Ice bucket challenge: la doccia gelata che fa bene

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Di solito il tormentone dell’estate è una canzone. Quest’anno è stato il gesto, ridicolo in sé, di buttarsi una secchiata d’acqua gelata in testa davanti a una telecamera. Per chi fosse stato nella giungla negli ultimi venti giorni (ma solo per lui) ricorderemo che l’Ice bucket challenge è stata una campagna virale a scopi benefici che ha riscosso un enorme successo, raccogliendo fondi importanti per la ricerca e l’assistenza ai malati di SLA, la sclerosi laterale amiotrofica.

Enorme successo, sì: un’iniziativa che, nata in America, è arrivata fino a noi coinvolgendo alcune delle personalità più importanti del mondo della politica, del cinema, della musica, dello sport, raccogliendo in un lasso di tempo brevissimo una cifra impensabile per una malattia così poco considerata (e conosciuta), mi sembra un’operazione a dir poco riuscita.
Il meccanismo è semplice ma efficacissimo: attraverso la nomination di altre tre persone, il testimonial diffonde il gesto della secchiata, l’invito a donare e soprattutto attira l’attenzione su qualcosa cui mediamente si pensa solo al momento del cinque per mille o della beneficenza che ognuno si propone di fare durante l’anno.
Quindi da un giorno all’altro ecco che la rete si riempie di video di docce gelate: qualcuno l’ha fatto rischiando la vita, qualcun altro si è preso in giro e c’è anche chi ha aderito magnificamente senza rischiare di ammalarsi (o di sentirsi un po’ imbecille anche se solo per poco e per una buona causa).
Il bilancio è presto detto: quasi cento milioni di dollari raccolti tra donazioni di vip e di fan divertiti. Inutile dire che qualcuno dei nostri connazionali ha gridato allo scandalo.
Tra le accuse più gettonate che si possono leggere in rete quella ovvia di farsi pubblicità, o, ancora peggio, di farsi pubblicità mentre si fa beneficenza. Una mancanza di pudore imperdonabile. La carità sbandierata non piace, soprattutto quella che ci fa sentire manchevoli. O forse davvero questi detrattori fanno continue donazioni alla ricerca e avvertono come una beffa i riflettori puntati sui benefattori occasionali.
Quello che probabilmente non è lampante a queste persone però è che i suddetti vip sono già famosi, e che proprio in questo sta l’efficacia della campagna. E non importa quanti soldi abbia donato ogni singolo personaggio o quanto ne abbia guadagnato in promozione personale: non crederò che Lady Gaga sia una persona sensibile solo perché ha partecipato alla cosa e non mi interessa che lo sia o no. Ciò che conta è che con la sua comparsata abbia ricordato ai suoi fan che possono fare qualcosa di piccolo per una causa importante. (A proposito, andatelo a vedere il video di Lady Gaga: non sono una fan ma l’ho trovato spassoso).
Quando sembrava che il più grave capo d’accusa fosse il mancato pudore, poi, si è aperto un fronte sul versante opposto: non bastava il gesto che sottintendeva la donazione, si chiedeva di vedere l’assegno. Ancora una volta, una pretesa che non ha tenuto conto del fatto che se Justin Timberlake gira un video in cui dichiara di sostenere una causa, lo sta già facendo prestando la sua immagine a quella causa.
Sembrando un imbecille, si potrebbe dire, citando il terzo capo d’accusa degli accaniti detrattori. Facendo cioè una cosa inutile, un po’ ridicola, un po’ frivola, distante anni luce dalla tragicità di una diagnosi di SLA.
Ebbene, sì. Così.
Può far rabbrividire il fatto che la richiesta di supporto di queste associazioni venga così trascurata finché un giochino modaiolo non la diffonda e ottenga un riscontro così plateale. Ma intanto ammettiamo pure che non abbiamo mai parlato in modo così diffuso di SLA e della necessità di sostenere la ricerca come durante l’ultimo mese. Allora qual è il problema? Il modo in cui se ne parla o che non se parli affatto?
Non credo si possano considerare più che provocazioni le prese di posizione assurde che la rete ha dispensato generosamente pur di svilire l’Ice bucket challenge. Potrei limitarmi forse a citare i preoccupatissimi della scarsità di risorse idriche ai quali si potrebbero ricordare i gavettoni fatti fuori scuola e al mare, per nessun’altra causa che non fosse quella di rendere trasparente la maglietta di questa o quella.
Quello che invece mi ha colpito è stato il modo in cui nel nostro Paese, nell’ambito di questa mobilitazione collettiva, qualcosa abbia stonato.
Il moralismo del facci-vedere-i-soldi. La gara del vip locale a sembrare più buono e sensibile e meno a caccia di pubblicità dell’altro. L’aggressività del “dono meglio io”. Lo spettacolo imbarazzante di cariche pubbliche che pensano di poter aderire alla parte frivola di quest’operazione quando il loro dovere consisterebbe semmai nel garantire a quella causa di essere sostenuta, a telecamere spente, in modo costante ed efficace.
Dov’è finita la carità cristiana nascosta, quella che non si gonfia e non si vanta e che il papa e molti hanno citato sui social network come estrema pecca della suddetta buffonata? Non lo so. So che la partecipazione invisibile non c’entra molto con la mobilitazione collettiva. Che è impossibile e ridicolo vantarsi di una donazione che è una goccia nel mare quando si parla di sostenere ricerca e assistenza ai malati. Che per quanto mi riguarda siamo stati tutti nominati da molto prima che scattasse questo gioco, ma che ben venga il gioco se ce ne ha fatto rendere conto.
Sarebbe ora poi che cominciassimo a sottrarre iniziative simili alla categoria della beneficenza e ci sforzassimo di vederle per quello che sono: un’espressione necessaria del nostro essere vivi e umani. Non dobbiamo impegnarci a lottare contro la SLA in quanto malati o parenti di malati o moderne dame di carità. Dobbiamo farlo perché ci riguarda tutti.
L’unica questione aperta ora che l’iniziativa va diffondendosi tra i nostri amici di Facebook è la semplice domanda: tu lo faresti? La risposta, per quanto mi riguarda, è no. Non credo che mi tirerei una secchiata d’acqua gelida addosso rendendo pubblico il video. E non lo farei perché, nel mio caso, sarebbe un gesto privo di riscontro: nessuno donerebbe dei soldi alla ricerca perché una perfetta sconosciuta rischia la bronchite. Mi accontento di essere il target dell’operazione, quella che dovrebbe sensibilizzarsi, donare e segnalare ad amici e follower il sito italiano della lotta alla SLA e i video dell’iniziativa.
A proposito, c’è chi la doccia gelata l’ha fatta in modo imbattibile. E da lui non mi aspettavo niente di meno.

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Giusi Marchetta

vive a Torino, dove insegna. Ha pubblicato la raccolta di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di mezzo, 2008), vincitore del Premio Calvino, e i romanzi L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011) e Dove sei stata (Rizzoli, 2018). Ha fondato e coordina il podcast del Tavolo delle ragazze (nato da Tutte le ragazze avanti!, Add editore). Per Einaudi ha pubblicato Lettori si cresce (2015) e ancora per Add il saggio Principesse, (eroine del passato, femministe di oggi) sugli stereotipi di genere nella cultura di massa

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