Idee di merito a confronto: Stati Uniti ed Europa continentale

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Le procedure di valutazione dei risultati scolastici e di selezione degli studenti migliori in Europa e negli USA, spesso confuse nel discorso pubblico in una omogenea categoria di “merito”, sono il frutto di diversi contesti culturali e di diverse concezioni della classe dirigente.

 

laureati della Kennedy School of Government alla Harvard University. Foto Joe Hall, fonte Wikimedia.

Il 29 settembre del 1959, durante la discussione della presentazione al Committee on Educational Policy di Harvard dei dati sulle ultime selezioni dal parte del responsabile delle ammissioni di Harvard Richard G. King, Crane Brinton1 chiedeva al presentatore e agli astanti: «Do we want an École Normale Supérieure, a “cerebral school” aimed solely at preparing students for the academic profession?», con una domanda retorica che presupponeva un “no” come risposta.

Autore e contesto della domanda erano significativi. A istituire il paragone, che dava per scontata una differenza profonda nel concepire il ruolo dell’istruzione di élite e della selezione del suo pubblico privilegiato e che implicitamente faceva uscire vincitori gli USA, era un riconosciuto esperto di storia e cultura europee, in particolare proprio di quelle francesi2. E prendeva questa posizione, in un consesso così prestigioso per il tema, due anni dopo lo shock generato nell’opinione pubblica statunitense dal lancio dello Sputnik da parte dell’URSS, un evento destinato a mettere in profonda discussione i percorsi di formazione scolastica e di preparazione scientifica degli studenti nordamericani, finanche auspicando – quantomeno da parte dei centri di ricerca del Pentagono, particolarmente accesi nella critica per la loro funzione strategica nella difesa nazionale – un recupero delle forme più rigorose di formazione culturale “all’europea”3.

I caratteri e le ragioni di questa differenza – che sono poi le ragioni per cui un avvicinamento a criteri riconoscibili come più “europei”, pur così autorevolmente proposto da ambienti assai ascoltati dalla presidenza di Eisenhower, non ebbe luogo – sono stati magistralmente esposti dal sociologo Jerome Karabel in uno dei lavori fondamentali sulle dinamiche socio-culturali dell’educazione universitaria di élite d’oltreoceano4.

Il caso statunitense e quello francese oggetto del confronto – assumeva Karabel riprendendo un aspetto chiaro fin dagli studi pionieristici di sociologia dell’istruzione superiore degli anni Sessanta – avevano alla loro origine un tratto comune, ovvero quello di un processo rivoluzionario che aveva segnato una profonda discontinuità con la classe dirigente del passato e la necessità di prepararne e costituirne una nuova su altre basi che non fossero quelle del privilegio di nascita5.

In Francia, però, ci si poté appoggiare alle istituzioni centralizzate e uniformi faticosamente messe a punto dall’antico regime assolutistico, e recentemente ampliate al contesto scolastico dopo che la soppressione della Compagnia di Gesù nel regno nel 1764 aveva condotto alla rapida formazione di un corpo docente laico alle dipendenze dello Stato attraverso l’esame di agrégation. Così, quando il governo rivoluzionario dovette dar seguito alla richiesta dell’art. 6 della Dichiarazione dei diritti del 1789, in base al quale «tutti i cittadini […] erano ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo le loro capacità, e senza altra distinzione che quella della loro virtù e dei loro talenti», e successivamente l’amministrazione napoleonica dovette selezionare la propria classe dirigente dalla nuova “aristocrazia borghese” che formava i propri figli nei lycées dello Stato, si poté fare affidamento su un bagaglio culturale omogeneo e condiviso, individuato dai programmi scolastici ministeriali e fatto proprio nel lavoro didattico dalla “corporazione” dei docenti.

Il modello di selezione, destinato a conoscere per la sua efficacia e legittimazione culturale diffusa una continuità che andò ben oltre la durata dei governi che l’adottarono e una capacità di farsi modello per l’estero ben maggiore di quella della Francia moderna di inseguire le proprie velleità di egemonia “imperiale” sull’Europa, divenne quindi l’esame di accesso all’École Normale, tradizionalmente ingranaggio nevralgico per la scuola francese, poiché strumento di selezione dei docenti per il sistema di istruzione di cui costituiva l’ideale vertice, e presto destinato con l’espansione dell’accesso alle scuole secondarie a non selezionare semplicemente insegnanti, ma a individuare la spina dorsale intellettuale del paese. Un esame che, di fatto, misurava il livello di approfondimento e di dimestichezza coi contenuti e coi problemi fondamentali delle diverse materie scolastiche umanistiche e scientifiche introdotte in tutto il paese coi comuni programmi liceali – e di solito ulteriormente approfondite nei corsi preparatori alle ammissioni nelle Grandes Écoles di cui la Normale era l’esempio più fulgido.

Il sistema scolastico degli Stati Uniti, formatosi in modo disorganico secondo la responsabilità e l’impegno delle diverse amministrazioni statali, a loro volta generalmente propense soprattutto a sostenere gli sforzi delle comunità locali di dotarsi degli istituti d’istruzione di cui si riteneva che i contesti sociali ed economici di riferimento avessero di volta in volta bisogno, non offriva la stessa uniformità culturale e formativa nell’esperienza che avviava al college. Si può anzi affermare che nella seconda metà dell’Ottocento la cultura scolastica nordamericana si sia consapevolmente allontanata dai modelli di istruzione secondaria europei, pensati con la loro segmentazione a formare strutturalmente in ogni percorso scolastico cultura e identità dei futuri appartenenti a una determinata classe sociale, in favore di curricoli meno rigidi e adeguati a un paese in cui la mobilità sociale era decisamente più elevata6.

Impostare in un sistema del genere una selezione che oggi diremmo “meritocratica” imponeva un approccio completamente diverso da quello europeo. Intanto, era necessaria l’introduzione di un comune criterio regolatore, che valutasse in forma univoca esperienze culturali così diverse individuando le buone attitudini senza potersi poggiare su programmi disciplinari condivisi. È stata sostanzialmente questa, in fondo, la funzione dei test di rendimento come il SAT, divenuti sempre più decisivi per l’accesso all’istruzione superiore da quando negli anni Trenta il presidente di Harvard James Bryant Conant decise di istituire un duraturo e imitato modello di comportamento istituzionale. Egli ne fece, infatti, l’elemento portante per l’ammissione alla sua università attraverso la National Scholarship, il dispositivo che in breve tempo migliorò sensibilmente il livello del corpo studentesco della prestigiosa università del Massachusetts e ne diversificò la provenienza scolastica affiancando un numero crescente di harvardiani di prima generazione alla tradizionale aristocrazia “di sangue” dei figli degli alumni provenienti dal New England7.

Rispetto alla selezione basata su un rigoroso esame con programmi disciplinari fissati e condivisi, che dava per scontata un’esperienza scolastica il più possibile comune, era un tentativo di individuare e “misurare” quantitativamente le qualità intellettuali sviluppate in esperienze scolastiche tra loro profondamente diverse, tentativo finalizzato a trovare studenti smart e pronti a crescere piuttosto che culturalmente già formati.

Ma le differenze tra vecchio continente e nuovo mondo non finiscono qui. La selezione basata sulla qualità di attitudini e performance, infatti, fin dall’inizio ha affiancato altri criteri di ammissione alle maggiori università statunitensi, divenendo sempre più centrale nelle procedure ma senza mai sostituirli del tutto. Già da fine Ottocento, infatti, il “merito” ricercato nei futuri studenti dagli admission boards dei maggiori istituti d’istruzione superiore nordamericani era un concetto complesso, in cui le capacità intellettuali – già di per sé caratterizzate da una mente brillante più che da un interesse per la cultura fine a sé stesso – si univano a un carattere e a un generale atteggiamento verso la vita adeguati a far parte di ciò che le top schools avevano l’obiettivo di formare, ovvero la prossima classe dirigente del Paese. Una classe dirigente caratterizzata non soltanto da una diffusa e provata capacità spesso innata di leadership, ma a lungo interpretata come naturaliter bianca, maschile e cristiana. In questo senso valutare come espressioni degli aspetti ricercati nei nuovi leader elementi del curriculum come la partecipazione ad attività extracurricolari di prestigio, ad esempio ad attività sportive agonistiche o filantropiche, è a lungo risultato strumentale per concentrare le selezioni sui giovani wasp a scapito, ad esempio, di altrettanto istruiti ragazzi di origine ebraica le cui famiglie erano escluse dalle realtà associative promotrici di tali momenti di impegno. La valutazione delle attitudini accademiche, insomma, ha generalmente rappresentato solo un tassello, certo sempre più importante man mano che accogliere studenti con un rendimento scolastico superiore alla media è divenuto conveniente ai maggiori atenei al fine di creare ambienti adeguati alle aspettative dei finanziatori pubblici e privati, di una definizione di “merito” a geometria variabile, attraverso la quale gli admission boards disegnavano una classe dirigente del futuro attraverso le qualità che avrebbero reso più automatica la sua cooptazione in quella già esistente8.

Alla luce di ciò appare più chiaro perché nel corpo docente di Harvard del 1959 si rifiutava l’idea di un’ammissione basata esclusivamente su un esame di competenza disciplinare: non solo perché tecnicamente impossibile nel sistema scolastico statunitense, ma perché da un lato concentrata sulla valutazione di un’unica dimensione delle complesse personalità che si intendeva promuovere, dall’altro troppo rigida per garantire al decisore i margini di libertà necessari a modellare il merito in base alle esigenze socio-culturali e politiche del momento.

Questo significa, dunque, che una selezione impostata su un bagaglio disciplinare condiviso da un sistema d’istruzione pubblico aperto e diffuso, come quella dell’École Normale, è davvero più corretta perché effettivamente capace di scardinare le appartenenze sociali attraverso l’adeguata selezione basata sulla qualità? Gli studi ormai classici di Pierre Bourdieu ci hanno insegnato altro, attraverso la decostruzione delle dinamiche sociali sottese a quel tipo di ammissione agli alti studi.

Se è vero, infatti, che l’affermazione di eccezionali casi individuali è possibile e prevista in qualsiasi forma di selezione per merito, da un lato è altrettanto vero che l’acquisizione delle conoscenze, delle competenze e degli atteggiamenti verso la cultura necessari a risultati eccellenti nelle prove di selezione è frutto di un percorso di eccellenza scolastica lungo e complesso in cui non solo il pur importante sostegno materiale, ma ancor di più il “capitale culturale” ereditabile dal proprio contesto famigliare svolge un ruolo fondamentale, seppur differente nei diversi campi disciplinari. Ciò appare tanto più vero in una situazione in cui i risultati di questo percorso sono poi misurati in un episodio puntuale, quale appunto un esame di ammissione, che rappresenta l’esperienza iniziatica al gruppo per definizione chiuso della riconosciuta “nobiltà di Stato” intellettuale, amministrativa e professionale9.

Del resto, che gli esiti di una selezione basata secondo questi principi possano essere ben lontani dagli effetti di “distruzione creatrice” della classe dirigente messi in conto in epoca rivoluzionaria risulta chiaro riflettendo su una delle adozioni di un simile approccio meritocratico più vicine a noi. Formatosi a Pisa nella diretta derivazione istituzionale dell’École Normale parigina, nella sua riforma del 1923 Giovanni Gentile impostò le rigorose pratiche selettive amministrate dalle commissioni per gli esami di Stato preuniversitari al termine della scuola secondaria, alla conclusione di un percorso di formazione culturale alla prova impostato secondo programmi disciplinari ministeriali condivisi, allo scopo di fare del sistema d’istruzione italiano lo strumento di definizione e di perpetuazione delle differenze gerarchiche nella società attraverso la sanzione della partecipazione dei “migliori” ai più alti livelli della cultura nazionale10.

In conclusione, questo rapido confronto tra due differenti concezioni della meritocrazia, in parte figlie di uno sviluppo storico in cui come si è visto i loro protagonisti hanno agito mettendo l’una in consapevole antitesi con l’altra, lascia almeno due aspetti su cui riflettere. In primo luogo, in nessuna situazione è possibile individuare in modo incontestabile che cosa sia effettivamente “merito”, senza fare riferimento ai valori di una società e alle aspettative che essa ripone nella propria classe dirigente e intellettuale. Ogni ricerca del merito è insomma figlia del proprio contesto, e – questo è il secondo elemento da valutare – non solo valori affermati e priorità condivise, ma anche gli assetti di potere intervengono a condizionare quel che si cerca e il modo in cui lo si cerca. Le classi dirigenti che gestiscono le procedure di selezione meritocratica, e i loro intermediari istituzionali nei casi, comuni nelle società sviluppate in età contemporanea, in cui essa procede attraverso la definizione di un percorso scolastico, disegnano attivamente attraverso i risultati attesi una loro idea di società, individuano e perpetuano valori che spesso avvantaggiano chi già vi partecipa per provenienza sociale e famigliare, e fanno in modo che le nuove energie introdotte attraverso meccanismi di promozione “dal basso” arrivino al traguardo attraverso la condivisione di tale bagaglio culturale e delle opzioni etiche di fondo11. È in fondo questa tendenza “riproduttrice” a segnare le varie opzioni di approccio meritocratico e a rendere sempre auspicabile una riflessione critica per la loro decostruzione.


NOTE

  1. Cfr. Harvard University Archives, Cambridge (MA), Harvard’s Institutional History and Records, Minutes of the CEP Committee, 6 ottobre 1959.
  2. Per ulteriori informazioni su di lui e sulla sua produzione, si veda ad es. la scheda bio-bibliografica presentata dall’American Historical Association, di cui Crane Brinton fu presidente nel 1963: https://www.historians.org/about-aha-and-membership/aha-history-and-archives/presidential-addresses/crane-brinton/crane-brinton-biography.
  3. Per la ricostruzione di questo dibattito, il riferimento principale resta A. Hartman, Education and The Cold War. The Battle for American School, Palgrave Macmillan, New York 2008.
  4. Il riferimento è, naturalmente, al suo The Chosen. The Hidden History of Admissions and Exclusion at Harvard, Yale, and Princeton, Houghton Mifflin, Boston-New York 2005.
  5. Per questo, si vedano le riflessioni raccolte nel fondamentale contributo collettaneo pubblicato originariamente come Universität im Umbau: Anpassung oder Widerstand?, numero monografico di «Archives européennes de sociologie», 3/1962, e uscito in lingua italiana come L’università in trasformazione, Edizioni di Comunità, Milano 1964: cfr. in particolare J. Ben-David, A. Zloczower, Università e sistemi accademici nelle società moderne, pp. 9-70, e R. Aron, Alcuni problemi delle università francesi, pp. 97-128.
  6. Sul tema rinvio soprattutto a H.M. Kliebard, The Struggle for American Curriculum, 1893-1958, Routledge, London-New York 2004 (1987).
  7. Su questo passaggio storico per la storia universitaria nordamericana, cfr. M. Keller, P. Keller, Making Harvard Modern. The Rise of America’s University, Oxford University Press, Oxford-New York 2001, pp. 13-46.
  8. Ho cercato di riassumere l’ampia letteratura sull’argomento nel mio Il dibattito sugli standard tests nel mondo educativo statunitense. Un quadro di riferimento, in «Nuova Secondaria», 1, 2015, pp. 20-24, a cui rinvio per ulteriori approfondimenti.
  9. Il riferimento principale per questa riflessione è naturalmente il suo noto lavoro Noblesse d’État. Grandes Écoles et esprit de corps, Éditions de Minuit, Paris 1989.
  10. Sulla riforma Gentile si è stratificata una grande tradizione di studi, destinata ad arricchirsi ulteriormente con gli interventi in cantiere quest’anno per la ricorrenza del suo centenario. Per un primo orientamento, si veda per ora G. Tognon, La riforma Gentile, in M. Ciliberto (a cura di), Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2016, pp. 421-427.
  11. Non a caso, a James Bryant Conant e alla sua generazione di speakers in favore dell’apertura sociale della classe dirigente statunitense secondo criteri meritocratici, al fine di ampliare le basi di consenso per un sistema sociale che assumeva come base operativa il capitalismo maturo e il rispetto del successo individuale, si attagliava perfettamente la definizione di «conservative reformers» sviluppata da Ellen C. Lagemann nel suo The Politics of Knowledge. The Carnegie Corporation, Philanthropy, and Public Policy, Wesleyan University Press, Middletown CT 1989.
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Andrea Mariuzzo

è professore associato di Storia della pedagogia all’Università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa principalmente di storia dell’istruzione superiore, storia delle politiche e delle riforme scolastiche, e di storia dell’identità docente tra Otto e Novecento. Il suo ultimo libro è “Scuola e politica negli Stati Uniti (1980-2020)”(Morcelliana Scholé, 2022).

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