quindi, un legame profondo tra Alex e l’insistenza dello scrittore torinese sulla dicotomia “su/giù”, l’abilità compositiva di Levi sta proprio nel disseminare il ritratto del Kapo di alcune qualità e caratteristiche, lasciandole cadere come indizi, prima di arrivare alla citazione esplicita: «Eccoci di nuovo per le scale. Alex vola gli scalini: ha le scarpe di cuoio perché non è ebreo, è leggero sui piedi come i diavoli di Malebolge. Si volge dal basso a guardarmi torvo, mentre io discendo impacciato e rumoroso nei miei zoccoli». La citazione è da Inf. XXI, 33: «sovra i pie’ leggero» dice Dante riferendosi a un diavolo indicato da Virgilio. Il canto XXI dell’Inferno deve essere un luogo della Commedia prediletto da Levi, non è – infatti – questa la prima citazione esplicita che s’incontra in SQU. Nel capitolo Sul fondo, lo scrittore racconta il primo impatto con l’illogicità di Auschwitz: «Qui non ha loco il Santo Volto!/Qui si nuota altrimenti che nel Serchio» (Inf. XXI, 48-49).
Malebolge non è quindi per Levi un luogo sconosciuto, e si può ipotizzare che la citazione nell’Esame di Chimica sia la spia di qualcosa di più narrativamente complesso della semplice equazione Alex = diavolo di Malebolge. Tre sono le prospettive da cui osservare la scena:
- spaziale. Si può notare che Alex precede Levi; Alex è più in basso («si volge dal basso») rispetto a Levi («mentre discendo»);
- psicologica. Levi ha appena sostenuto l’esame di chimica, è certo di essere andato bene, sa che quasi certamente verrà scelto;
- temporale. La scena è situata cronologicamente subito dopo il colloquio con Pannwitz.
Ritorniamo ai versi di Inf. XXI, il diavolo leggero «sovra i pie’» sta trasportando un dannato, che verrà gettato in Malebolge, dove vivrà la sua pena. Questa immagine crea un collegamento con la figura di Minosse (Inf. V): si potrebbe immaginare, almeno in parte, il funzionamento della macchina infernale dantesca. Minosse stabilisce la pena, il cerchio a cui ognuno è dannato, e un diavolo lo accompagna e lo lascia alla sua condanna. Alex è, quindi, rappresentato come un diavolo che scorta l’anima dannata a scontare la propria pena. La posizione descritta, con Alex in basso e Levi più in alto, ritrae il deportato come adagiato sulle spalle del Kapo, a suggerire che il risultato dell’esame di chimica non sia un iter verso la salvezza; ciò che è accaduto durante lo svolgimento dell’esame di chimica rappresenta l’emissione di un giudizio: si comprende, infine, perché Panniwitz riecheggi il Minosse dantesco, in quanto giudice infernale che emette verdetti di dannazione.
3. Ora, prima di leggere Il canto di Ulisse, è utile concentrare l’attenzione sull’explicit del capitolo successivo, I fatti dell’estate, in cui Levi scrive: «I personaggi di queste pagine non sono uomini». Il tema e la tensione tra umano/non-umano sono centrali in tutta l’opera, ma questa chiusa suona eccentrica proprio perché viene pronunciata dopo che il lettore ha letto il Il canto di Ulisse, nel quale si racconta di come la scintilla dell’umanità rimanga viva anche nel lager. Che legame quindi c’è tra la clausola di chiusura de I fatti dell’estate e Ulisse? Nella Storia della letteratura italiana incontriamo un ragionamento chiarificatore: De Sanctis scrive che in Malebolge l’uomo scompare, aggiungendo che l’ultimo a troneggiare nell’Inferno è Ulisse. Proprio come nella Commedia, anche in SQU, l’apparire dell’eroe omerico segna il confine ultimo dopo il quale (cronologicamente e testualmente) i personaggi non saranno più esseri umani.
4. Il canto di Ulisse è diviso in quattro parti (PARTE I, II, III, IV) di lunghezza differente, delineate da uno spazio tipografico; solo la terza, come abbiamo anticipato, riporta l’esplicito riferimento dantesco.
PARTE I. La prima parte del capitolo si apre sulla tensione tra sopra e sotto, tra ombra e luce. I personaggi sono dentro una cisterna «interrata» in cui «la luce del giorno» arriva solo da un «piccolo portello di ingresso». La situazione attiene al ctonio: l’opposizione basso/alto è, come si è visto, centrale per collegare le Malebolge leviane e dantesche, e ritornerà ancora, concludendosi – lo vedremo – con una precisa circolarità. Altro tema fondamentale del capitolo è la babele linguistica e il suo legame, per ora suggerito, con il cibo, a simboleggiarlo l’entrata in scena di Jean/Pikolo con la richiesta di novità sul rancio, declinata in diversi idiomi. Pikolo è il dispositivo drammatico che darà il pretesto per la “tirata” dantesca e la traduzione, e quindi non è casuale che a dominare questa prima parte sia la sua presenza, costruita in antitesi con la figura di Alex. Levi imbastisce una sorta di gioco di specchi, tratteggiando entrambi i personaggi attraverso coppie “qualificanti”. Jean/Pikolo, in lotta contro il campo/morte, è descritto come alto/robusto, mite/amichevole, tenace/coraggioso, abile/perseverante. A sua volta Alex è violento/infido, ignorante/stupido, esperto/consumato, arrendevole/servile. Una tale scelta è così precisa da risultare voluta; i due blocchi di periodi contrapposti finiscono per illuminarsi a vicenda.
PARTE II. Ritorna anche qui il tema dell’alto e del basso – «s’arrampicò fuori» – e quello della luce – «lo splendore del giorno», il «tiepido sole». Compare anche una immagine dell’infanzia legata a una spiaggia a cui si affianca l’immagine dei monti (i Carpazi), suggestione forse legata a Purg. I; certamente la descrizione delle montagne in lontananza si prefigura come una prolessi uno dei versi più iconici della “orazion picciola” (il riferimento alla montagna del Purgatorio).
Qui Levi racconta di sentirsi insolitamente leggero – come non ricordare Alex “leggero sui piedi”? – un atteggiamento che consente ai due protagonisti di ricordare l’infanzia, con tutta la nostalgia per ciò che è stato. In questa parte del capitolo assistiamo al ricrearsi d’un tempo sospeso, non inficiato da quello di Auschwitz. Il tema della lingua e del cibo, di cui Pikolo è collettore, acquisisce una maggiore centralità; durante il loro cammino, Levi incontra un italiano: i due hanno un breve dialogo, di cui Pikolo recepisce solo tre parole «zup-pa, cam-po, ac-qua»: zuppa, campo, acqua sembrano fornire i tre assi di una rappresentazione prospettica del lager. E proprio tramite la lingua, l’imparare l’italiano, si arriverà al momento culminante del capitolo con la recita di Inf. XXVI.
PARTE III. I puntini di sospensione con i quali inizia questa parte, sottolineano un cambio netto del tempo narrativo. Nelle prime due sezioni la forma verbale del racconto era il passato remoto; in questi paragrafi, Levi passa al presente: il segno grafico iniziale individua uno spazio interiore, una situazione, in cui c’è un’assenza momentanea della pena del lager (forse, l’immagine della spiaggia è veramente una spia della calma serenità di Purg. I). Se le prime due parti erano narrazioni “fattuali”, qui tutto il dialogo avviene in interiore homine, come se Levi ricordasse a sé stesso di quando recitò a Pikolo i versi di Dante su Ulisse.
La PARTE III si apre con un interrogativo. Perché il canto XXVI, si chiede Levi, e, modificandolo leggermente, potremmo chiederci noi: Perché la Commedia? La questione travalica la semplice scelta del brano da tramandare a Pikolo e tocca la stessa matrice compositiva di SQU. La risposta a questi interrogativi si muove su tre piani.
a) Il dato centrale della lectio leviana su Dante è il funzionamento della memoria. Anche quello della memoria è tema dantesco per eccellenza, in particolare del Paradiso, quando la rimembranza è richiamata dal poeta per raccontare l’oltraggio della visione di Dio. Il dialogo Pikolo-Levi è anche un perfetto esempio di come funzioni la memoria umana: in questa parte molte sono le occorrenze in cui Levi sostiene di non ricordare, o di non ricordare perfettamente, o che descrive sé stesso nello sforzo di ricordare qualcosa di cui riesce a salvare solo alcuni brandelli.
Il processo di ricordo e recita del canto è, inizialmente, «lento e accurato». Dopo i primi sei versi, però, «[i]l nulla. Un buco nella memoria», quindi uno scampolo di verso, poi «altro buco», poi un altro verso accompagnato da un dubbio: «Sarà poi esatto?». Dopo tali perplessità, Levi è sicuro e cita il verso «ma misi me per l’alto mare aperto», quindi incontra nuovamente un’indecisione: Levi sa che “aperto” fa rima con “diserto”, «ma non ramment[a] più se viene prima o dopo», perciò «con tristezza» è «costretto a raccontarlo in prosa». Levi deve convenire che non ha «salvato che un verso» e dopo «ancora una lacuna, questa volta irreparabile». Anche il dato meramente numerico indica questa fatica e fallacia della memoria: dei circa sessanta endecasillabi che formano l’orazione di Ulisse solo una ventina vengono conservati e recitati da Levi.
Questa messinscena di come funziona la memoria è fondamentale in Levi, e centrale per comprendere le ragioni del testo. Se SQU è un libro testimoniale, lo è in un modo particolare. La memoria, pare suggerire Levi mentre ne descrive il funzionamento, è come un filtro che non tiene tutto ma costruisce, salda, aduna pezzi differenti e li lega in un racconto che non è mai un semplice dato di realtà o una descrizione delle cose come sono, ma è rappresentazione e studio (si ricordi l’introduzione a SQU, in cui il testo è definito «studio pacato dell’animo umano»).
b) Il processo compositivo di SQU è in un certo senso simile al processo che Levi mette in scena con Pikolo. Anzi, si potrebbe leggere questo capitolo come una mise en abyme del rapporto tra narratore e lettore. Avevamo accennato nelle parti precedenti alla centralità del cibo, e di come fosse riconducibile al tema della parola; a chiudere la triangolazione è la memoria: «Darei la zuppa di oggi per saper saldare ‘non ne avevo alcuna’ con il finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve. Il resto è silenzio».
Levi darebbe la sua zuppa per ricordare un verso perduto: retoricamente è una iperbole, ma nella realtà concreta del campo, direi nella sua realtà testimoniale, questo è il vero “folle volo” compiuto da Levi/Ulisse: rinunciare alla zuppa significa rinunciare alla vita, alla possibilità di essere vivi il giorno dopo; sembra impossibile che un deportato, definito altrove come “fame vivente”, decida di rinunciare al rancio per il verso di una poesia. Interessante rilevare, inoltre, come tale rinuncia venga esplicitata da una palese quanto sintomatica citazione letteraria (l’Amleto di Shakespeare); la parabola della memoria si conclude, quindi, con il silenzio: la memoria e il suo esercizio forsennato – gli occhi chiusi, le dita morsicate – conducono al silenzio, all’abbandono della parola, alla presa d’atto che non tutto può essere detto.
c) Tale non detto, questo «qualcosa di gigantesco», chiude la terza parte del capitolo. Levi, nelle ultime battute, afferma che i versi di Dante indichino «il perché del nostro destino, del nostro essere qui oggi». Cosa significano queste parole, seguite dai puntini di sospensione (quasi a indicare una epoché)? Perché il destino di Ulisse indica “il destino dei deportati”? E a quale “qui” e a quale “oggi” si riferisce il narratore?
La lezione più facile a questa domanda è l’interpretazione dell’episodio di Ulisse come “prefigurazione” dell’umanesimo: il desiderio della conoscenza, la voglia di libertà, l’essere nati per seguire la virtù e il conoscere. Non mi soffermo su questa prima esplicazione, perché oltre essere patrimonio comune, mi pare meno interessante. C’è, però, una risposta più problematica: Dante condanna Ulisse all’inferno ma, nel contempo, partecipa della sua esistenza, ne è affascinato (così come lo è di Francesca, di Brunetto Latini o di Ugolino), pur non dimenticando mai che costui è un dannato, un peccatore. Ulisse è l’uomo dall’ingegno multiforme, rappresenta l’intelligenza che inganna e vince (è punito per l’inganno del Cavallo); il conoscere di Ulisse è, quindi, ambiguo: la sua virtù è la sua dannazione.
Tornando al capitolo dell’Esame di chimica, bisogna registrare l’inquietudine di Levi dopo aver colloquiato con Pannwitz, la sua posizione fisica rispetto a Alex nello scendere le scale: non c’è sollievo, o meglio che Levi, adombra un sentimento di dannazione. Levi ha passato l’esame; la sua intelligenza, cultura, abilità lo hanno salvato. Per salvare sé stesso, ha dovuto superare un esame che altri hanno fallito – ne deduciamo che costoro devono essere tornati tra le fila dei prigionieri “normali” – mentre già prima del colloquio sapevamo che si sarebbe salvato solo chi fosse diventato “specialista”.
La figura di Ulisse, la conoscenza che egli incarna, in Levi come in Dante è dunque ambigua: se l’eroe omerico raffigura nella Commedia una specie di rottura, qualcosa che affascina e nel contempo è percepita come folle perché peccaminosa, in SQU, che cosa rappresenta? Ulisse è il segno della possibilità di fuga, della possibilità di ricordare ciò che è stato prima e, al contempo, simboleggia l’ambigua potenza del sapere che fa in modo di salvarsi in vece di qualcun altro. Ulisse è il “perché” del destino dei deportati, e di come loro due, Pikolo e Primo, siano ancora vivi, e soprattutto l’eroe omerico racconta “perché” Levi sia ancora vivo nell’oggi (l’oggi di quando scrive il testo) e nel qui (a Torino). Ulisse, quindi, adombra l’idea che ogni uomo sia Caino di qualcun altro: in questa riflessione si taglia all’orizzonte terribile quel «come altrui piacque», nell’“altrui” Levi rivede l’angoscia originaria che Dio ha provato nel camminare tra le acque primigenie, così simile all’angoscia di essere sopravvissuti dei deportati.
PARTE IV. Arrivati alla fine di questa lettura e di questo capitolo siamo nuovamente in fila per la zuppa: intorno a noi, le voci, la confusione delle lingue che domina il campo. Potremmo paragonare Auschwitz a una Babele, per come l’episodio biblico è caratterizzato dall’idea di una hybris dell’uomo che sfida Dio per mezzo della sua intelligenza e della sua cultura, e da ciò ne suscita la condanna. Ritorna, infine, una connessione tra cibo e lingua, perché le diverse lingue annunziano (come in un vangelo, come in una strana Pentecoste) che cosa ci sarà da mangiare. E proprio in questo rumoreggiare da formicaio, una scena di massa vivace, in cui la gente s’accalca, arriva, inaspettato, l’ultimo verso di Dante, che – come se fosse la voce di Dio (chi pronuncia questo verso? Levi/personaggio, il narratore? Dio?) – conclude il canto XXVI, il capitolo e la vita dei deportati:
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso
Note
* Il saggio, con ampi rimaneggiamenti e revisioni, è stato pubblicato inizialmente come postfazione nel libro di Elisa Occhipinti, Primo Levi e la coscienza poetica, Divergenze editrice, Belgioioso (PV) 2021. Ringrazio l’autrice e l’editore per la disponibilità.