Sono entrata a far parte del tavolo circa un anno e mezzo fa, nell’aprile della terza superiore. Ricordo che al tempo avevo da poco iniziato a sentire alcune puntate del podcast curato dalle ragazze dal tavolo e masticavo il femminismo e l’intersezionalità come un bambino durante lo svezzamento mastica le prime pappe: con iniziale diffidenza, una buona dose di coraggio per ammettere l’aggressività necessaria all’atto stesso della masticazione, e certamente con un grande stupore.
Non che prima non avessi mai sentito parlare di femminismo: ma dal racconto che me n’era stato fatto fino a quel momento ne avevo tratto un’immagine che è stato piuttosto difficile da abbandonare, di movimento residuale, settario e polarizzante, figlio d’un odio immotivato verso il genere maschile. A vedere oggi come ancora se ne parla (o si trascura di farlo) nei canali di comunicazione tradizionali e spesso anche in quelli digitali, nel mondo dell’intrattenimento e dell’informazione, non riesco a farmi una colpa esclusiva, privata di questa mia mancanza. Non ci sono stati a educarmi giornalismo e rappresentazione, non c’è stata la mia famiglia, non c’è stata la scuola: e quindi, dove altro avrei potuto incontrarlo?
Ricordo che in quel periodo in classe studiavamo Boccaccio e Petrarca, analizzavamo la figura femminile così com’era stata concepita dai maestri della nostra lingua italiana. Avremmo dovuto familiarizzare anche con l’arte rinascimentale, con la grandezza ineguagliata di Michelangelo e Raffaello, se solo le lezioni di storia dell’arte fossero continuate da casa durante il lockdown. Ero innamorata dello stoicismo e di Seneca in particolare, e sì, Aristotele s’era lasciato a metà, ma le persone s’ammalavano e morivano dappertutto come mosche e quindi il sacro comandamento dei programmi ministeriali, che pure non avendo più valore giuridico continuano a guidare l’agire di gran parte del corpo docente, s’era potuto aggirare. Non m’interrogavo troppo su come la nostra lingua potesse essere figlia di soli padri, o sul perché in millenni di storia l’unica donna capace di fare arte fosse stata, stando al manuale, Artemisia Gentileschi.
D’altronde la scuola in quanto ai fatti non lascia spazio a dubbi: fin da subito ci viene spiegato come nemmeno le donne della civilissima Atene, culla della democrazia, potessero votare; che le prime a chiedere d’essere considerate com’esseri umani a tutti gli effetti faranno capolino nella storia dopo millenni, capeggiate da una tale di cui di solito non ci si spreca neanche a fornire il nome durante la rivoluzione francese, ghigliottinate anche loro una ad una e poi di nuovo a capo chino e in silenzio fino al 25 aprile del 1945, quando finalmente in Italia il diritto di voto ci cadrà magicamente in testa dal cielo.
Così terminava la storia che m’era stata insegnata. Come i pesci di cui scrive Elliot, sguazzavo in narrazioni che mi sommergevano intera, senza che fossi in grado di vederne l’artificialità, il loro valore determinante nello stabilire i termini entro i quali ci si potesse muovere nel mondo. Ma la storia non è geometria: non si può procedere per enunciati e loro dimostrazioni. E serve a ben poco possedere un elenco fittissimo di date ed eventi storici senza che si riesca a coglierne le strutture di potere immanenti, più profonde, che attraversano la storia tutta fino a oggi, che continuano ad agire con forza sul presente, seppure in maniera meno esplicita e in realtà più subdola rispetto al passato.
Per me entrare nel tavolo, ricevere suggestioni e stimoli diversi da quelli che mi erano sempre stati imposti dalla scuola, disporre di uno spazio di dialogo e riflessione collettiva ha significato rimediare per molti versi alla mancanza che in questo senso m’era stata lasciata dalla scuola fino a quel momento, fornendomi da un lato gli strumenti per mettere assieme i pezzi di quanto avevo immagazzinato solo passivamente, e dall’altro i pezzi mancanti, la consapevolezza stessa della loro mancanza, di un’immagine che finalmente riuscii a vedere come profondamente incompleta. Ha significato la possibilità di sentire e amplificare quel coro di voci escluse dalla narrazione che l’umanità, o per lo meno una sua metà, ha deciso di fare di sé.
Ma per quanto io sia grata d’aver avuto la possibilità di farne parte, e non possa che augurarmi che quante più ragazze possibili abbiano simili opportunità, che fioriscano ovunque gruppi d’attivismo che possano essere luoghi di scambio di tali saperi alternativi, non posso non pretendere al contempo che scuola ed università smettano d’essere l’espressione istituzionalizzata di un sistema di potere che s’oppone in ogni modo ai principi d’uguaglianza su cui si fonda la nostra Repubblica. E se ammettiamo che la forza della donna sta non nell’identificarsi, ma nel rifiutare la cultura nella misura in cui ella stessa ne è sempre stata rifiutata, non possiamo non esigere di conseguenza che la scuola fornisca un’educazione al ruolo di alterità che questa ha ed ha avuto rispetto a quanto rappresentato dal maschile nella storia.
Uno dei temi su cui ci si è interrogati è quello che riguarda il potere delle narrazioni nella costruzione dell’immaginario delle comunità. Mentre leggevo delle disparità educative che riguardano bambine e bambini già nei primi cicli d’istruzione, mi sono imbattuta in uno studio del 1995 di due psicologi sociali, Steele e Aronson, che tentava di spiegare le cause per cui gli studenti afro-americani tendessero a ottenere risultati peggiori dei bianchi in test standardizzati, anche a parità di condizione economica e livello di studio. Le ricerche da loro effettuate dimostrarono come l’esistenza di uno stereotipo appartenente ad una data categoria (in questo caso quello razzista dell’inferiorità intellettuale degli afroamericani) finisse nella maggior parte dei casi per interferire negativamente sulle prestazioni di quanti da tale stereotipo fossero investiti. L’esperimento è stato replicato una decina d’anni fa qui in Italia, relativamente a uno stereotipo di genere, questa volta: bambine e bambini furono divisi in due gruppi per effettuare un test di matematica, con uno dei gruppi sottoposto prima del test alla minaccia dello stereotipo (il termine tecnico con cui viene definito questo effetto) tramite una vignetta che rappresentava nove famosi matematici uomini e una donna e l’altro che funzionava da gruppo di controllo, in cui la vignetta rappresentava nove fiori e un frutto. Non dico nemmeno in quale gruppo i risultati si sono rivelati i peggiori.
Allora, se riconosciamo il ruolo centrale delle narrazioni nel dare vita alla nostra forma mentis, non possiamo non occuparci della marea di narrazioni che a scuola ci sommergono. Se siamo pronti ad ammettere un futuro che non ricalchi gli errori del passato, non possiamo pensare di realizzarlo prescindendo l’educazione. E questo non significa non leggere più alle bambine la storia di Biancaneve o di Cappuccetto Rosso, ma farlo spiegando anche le ragioni per cui esse non avrebbero mai potuto salvarsi da sole.
Ammetterò che nel preparare questo intervento ho avuto molti dubbi. Mi sono chiesta a lungo se le mie parole potessero davvero apportare un contributo significativo rispetto all’esperienza di chi mi sarei trovata di fronte. Se non corressi forse il rischio, col mio parlare di giovane e inesperta, di spalancare porte già aperte, o di risultare ingenuamente ignara di verità più grandi di me sul sistema educativo italiano che a quanti ne fanno parte solo come studenti sono negate. D’altronde è stata anche questa la critica mossa qualche mese fa da un certo professore di Lettere dell’università di Trento in risposta all’intervento di Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi alla Normale di Pisa. Ma se è la nostra inesperienza di persone giovani a permetterci di non dare per scontate tutte le criticità di un sistema dal quale, nonostante il nostro coinvolgimento, abbiamo deciso di non lasciarci fagocitare, rinunciando così a qualsiasi autonomia di pensiero nel timore d’esserne esclusi, allora ritengo che quell’inesperienza sia da accogliere con la stessa considerazione solitamente riservata agli addetti ai lavori. Ed è vero che i dati allarmanti che sono stati citati durante la cerimonia non hanno niente di nuovo. Che potremmo andare avanti per ore a discutere di come gli stereotipi di genere di cui è foriera la nostra educazione continuino a disincentivare moltissime ragazze dalla frequentazione di corsi universitari a indirizzo tecnico-scientifico, di come nonostante queste abbiano in media un migliore rendimento nel corso di tutta l’esperienza formativa siano penalizzate in termini d’occupazione e di retribuzione. Di come l’Italia presenti il più ampio divario di genere tra i Paesi Ocse per laureati nel settore educativo, di cui le donne rappresentano oltre il 90%, perché la figura dell’insegnante è ancora troppo spesso assimilata nell’immaginario comune a quella materna. Di come poi salendo di grado d’istruzione il corpo docente diventi sempre più marcatamente maschile, al punto da lasciare in Università solo il 20% di donne fra i docenti ordinari e il 7% fra i Rettori.
Ma se è vero che i problemi sono già noti, è anche vero che le sono, o almeno dovrebbero esserlo, le possibili soluzioni: in una delle ultime puntate del podcast cui ho partecipato, abbiamo parlato con un’attivista di Non Una di Meno (per chi non lo sapesse: un collettivo politico transfemminista intersezionale, attivo su tutto il territorio italiano e a livello globale) non solo dell’attività del collettivo ma anche del piano (Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere) che ormai da qualche anno questo ha steso. Il piano s’occupa d’una serie di questioni centrali nel discorso femminista attuale, proponendo delle misure concrete per risolverle, a partire appunto dall’educazione. Si parla ad esempio di aggiornamento dei manuali, che non solo ricalcano sostanzialmente la falsariga degli ormai decaduti programmi ministeriali ma sono spesso carichi dei più disparati stereotipi di genere. Si parla di una rilettura della storia coloniale italiana ed europea che tenga conto dei nessi tra sessismo, razzializzazione e sfruttamento. Si parla di una disposizione diversa delle classi, in senso materiale e metodologico, che abbandoni una volta per tutti gli schemi di frontalità e verticalità adottati finora, per abbracciare la costruzione di un sapere orizzontale, partecipato attivamente e in grado di fornire capacità d’analisi critica sul mondo. Si parla di definire percorsi di formazione dal basso dei docenti, adeguatamente retribuiti, capaci di rompere quel ciclo di trasmissione e riproduzione di un sapere fortemente contaminato dal sessismo che permea e sostanzia la cultura tradizionalmente fornita dal sistema scolastico e universitario, d’introduzione dell’educazione sessuale tra le materie curriculari. Si parla, infine, di valorizzazione e ampliamento dei dipartimenti di studi di genere in Italia, nonché dell’incentivazione di luoghi di diffusione di culture e pratiche femministe nelle università, capaci di contaminare altri saperi e dipartimenti.
Credo allora che la domanda da porsi di fronte al continuo impegno di collettivi come NUDM nel fornire risposte a problemi di cui troppo spesso pare ci si voglia educare solo a titolo informativo, a questo punto, non sia tanto se siamo o meno consapevoli delle questioni problematiche legate al genere cui le ragazze vanno incontro ovunque nella vita, a partire dal loro percorso formativo, ma se siamo o meno disposti ad ascoltare e a difendere le soluzioni che ’esse ci presentano. Credo anche che le occasioni in cui, come oggi, sono persone giovani a prendere la parola e a offrire la loro prospettiva sul mondo non debbano essere un punto di arrivo, messa domenicale che lava la coscienza dai peccati del quotidiano, ma l’inizio d’un modo diverso di considerare e includere nel discorso politico e culturale sguardi diversi, di riconoscergli un’autonomia che è il primo passo per ogni innovazione.
Se sono qui oggi è perché mi piace pensare che sia sempre possibile cambiare la strada che finora si è imboccata, che non ci siano destini prestabiliti ma possibilità che ogni giorno scegliamo o non scegliamo di costruire. Mi piace pensare che per ogni persona convinta che la scuola debba insegnare ad adeguarci e giocare alle regole del gioco, non importa quanti queste lascino indietro, ce ne sia almeno un’altra consapevole di come la vera sfida stia proprio nell’educare coscienze critiche libere, capaci di riconoscere e sfidare le regole ingiuste.
Perché ritengo che l’oppressione delle donne non sia l’unico destino possibile cui ha condotto una qualche minorazione naturale, ma uno dei tanti che s’avverato per un insieme di ragioni estremamente complesse che è doveroso ricostruire nell’indagine conoscitiva e decostruire nell’azione. E perché spero, in definitiva, che le ragazze di domani non debbano essere costrette, per ricevere una formazione adeguata, a rivolgersi al di fuori del recinto di una scuola che evidentemente non è mai stata pensata a loro misura.
Tutte le ragazze avanti!, a cura di Giusi Marchetta, Add, Torino 2018
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